Il lato oscuro della bioplastica
Ugo Bardi, docente presso la facoltà di Scienze dell’università di Firenze, in un articolo del suo blog su "Il Fatto Quotidiano" ha fatto il punto sulla questione bioplastica, evidenziando come non si tratti di una soluzione risolutiva. Scopriamo i dettagli del suo approfondimento.

Ne parlano (fortunatamente) tutti, qualcuno con interesse, altri con distacco, ma l’attenzione mediatica rivolta al problema sta crescendo sempre più: ci riferiamo all’annosa e gravosa  criticità della plastica, che afflige sempre più la salute del nostro pianeta. Non si tratta di un argomento lontano dai nostri interessi, o meglio, non dovrebbe, in quanto è l’intero ecosistema ad essere minacciato dall’inquinamento di questo materiale, uomo compreso. Per far fronte a questa emergenza globale, negli ultimi tempi, sembra essersi incoronato a paladino della giustizia, o, in questo caso, del riciclo, la bioplastica. Quest’ultima, secondo la definizione data dalla European Bioplastics, è un tipo di plastica che può essere biodegradabile, a base biologica (bio-based) o possedere entrambe le peculiarità. Sicuramente è un passo avanti rispetto a quella standard, ma non è sufficiente. Ebbene sì, non basta la dicitura bio a renderla utilizzabile a cuor leggero, perché non è così amica dell’ambiente come sembra e, soprattutto, non risulta semplice l’eventuale riciclo.

A mettere ulteriormente in luce la questione ci ha pensato Ugo Bardi, docente presso la facoltà di Scienze dell’università di Firenze, con un articolo sul suo blog ne Il Fatto Quotidiano (cliccando qui è possibile leggere integralmente lo scritto in questione). “Un problema – si legge in un estratto – è che non riusciamo a riciclare più del 25% della plastica in commercio. E siccome si parte da materiali non rinnovabili, non è veramente un ciclo: la plastica la possiamo riutilizzare solo una volta, forse due, ma non di più. Alla fine, deve andare per forza all’inceneritore, in discarica, oppure dispersa nell’ambiente, da dove poi ce la ritroveremo nel piatto in forma di microscopiche particelle. Per non parlare dei danni in termini di riscaldamento globale: la maggior parte di questa plastica finirà per diventare CO2 addizionale nell’atmosfera”.

Il professore ha inoltre evidenziato come la bioplastica stia invadendo il mercato, soprattutto quella usa e getta, nonostante gli alti prezzi di produzione e le difficoltà del riciclo negli impianti di compostaggio. Mattei, infatti, ha spiegato che – sacchetti del supermercato a parte – posate o altri oggetti in bioplastica restano prevalentemente interi o si frammentano in micropezzetti che rendono il compost inutilizzabile. “Non sarebbe tanto più semplice andare alla fonte – si chiede Bardi nel suo approfondimento – ovvero ridurre la quantità di plastica e di bioplastica che entra nel mercato? Questo si può fare per via legislativa a costo zero o quasi, evitando perlomeno gli sprechi più evidenti. Ovviamente, non si può abolire completamente la plastica per tante ragioni ma, per una volta, potremmo pensare a semplificarci la vita invece che a renderla più complicata”. Come sottolineato dal docente esistono degli impianti ad hoc per le microplastiche, ma il problema è alla base: perché non rinunciarvi definitivamente? Il riciclo, il riuso e la bioplastica hanno sì i loro lati ‘positivi’, ma sono effimere armi di una battaglia che non sarebbe nemmeno da combattere se tutti rinunciassimo all’usa e getta, il vero nemico.


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