Vivere per 5 mesi sotto i ponti per trasformare una paura: intervista a Paolo Pallavidino
Paolo Pallavidino, 48enne piemontese, ha vissuto per anni nel timore di diventare un senzatetto. Dopo un percorso di consapevolezza individuale, ha quindi deciso di affrontare la sua paura trascorrendo 5 mesi per strada per "cavalcare il suo drago". Lo abbiamo incontrato per farci raccontare cosa abbia appreso da questa esperienza e cosa lo abbia portato a scrivere e pubblicare il libro "Vado a vivere sotto i ponti".

Tutti noi abbiamo delle paure. Sono tante, numerose, vecchie, nuove. Alcune le portiamo dietro dall’infanzia, altre sopraggiungono inattese. Alcune le superiamo. Altre no. Come le nuvole, vanno, vengono e qualche volta ritornano. Ma spesso bisogna fare i conti con i nostri timori: ci condizionano, non ci fanno vivere la vita con reale serenità. Spesso ci sembrano troppo grandi, ostacoli insormontabili e, rassegnati, ci pieghiamo a loro, decidendo di conviverci. La storia di Paolo Pallavidino, però, dimostra che qualunque paura possa essere superata, anche la più estrema. Il 48enne, che vive tra Torino, Asti e la Valchiusella, ha sempre avuto un timore nella vita: finire sotto i ponti se qualcosa nella sua vita fosse andato storto. Un’inquietudine che, come uno spettro, l’ha sempre accompagnato e condizionato negli anni. Una volta presa coscienza di ciò, ha però deciso di affrontare la sua paura in un modo difficilmente immaginabile: vivendola. Sì, Paolo ha deciso consapevolmente di trascorrere 5 mesi, da novembre 2017 ad aprile 2018, come senzatetto, con uno zaino e un sacco a pelo. Senza soldi.
Di questa esperienza, Paolo ha scritto un libro, intitolato Vado a Vivere Sotto i Ponti – 5 mesi in strada per affrontare il mio drago edito da Amrita. Nella nostra intervista abbiamo ripercorso con lui le tappe principali, immergendoci nel suo processo di trasformazione. Un percorso articolato da cui, come da lui rivelato, ne è uscito diverso, migliore, per se stesso e per i suoi cari.

Come si supera una paura?
Penso che ci siano diversi modi e approcci. Il primo step è riconoscerla, circoscrivere di che paura si tratta e avere il coraggio di darle un nome, vedendo come si muove dentro di sé e che reazione si ha di fronte a quella. Questo è il primo passaggio per superarla o, per me meglio dire, trasformarla. È come un’energia: prima ci blocca, ma poi diventa propulsiva, perché in qualche modo arriviamo a guidarla noi, anziché a essere guidati. 
Una volta compresa di quale paura si tratta, il secondo step è cominciare ad andarci incontro, definire un piano di avvicinamento con un approccio psicologico, spirituale e di movimento. In questo processo è fondamentale immaginare una tempistica per capire quando affrontare il proprio drago (così chiamo le mie paure).
La terza fase è attraversarla, incontrarla, e i modi possono essere diversi a seconda dell’approccio, ossia mentale o fisico. Prima di buttarsi in una paura, però, bisogna costruirsi uno spazio di sicurezza e fiducia, magari accompagnati da professionisti o amici.

Cosa ti ha portato a compiere un gesto così estremo come quello di andare a vivere sotto i ponti? Qual è stata la scintilla?
È stata l’aver riconosciuto in maniera chiara quale fosse la mia paura ogni volta che dovevo fare una scelta coraggiosa. Mi ascoltavo e sentivo che quando c’era una strada da seguire – ‘suggerita’ da cuore, corpo e pancia – mi bloccavo perché la ritenevo meno sicura. Così, tradendomi, percorrevo le strade meno incerte, anche se era quello che non volevo. Il risultato? Mi ritrovavo a essere sempre insoddisfatto perché la mia vita aveva questa dinamica continuamente.
Ho notato, poi, che le scelte in questione riguardavano soprattutto il lavoro e l’economia: avevo sempre un ‘retro-pensiero’ che mi suggeriva di fare la mossa più sicura, perché se fosse andato male qualcosa sarei andato a vivere ‘sotto i ponti’. Era lo stesso timore che ‘respiravo’ da mio papà: aveva un’ottima posizione e lavoro, ma aveva quella paura che io col tempo ho assorbito… ed era la stessa paura di mio nonno! Tutto ciò era interiore, non era facile da cogliere, ma quando me ne sono accorto ho capito che se volevo cambiare la mia vita dovevo cavalcare il mio drago. Sarebbe stata l’occasione per vedere come il mio corpo e la mia mente avrebbero reagito. Quindi mi sono preso del tempo per digerirla, per comunicarla e per organizzarla. E ho capito, dopo un lungo processo emotivo personale, che dovevo fare 5 mesi, da novembre ad aprile, in strada, senza programmare nulla.

Come hanno preso la tua scelta amici e familiari?
In modo molto diverso: una parte di amici e mio figlio maggiore, che hanno intuito la mia idea di voler trasformare la paura, mi hanno supportato. Altri, invece, si collocavano in una via di mezzo, nella prudenza. Alcuni, invece, non riuscivano proprio a comprendere le mie intenzioni. Mi domandavano: “Hai 40 anni e ti metti a fare questa cosa?”.  Ma è stato bello raccogliere diverse sfumature nelle reazioni. In ogni caso, tutti mi hanno fatto capire che se per me era importante affrontare la paura così, mi avrebbero appoggiato. Mio papà, con cui avevo dei grandi irrisolti relazionali, è quello che ha fatto più fatica ad accettare e comprendere la mia azione. In seguito, però, la nostra relazione è quella che ne ha giovato di più.
A lavoro, poi, ho comunicato che per 5 mesi non ci sarei stato, ma così non avrei potuto pagare gli alimenti ai miei figli. In quest’ottica ho avviato una campagna di crowdfunding che è andata a buon fine, ma anche questa fase pre-esperienza è stata complessa: c’era la paura di chiedere, di essere giudicato. E se nessuno avesse donato? Già questa è stata un’azione potente che mi ha fatto paura. Alla fine sono comunque riuscito a mettermi in gioco e in un mese ho raccolto la cifra necessaria. A quel punto ho potuto iniziare la mia avventura.

Cosa ti mancava di più della quotidianità precedente durante i mesi in strada?
Le relazioni affettive, che possono essere gli amici, la famiglia, la compagna e/o i figli. Ma è stata un’esperienza talmente forte – sapevo inoltre che mi stava dando tanto e che le relazioni le avrei rivissute – al punto che non mi mancavano così tanto, anche perché la nuova quotidianità era un viaggio continuo e mettevo tanta energia in ogni parte della giornata. Ho constatato, comunque, che per le altre persone che conducevano una vita per strada l’elemento affettivo era la chiave per potersi sollevare o, in caso di assenza di cari, sprofondare.

Quanto ha influito il fatto che la paura sia stata tramandata da nonno e padre?
La mia idea è che le paure ereditate siano quelle più annidate nel profondo e siano le più complesse da vedere in maniera chiara. Per superare i timori che si sono tramandati bisogna fare un grande lavoro su se stessi teso a trasformare questo tipo di paure. Così è possibile arrivare a una trasformazione di sé: una volta che ci si toglie queste zavorre, si avrà una quotidianità più piena, vitale e creativa.

Qual era la tua ‘giornata tipo’?
Avevo diversi appuntamenti fissi: il bagno in un centro commerciale o alle fontanelle, la colazione dalle suore, il pranzo alla mensa dei frati, tra le 16 e le 17 tappa alla mensa serale e infine tra le 20.30 e le 21 in galleria a Torino, preparavo la mia ‘tana’ per la notte. Oltre a questa ordinarietà, di giorno capitava che suonassi il pianoforte alla stazione di Porta Nuova e spesso alla sera che dialogassi con altre persone nella mia stessa situazione. In generale, ogni giornata portava con sé una dimensione differente, era tutto un divenire, una sorpresa costante.

Quando e come mai ha deciso di tornare alla vita di prima?
I 5 mesi sono stati frutto di un’intuizione. Una mattina mi sono alzato con una ‘voce-pensiero’: la mia esperienza doveva durare da novembre ad aprile. Non so perché 5 mesi e perché proprio in inverno, ma ho avuto quel pensiero e ho deciso di farlo diventare realtà. Questa avventura fa parte del mio percorso di vita, come padre, professionista, compagno. L’ho vissuto come un viaggio. C’è chi fa cammino di Santiago, chi sta due mesi in un isola… io l’ho vissuta allo stesso modo, come un percorso introspettivo elaborato attraverso il corpo.

C’è un aneddoto particolarmente significativo di quel periodo che ti è rimasto impresso?
Sì, c’è stato un episodio che è avvenuto all’inizio dell’esperienza: una notte, dopo 3 giorni in strada, un individuo ha cercato di rubarmi quel poco che avevo con me mentre dormivo. In realtà, all’aperto non si ha mai un sonno profondo, e così ho sentito che qualcuno stava rovistando tra le mie cose. Mi sono alzato e repentinamente e il soggetto ha minimizzato dicendomi “scusa, pensavo fossi Andrea”. Questo individuo è poi andato via, ma dopo mezzora è tornato a rubare alla senzatetto che era vicino a me. In quel momento ho osservato senza fare nulla. Ho pensato: “Magari se reagisco torna da me con un coltello, magari mi picchia, magari mi attacca con altri ignoti per farmi male…” e con questi pensieri non ho fatto nulla per difendere l’altra persona che è stata derubata di tutto ciò che aveva con sé. Io ero lì immobile, bloccato dalla paura di non sopravvivere, ma dall’altra parte stavo male a vedere un’ingiustizia simile senza intervenire. È stato un momento difficile e delicato per me, anche nei giorni seguenti.

Cosa ti è rimasto dei 5 mesi di esperienza? Perché ha deciso di scriverci un libro?
Di quei mesi mi sono rimaste due ‘cose’: la prima è aver sciolto e risolto una relazione problematica che avevo col denaro. La seconda riguarda il rapporto con mio padre: non solo ho smesso di chiedergli soldi quando ne avevo bisogno, ma abbiamo superato un rapporto difficile. L’esperienza sotto i ponti mi ha permesso di superare le mie paure, o meglio di cavalcare il drago.
Il libro l’ho scritto perché Daniela Muggia, di Amrita Edizioni, mi ha proposto di lavorarci dopo aver ascoltato un mio incontro pubblico sulla mia avventura. Così ci siamo confrontati e mi ha dato molti suggerimenti utili. Il volume è stato, per così dire, in gestazione per un anno, ma la morte di mio papà mi ha dato l’input per raccontare finalmente la mia esperienza e in breve tempo ho poi terminato il libro. 

L’arte e la cultura possono essere degli strumenti per superare una paura?
Certo! Sono uno dei cardini per mettersi in gioco, per uscire in modo sicuro e protetto dalla propria zona di comfort. Sono una chiave d’accesso potente. L’arte come strumento di conoscenza è fondamentale, così come la cultura, che permette di scoprire da vicino, attraverso diverse testimonianze, altri mondi.

Il Terzo Paradiso si focalizza sulla ricerca di un equilibrio armonioso tra natura e artificio. Bisogna trovare un equilibrio anche con le proprie paure? Quanto è importante riuscirci?
Affinare la capacità di dire sì e di dire no con la stessa attenzione e sacralità, senza sensi di colpa o vergogna, è una delle chiavi per il proprio benessere. Se si migliora questo aspetto nella vita si può iniziare a co-creare con la parte più consapevole. Ognuno ha i suoi condizionamenti e le sue paure: sono utilissime a permetterci, una volta riconosciute, di scegliere veramente cosa è meglio per noi.

 


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