Arte dell’equilibrio #87 | Luca Olivieri, chi incontrerai?
L'artista è l'87esimo partecipante all'iniziativa "Arte dell'equilibrio/Pandemopraxia" lanciata da Cittadellarte. L'ospite di questa puntata risponde alla domanda chiave della rubrica con un testo profondo, proponendo un linguaggio a tinte poetiche: "Chi incontrerai nella distanza? Il vuoto che c’è nel troppo pieno. La saturazione dei sensi, il condizionamento per asfissia. In alternativa: il vuoto inverso, il buio interiore".

Chi incontrerai?

In parallelo al mio percorso c’è una linea esterna, estesa, che a seconda del mio sguardo coincide con la mia esistenza. A seconda del mio passo, del mio verso, questa linea assume un senso e apre a degli intrecci.

Quando misi piede per la prima volta in Cittadellarte questo senso mi arrivò chiaro, determinato. Mi vedevo specchiarmi non negli specchianti ma nello sguardo dell’artista che prima di me si era interrogato.
L’essere umano che smuove le acque per trovare il codice.

Chi incontrerai?

Il naufragio esplode. Divide. Il popolo si separa e torna al termine minimo: l’individuo.
Il naufragio è certamente drammatico. Nuotare nel cuore dell’uragano, facendo affidamento in parte sulle proprie forze, in parte nella benevolenza del fato per trovare un nuovo sistema, per meglio dire il sistema originario (si scopre dunque la nave come sovrastruttura).
Questo nuovo paradiso è la terra, l’isola deserta a cui giungiamo.
Chi incontrerai in questo vuoto?

Chi ti farà da scorta? Chi costruirà i tuoi utensili? Produrrà il tuo cibo?
Chi incontrerai nella distanza?
Il vuoto che c’è nel troppo pieno. La saturazione dei sensi, il condizionamento per asfissia.
In alternativa: il vuoto inverso, il buio interiore.

In questi interrogativi si specchia un solo io. Incontrare sé stessi, tornare al proprio buio e tastare le pareti umide del proprio vuoto. Ciò che non siamo. Ciò che manca.
Guardarsi nello specchio della solitudine senza riflessi, senza interferenze della radio di bordo.
Il primo incontro necessario dunque: il sé. Tutti noi, o quasi, ci siamo guardati negli occhi.
Integrare il buio. E quando i propri demoni saranno stati liberati, bisognerà guardare anche loro negli occhi, ‘com-prenderli’ e sentire le loro ragioni. Torneranno in sordina allora, ma saranno validi alleati, saggi consiglieri che ci ricorderanno però giornalmente di essere attenti, consapevoli.
Torniamo all’isola ora, ai suoi frutti, alle sue possibilità. L’individuo che ha guardato il suo buio ora può lavorare sul vuoto. La distanza da ciò che conosceva. Il mondo nuovo si fa antico, il mondo antico è ora il nuovo. Forgiato da un atteggiamento evolutivo il nuovo individuo si disporrà sulla terra con uno sguardo vasto, aperto. Incontrerà l’altro, dunque, il fuori da sé. Lo riconoscerà degno di esistenza nonostante la diversità. Tornare a sacralizzare. Ogni essere vivente è dunque l’altro, e in quanto tale, compagno in questo percorso.

Il naufragio lascia crollare i palazzi, scopre la base e la espone alle intemperie. Quando la realtà rivela la sua natura illusoria abbiamo la possibilità di ripensarla. Ci si accorge del vuoto contenuto in queste costruzioni. Tabula rasa.
Ogni essere, ogni umano, animale, pianta, minerale ha in sé un tassello di un piano universale e il modo non può essere il dominio, ma solo la collaborazione. Rivedere il vuoto dunque nel sacralizzarlo, innalzarlo. Destrutturare ciò che appare solido, storicizzato. Infiltrarsi nelle crepe per giungere alle radici e allora liberarle, conoscerle e aiutarle a sorgere anziché comprimerle in blocchi di cemento.

Tanto è il potere personale che un singolo umano può concedersi
Tanto è il suo nefasto ottundersi, accumulando nodi, ereditando inconsapevolezza.
Come s’insegna l’inclinazione – alla bellezza
Si consegna il vuoto – si contagia con il caos.

Ciò che è stato sciolto – dovrà esserlo. O la matassa crescerà, fino a colonizzare mondi
Invalidando posizioni altre, coprendo il resto.

Un figlio eredita il dovere sciogliere – i nodi del suo albero,
ed è evitandoli che incapperà nelle sue trappole, inciamperà nel crescere dei nodi.
Ereditare una linea – comporta conoscenza – esperienza – responsabilità.

Una linea risolta – si fa sentiero – consapevole.
Una linea in svolgimento è una foresta. Fatta di percorsi tracciati e percorsi da tracciare.
Una linea in svolgimento – è tenere in mano la propria percezione – snocciolare i propri nodi
Come con un rosario da trasformare.

Una linea intrecciata, confusa, stretta è una condanna. Un maleficio psicogenetico che portiamo nel taschino. Un ninnolo che ci giriamo tra le dita, e che dimenticando vivifichiamo.
Una linea non più linea ambisce sempre al riordino – andando agli estremi
E se nessun intento sfilaccerà la nebulosa – questa continuerà a stringersi. Raggrumarsi.

Tutto ciò che non viene sciolto – tenderà al comprimersi – attrarrà il fuoco
Una linea di caos cercherà le forbici – tagliare per restituire.
Una non-linea cercherà d’implodere – avanzerà occhiolini alla disfatta
Per tornare ad avere un capo e una coda.

T’incontrerai? O preferirai fare branco?
Sarai chi si è visto o chi è visto? Cadrai nello specchio senza toccare il fondo
O rimarrai sulla placida superficie, galleggiando sull’ombra
Dei tuoi zigomi pronunciati?

Nel momento in cui disporrai della tua linea
Finalmente inizierai a tesserti
E costruirai a partire – da fondamenta che hai gettato tu
E non da una base che ti è stata appioppata – già piena di pieni e di vuoti
Una casa popolata di fantasmi
E direzioni incise, colate sulla tua pelle – bruciandola.

Voglio esplorare il freddo
Per poi sapere il sole ed esserlo,
voglio fiorire
come infestante
e non fermarmi alla mia ringhiera
o alla parete di un luogo.

Che le mie radici scavino – fino all’ultimo
Per dare il nutrimento ai rami che io sceglierò.

Chi incontrerai seguendo il sentiero già battuto? Cosa accadrà?
Chi incontrerai entrando nel vuoto? Cosa diventerai?

Iniziare a dipanare la propria matassa – in un certo senso
È lasciare la strada che ci è stata indicata
Venire a capo di enigmi che ci sono stati affidati e che non ci appartengono
Ma che se vengono lasciati nell’ombra – influenzeranno le nostre scelte
Ci si stringeranno addosso come organi parassiti – costringendoci a essere
Ciò che non vorremmo. Saremo allora incarnazione del passato,
porteremo la matassa – come staffette nella nebbia – fino a chi elevando la propria coscienza –
deciderà di districarla – o romperla.

Ogni albero tocca e mastica la stessa terra,
tutte le radici
alla fine di ogni ramo vi è un frutto,
l’individuo – contenente moltitudini

e i semi saranno gli alberi,
la nuova aria.

Chi incontrerai?

Muovendoti, un sacerdote. Restando, presa sulle cose.

Chi incontrerai nel buio?
Gli occhi saranno pronti?

E se vedessi solo la coltre che deponi
a ogni mossa,

e questa fosse il tuo cervello?

L’Arte è fredda
ma dà il caldo

la Poesia lo capisce.

 

Potrei chiedermelo all’infinito, chi incontrerai?

La risposta sarebbe piana, piccola, continua.

Ognuno di noi è un mondo a sé, calamita con la terra. Ognuno di noi si vaga attorno, si attraversa.
Il sotterfugio siamo noi a montarlo, deresponsabilizzando. Ogni volta che scansiamo lo sguardo dalla strada che ci stiamo mettendo sotto ai piedi fingiamo, spostiamo un peso come una pedina verso un angolo aperto e ci limitiamo a tirare dritti. Assumiamo che non ci riguardi, che sia già troppo tardi per scegliere e la comodità che ci è stata assegnata di diritto in questo pantheon non sia barattabile. Così ci si sensibilizza di conseguenza, adattandosi al settaggio che propone la comunità mediatica, ci si imposta sullo standard che ci permetterà di non apparire disumani senza però rinunciare ai frutti della disumanità. L’opinione si scaglia contro il singolo, contro l’evento.

È giusta la morte se mi delizia. È giusta se si vergogna di questo e si nasconde. È giusta la morte se è collettiva e non uno sport da ricchi.

È giusto differenziare se giungeranno proventi e avrò qualcosa di meglio rispetto a chi dice che è giusto accettare un compromesso.

Non ci è necessario, ci è di piacere. Non ci è essenziale ma lo vogliamo, abbondanza nel poter sputare. Abbondanza nel dimenticare come le cose si fanno, come sono fatte, come funzionano.

I bambini hanno bisogno di sporco per crescere, di noia per desiderare e inventare. L’abbondanza crea pieno e il pieno soffoca. Il vuoto è necessario per muovere verso. Senza uno spazio l’abbondanza non è più una condizione di prosperità di cui gioire, si fa carenza di ricerca.

Il pieno diventa vuoto e il vuoto pieno di cui gli umani hanno fame.
Così il cerchio si chiude, in un’ode all’insaziabilità, un elogio alla paura e alle sue conseguenze.

Ciò che impariamo come normale non è altro che un iniziare a vedere da sopra la coltre.
Ciò che crediamo giusto è ciò che si può tollerare. Si è al sicuro dall’occhio che vuole sempre la sua parte.

L’unica mossa possibile è tornare alla radice, togliersi il sapere di dosso.

 


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