L’epoca senza prospettive
"Come si potrà contare su acqua potabile, cibo in quantità e condizioni di vita almeno pari a quelle già ottenute, se siamo in presenza di scarsità di tutto?" Vi proponiamo un testo di Francesco Bernabei.

La nostra contemporaneità non ha ancora prodotto idee di cambiamento tali da poter fare la differenza per la miriade di stimoli che ci piovono collettivamente addosso da ogni dove. La spasmodica ricerca di una dimensione di libertà civile e sociale, individuale e di gruppo è approdata, dopo cinque secoli di tentativi, alla soluzione contrattuale e apparentemente pacifica del commercio: la libertà può essere garantita a chiunque sia in grado di produrre e vendere i propri beni e servizi. Chi è padrone del proprio tempo- lavoro venderà i prodotti, chi non lo è, eserciterà una professione: con questa sentenza, ci si è lanciati in una crescita esponenziale che ha superato nei fatti – ma non nelle idee – tutti i problemi derivanti dal confronto sociale e dall’ineguaglianza di nascita e di posizione.

Non si è sentito più il bisogno di separarsi o segregarsi socialmente dal momento che a tutti è stato dato a sufficienza sia pure con grande variabilità. La lenta digestione di un secolo come il ventesimo ci ha portato a riflettere nuovamente adesso sulle differenze fra gli esseri umani ma siamo su di un altro livello di discussione: non si tratta più di decidere chi abbia più diritto o diritti o quale razza – ammesso che ancora crediamo al concetto di razza – debba governare, si dibatte collegialmente solo sul “salvarsi”.

Il problema ecologico, nato quando ci si è resi conto che stavamo modificando l’ecosistema particolare e generale tanto profondamente da stravolgerlo, oggi è dato per perso: inquinate l’aria e l’acqua, desertificate le terre, ridotte drasticamente le popolazioni animali selvagge, non ci resta che vivere in grandi e comode città dove però non c’è posto per tutti e si è costretti a vivere in una condizione via via deteriore.

Il sovrappopolamento, l’aumento esponenziale dell’umanità, un’umanità che non può accontentarsi di poco come ha sempre fatto in passato ma che richiede diritti e cure come ha imparato a fare nel novecento, è vissuto come il motore di tutto il peggioramento generale: qualunque tentativo anche solo intellettuale di miglioramento naufraga davanti ad una marea crescente di individui incontentabili.

L’accesso alle risorse è la preoccupazione successiva: come si potrà contare su acqua potabile, cibo in quantità e condizioni di vita almeno pari a quelle già ottenute, se siamo in presenza di scarsità di tutto?

La tecnologia aveva prodotto la visione salvifica: sarebbe bastato trovare la tecnica giusta e si sarebbe potuto estrarre acqua dall’aria, dissalare i mari, produrre energia dall’aria e dal sole, popolare i deserti e vivere in aree inospitali e forse far sopravvivere gli ecosistemi. Ma la tecnologia costa e gli stati non sono inclini a fare investimenti per il benessere di tutti, semmai per le proprie genti e per qualcuno o qualcosa in più ma non oltre…inoltre tecnologia significa beni e servizi che devono essere venduti commercialmente e pertanto non sono veramente per tutti già per definizione. Inoltre non si può chiedere a chi sta vivendo un problema presente di rinunciare a se stesso e di investire su di un futuro di cui potrebbe non fare parte. Non si può quindi puntare su di un sacrificio di una parte per il tutto.

Venute meno le speranze non restano che le ipotesi di distruzione e, tolta l’ipotesi “asteroide” cioè di una “bella” distruzione di massa operata da un agente esterno, rimangono in piedi la terza guerra mondiale, di cui già si ravvisano i segni nei conflitti attualmente in essere, l’epidemia globale dovuta ad una forma virale o batterica non fermabile e in grado di infettare ed eliminare una fetta di umanità per ritornare all’equilibrio precedente, sempre secondo l’idea che ci fosse un equilibrio prima, e il semplice caro – perché equo – disastro naturale che sprofondando terre qua e là o eruttando lava nei punti giusti produce la stessa riduzione funzionale…

E’ interessante notare che la macchina della fantasia, il cinema, ci propone continuamente l’idea che non c’è speranza e che siamo arrivati ad un tempo nel quale non si può più decidere perché è semplicemente troppo tardi: è curioso che dopo gli zombie – simbolo di un’umanità in uno stato curiosamente animale e “imbarazzantemente” solo biologico -, i vampiri – simbolo di un’elite di esseri prima umani che vive a spese dei propri simili ma nel diritto di non essere veramente come loro -, gli alieni – simbolo di un possibile percorso evolutivo che ritorna a noi solo per distruggerci con il puro diritto della forza che deriva da una tecnologia solo più progredita nel fare ma non nel pensare -, siamo approdati all’idea di cambiare pianeta e magari andare a vivere su marte o su di un altro schema galattico, confidando sul fatto che tanto prima o poi ci arriveremo.

Anche nella fantasia quindi siamo condannati a non poter andare oltre lo stato attuale ma, in ultima analisi, cosa ci tratterrebbe dal pensare “meglio”? Quale sarebbe quella tara individuale e globale che rende inaccessibile la possibilità di adottare quanto abbiamo imparato essere migliore e metterlo in pratica? Perché sarebbe più difficile, ad esempio, immaginare un processo di pacificazione piuttosto che il solito scenario di guerra distruttiva che in termini di risorse e conseguenze costerebbe anche tanto di più?

Il punto è che ci siamo formati in un’epoca di risposte troppo semplici, dove una nazione poteva dirigersi o sperare o illudersi di farlo sufficientemente da sola e un individuo poteva contare su se stesso e la propria capacità di lavorare o almeno provarci: oggi non è più così perché siamo interconnessi e, se non ci occupiamo degli altri veramente, i loro problemi diventano i nostri. Si sono ridotti gli spazi e le distanze, le differenze culturali hanno cessato di essere fatti esotici o al più etnologici e abitano spesso nello stesso quartiere condividendo anche il medesimo pianerottolo: quasi in ogni ambito quello che prima era un’ipotesi da rigettare violentemente, adesso è un fatto compiuto nell’arco di una generazione.

La mancanza di prospettive che stiamo avvertendo non è dovuta a nient’altro che la diffusa incapacità di superare gli schemi delle generazioni che ci hanno preceduto e che, in qualche modo, governano ancora tante scelte: non è richiesto un nuovo violento salto generazionale come è successo negli anni sessanta e settanta ma una revisione matura delle possibilità migliori che abbiamo e operare le scelte in quella direzione senza produrre sperequazioni o logiche segregative. Se ancora non abbiamo queste capacità ideative, è proprio perché non abbiamo investito culturalmente in nuove possibilità non credendoci praticamente e condannando a qualche livello il presente e il futuro prossimo a quello che è stato scelto e vagliato come unicamente vero in passato.

Il problema ecologico è rimasto tale perché non si sono accettate le scelte logiche che il cambiamento comportava decidendo di non pagare nessun prezzo. Il sovrappopolamento non è mai stato argomento di elaborazione collettiva di decisioni volte alla valorizzazione di tutte le aree disponibili ma di semplice esclusione e contenimento di certe fasce di umanità ritenute in qualche modo e con certo cinismo sacrificabili. Ecco perché il confronto culturale è diventato tanto duro: non si è mai nemmeno pensato di poter condividere qualcosa e convivere veramente in un nuovo senso di umanità che comprendesse tutti.

Non avendo digerito il secolo passato, adesso stiamo “trattenendo” indebitamente tutto ciò che non serve e questo ci fa fare incubi come chiunque abbia mangiato pesante e troppo. Eppure basterebbe mangiare leggero, variare la dieta e scoprire quello che produce la salute e non la malattia: quindi, fuor di metafora, sarebbe sufficiente pensare meglio e agire sempre per il meglio, sostenendoci in uno sforzo che l’umanità forse non ha mai visto ma che è veramente alla nostra portata. Non provarci nemmeno, per il semplice motivo di non cambiare veramente, significa lasciare un’eredità pesante e condurre un’esistenza che non potrà essere tanto significativa quanto dovrebbe essere quella di qualsiasi essere umano.