Poetica Dura
Vi proponiamo questo testo di Michelangelo Pistoletto del 1985, pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra “Michelangelo Pistoletto. Quarta Generazione”, alla Galleria Giorgio Persano di Torino

Arte dello squallore, arte parassita, della mortificazione. Superficie della desolazione, superficie ottusa. Un’arte repulsiva che non rappresenta niente. Arte repressa, come i paesi dove non c’è arte. Arte che toglie, arte che schiaccia, arte livida, arte squallida, uno squallore che è solo dell’arte. Squallore delle cose senz’arte, arte che asporta, arte che rende duro l’occhio e il pensiero.
Un’arte immobile, vischiosa, sfiancata.
Grigiume, nerume che va nel giallume.
Massa di idee tritate, di oggetti triturati, di significati maciullati, macerati, ammollati e compressi.
Frantumi di strumenti e di concetti: polvere stellare, schiuma cosmica, lava meteoritica, ghiaccio siderale. Fontane di colate grigiastre.
Spessori idioti di un’arte schiacciata e sbavata, faticosa come un parto. Arte senza peso e senza strumenti. Ma lorda come il brulicare di un’umanità disgustosa.
Un’arte codarda e grave che raggiunge il massimo di distanza e il massimo di lentezza senza lasciarsi sfiorare né dall’infinito né dall’immobilità. Il moto è lento come quello catastrofico dell’universo.
Alla rapidità del movimento ravvicinato, alla violenza della trasformazione, alla velocità del cambiamento nelle distanze ravvicinate, subentra la lentezza delle grandi distanze.
E la percezione della contemporaneità, al di là del tempo-spazio.
Eterocontemporaneità
endocontemporaneità
incorporeacontemporaneità.
Figure bagnate dalla luce nera di miliardi di anni ombra, piombate in un pianeta troppo colorato dalla natura troppo ricca, troppo creativa. Madre dello spreco. Troppa luce che acceca, troppa illusione.
Arte dello squallore, teatro dello squallore e dell’eroismo ostinato, logorante. Schiaffo secco sul duro, polvere appiccicata, colore fiaccato.
Massa vile tinta di colore vile, massa nobile tinta di colore vile. Sipario grigio, tende dimesse.
Visione letterale del sentimentale, letterale come la volontà mortificata, come la dignità degradata, come la verità offesa; senza altro riscatto che lo squallore.
Arte dello squallore come unico impegno, come unica possibilità, come unica forza, come unica attività. Prigione come unico luogo di libertà e soltanto la lentezza lucida, sfumata della distanza.
È la consistenza di un volume forzato.
È la velocità della tela che troviamo allontanandoci dallo specchio. Abbiamo raggiunto la velocità della tela, cioè la sua lentezza.
La lentezza delle grandi distanze nel colore intriso di squallore, che non è finzione ma è spessore. Energia sotterranea di cieli densi nella profondità del mare; senza soluzione di continuità.
Piatto agli occhi, oscuro, rossiccio, lontano da tutto e da tutti; solo. Un terribile distacco, una definitiva alterità, una fredda morbidezza. Un’errata angolosità, una forma insipida e, silenzio.
Silenzio venato, silenzio strisciato e torpore tiepido. Schiumetta e tela intrisi di stucco.
Scultura nera di figure calate nei catrami dello squallore, dai contorni lavosi.
Arte senza decoro, arte senza dolo, impatto sordo di un volume vagamente sciocco.
Non tornano i conti, quadrato che non quadra, cubo che non cuba, parallelepipedo dispari. Una mano troppo grande, una spalla troppo astratta.
Dal limbo di un pozzo profondo come il vuoto viene lo squallore che plasma le figure che guardano nel pozzo.
La fontana luminosa di un cattivo pittore, gli oggetti in meno di un’arte deludente, l’infinita polvere dello squallore brillante sul quadrato di mica.
Il rifiuto di un metro cubo. E i giganti a più stadi sotto la cupola di ogni tempio, figure torte che tornano a se stesse. Maschi che montano.
Il secondo viaggio lontano l’ho fatto nel tempo dove si ricompone la scultura. La Venere interrotta. Il terzo viaggio va più lontano.
Il primo viaggio era vicino, molto vicino allo specchio. Era il cambiamento rapido, la mutazione degli stili alla velocità della percezione. Ora anche la persona dipinta sulle superfici, ora anche le persone tornano sullo specchio, con piccoli piccolissimi cambiamenti. Fra l’uno e l’altro quadro c’è la differenza di un gesto.
Poco movimento, è la lentezza della pittura di cui sono fatte queste figure. Come la sequenza del contadino che brucia la memoria.
Dal finestrino di un treno in corsa vediamo la siepe passare a velocità vertiginosa, le case un po’ più in là sono gli oggetti in meno, un controllo veloce.
Poi le colline più lente in distanza e lontano le montagne immobili.
Ci esprimiamo a queste distanze con queste velocità. Dalla velocità degli oggetti vicini alla lentezza dello squallore lontano.
Le grandi catastrofi sono piccoli punti sbiaditi sulle tele, piccoli incidenti. Le presenze scomparse sono rimaste lì davanti agli occhi, trasportate al ritmo lento dei secoli. E ci guardiamo nello specchio del tempo che è il nostro autoritratto di stelle.
Il languore di una fame universale, la fatica che cerca il suo sonno, ovunque. L’idea assurda di una rovina che non esiste, c’è solo rovina, la rovina complessa e raffinata che produce il sangue nelle vene. Che trasforma le pietre in sassi, il cielo in tramonto e la parola in squallore.