Deautomatizzazione e contagio buono per una pandemopraxia
Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, intende argomentare come la proposta della demopraxia e il metodo di social design che vi afferisce possano offrire strumenti adeguati per le urgenti sfide che le nostre società sono chiamate ad affrontare. Il contributo si concentra in particolare su quattro abilità (creatività, dialogo, ricerca, impegno civico) assunte come dispositivi chiave per procedere lungo la strada della deautomatizzazione. L’argomentazione si sviluppa su come ridurre l’intensità della condizione di automa. Si ipotizza, infatti, che la strada tracciata da queste quattro capacità apra all’esercizio dell’autorialità. E che quest’ultima costituisca la base di ogni pratica consapevole e responsabile. Tesi centrale del testo è che la demopraxia si attui quando le organizzazioni che costituiscono il tessuto sociale (comunità di pratica) esercitano pratiche consapevoli e responsabili, quindi deautomatizzate, all’interno dei propri campi di azione e lungo le filiere e le reti di cui fanno parte. La tesi è sostenuta analizzando il funzionamento di creatività-dialogo-ricerca-impegno civico come contrappesi alle corrispondenti e opposte dinamiche psichiche e sociali. Appropriando la metafora del virus e della pandemia, il testo propone come antidoto alla mancata piena realizzazione della promessa democratica il contagio buono della demopraxia attraverso queste quattro capacità. E invita a partecipare a un laboratorio di ricerca di pratica artistica, studi culturali, scienze politiche e di intervento attivo con la sperimentazione in vivo di dispositivi di social design basati sulle pratiche partecipative di impegno civico.

La canzone dei Subsonica dedicata a Terzo Paradiso recita nel suo bellissimo finale:

Come sorriderai?
Che aria respirerai?
Come ti vestirai?
Quale lingua parlerai?
Come saluterai?
Come lavorerai?
In che cosa crederai?
Quali sogni sognerai?
Come sorriderai?
Che aria respirerai?
Come ti nutrirai?
Quale lingua parlerai?
Come saluterai?
Come lavorerai?
In che cosa crederai?
Chissà se ricorderai?
Se mi ricorderai?
Cosa ricorderai?
Se mi ricorderai?
Cosa penserai?
Se mi ricorderai?
Chissà cosa ricorderai?
Se mi ricorderai?
Quali sogni sognerai?

Questa canzone – mi si consenta un’introduzione personale – durante i mesi di marzo e aprile 2020, nel primo lockdown da Covid-19, ha contribuito a sviluppare in me l’idea che la pandemia potesse portare con sé non soltanto malattia e dolore, a livello globale, ma anche trasformazioni auspicabili se non necessarie: come la pandemia era riuscita ad estendersi a livello globale e cambiare il mondo, o almeno a porre le basi per un cambiamento realmente possibile, anche la demopraxiaavrebbe potuto estendersi alla società democratica come un virus buono.
Ma che cosa si intende con questo termine? Il concetto di demopraxia è nato intorno al 2011 a Biella, nell’ambito di Cittadellarte, fondata da Michelangelo Pistoletto negli anni ‘90. Demopraxia significa la sostituzione del cratòs con la praxis. La base di questa traccia per una filosofia politica e sociale è cioè il riconoscimento che l’ecologie di pratica svolgono funzione di microgoverni. Ancorché già operanti nel tessuto sociale, questi subgoverni sono disattivati o latenti per mancanza di autoconsapevolezza e di metodi efficaci per la loro messa a sistema. Cittadellarte e il network diffuso nel mondo di oltre 200 ambasciate Rebirth hanno sviluppato un metodo (L’arte della demopraxia, vedi http://demopraxia.org/demopraxia.html) per promuovere entrambe queste condizioni, visione per l’autoconsapevolezza e canovaccio per un metodo. Si tratta di una proposta di progettazione sociale che offre un format per un’opera di partecipazione civica fondata sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Gli obiettivi dell’Agenda (circostanza non irrilevante) sono stati presentati pubblicamente in una delle prime occasioni a livello globale, a L’Avana, Cuba, proprio nell’ambito dell’avvio della prima Opera Demopratica da parte di Cittadellarte nel novembre 2015. Il canovaccio della demopraxia prevede tre fasi o Scene (Coro con mappatura e mostra, Forum e Cantiere) ed è in corso di sperimentazione in diverse città europee, in Australia e come detto a Cuba.

Il primo lockdown da Covid-19 durante i mesi di marzo e aprile 2020 ha agito come uno stimolo a pensare se la demopraxia potesse estendersi alla società democratica come un agente patogeno buono. Nasce così un quasi manifesto ai tempi del coronavirus, intitolato alla pandemopraxia, consultabile al link http://journal.cittadellarte.it/category/pandemopraxia, e l’iniziativa (curata per Cittadellarte da Saverio Teruzzi, coordinatore della rete delle ambasciate Rebirth) che ha visto la partecipazione di quasi 100 soggettiche hanno risposto alle domande tratte o ispirate dalla canzone dei Subsonica.
Alcune caratteristiche del virus si rilevano da subito particolarmente significative.

Primo: la pandemia si trasmette attraverso lo scambio diretto fra persone. Da uno a uno. E dall’uno all’altro. Ciò che conferma che il rapporto tra due persone è la base dei fenomeni sociali; è un po’ quello che le molecole sono per la materia. Potremmo dire che il rapporto tra due individui è una molecola sociale. Questa circostanza è in piena sintonia con la teoria della demopraxia, che ascrive (per lo meno in tempi normali) alle comunità di pratica il ruolo di costruttori della vita sociale: il rapporto tra due persone è infatti il mattone di base di ogni gruppo o organizzazione più numerosa e complessa.
Secondo: il contagio tende ad avvenire nei luoghi in cui le persone trascorrono più tempo. Questi appunto sono esattamente le organizzazioni sociali che la demopraxia individua come microgoverni: gli uffici, gli ospedali, i negozi, i ristoranti… sono i luoghi e gli ambienti che chiamiamo ecologie di pratica3, organi e luoghi della demopraxia. Se mai ci fosse stato bisogno di una prova sperimentale che la società è costituita da raggruppamenti di persone e dalle relazioni fluide che tra organizzazione e organizzazione si vengono continuamente a creare e ricreare, ecco: la pandemia era questa prova. Se il rapporto tra due persone è una molecola sociale, le organizzazioni sono proteine.
Terzo: i due veicoli principali del contagio sono: scambiarsi una stretta di mano, cioè il contatto fisico, e il respiro, cioè lo spirito. La pandemia si basa sul nostro istinto a condividere corporeità e spirito, il nostro esser social, intendendo il termine social in chiave aristoteliana4, più che in riferimento alla californiana Silicon Valley patria dei social media, e in coerenza con le rivelazioni dei neuroni specchio di Rizzolatti et al5. Questo aspetto aereo, volatile del contagio dà vivida evidenza al fatto che viviamo sul fondo di un oceano d’aria e che la respirazioneci unisce gli uno agli altri (oltre che all’altro) in modo sconcertante, intimo e completo. Il virus dunque denuncia e svela il tabù dell’indecente mescolanza delle identità terrene. Respirare la stessa aria, cioè accogliere attraverso la bocca e i polmoni lo stesso fluido che già è penetrato nel corpo del nostro vicino, è una sconcezza inaccettabile perché rivela la nostra identità corporale promiscua e senza chiari confini.

In quegli angosciosi giorni del primo lockdown, alla fine di marzo 2020, reduce della malattia i cui sintomi sviluppai il 7 marzo, mi interrogavo anche io, nello sgomento di fronte all’esplosione della pandemia, sul perché un fenomeno che affliggeva la salute del mondo sembrava riuscire nell’impresa di unire gli umani in un comune destino attraverso uno dei loro istinti più belli, quello alla condivisione. Era forse quello il segreto del virus? Se si fosse trasmesso attraverso altre vie sarebbe stato altrettanto efficace? Che cosa significava che la pandemia viaggiava sospinta dalla nostra necessità di relazioni interpersonali? Che più i nostri contatti erano intimi e più il virus se ne sarebbe avvantaggiato? Mi immaginai che combattere il virus avrebbe significato limitare questa nostra tendenza alla condivisione. Quali conseguenze avrebbe portato sulla nostra psiche individuale e collettiva? Avrebbe la teoria dell’individuo versus la comunità riguadagnato presa sulle persone, proprio ora che sembrava aver perduto la sua capacità di illudere, dopo secoli di narrazione culminanti nella famosa battuta della Thatcher “…and who is society? There is no such thing! There are individual men and women and there are families and no government can do anything except through people and people look to themselves first”?

Approfondii così la riflessione su questo istinto alla condivisione che potremmo chiamare istinto ad assumere la natura di condividui7. Come si sa, questa tendenza alla socialità è stata efficacemente contrastata dalla spinta a riconoscersi invece come in/dividui, separati e persino in guerra l’uno contro l’altro, l’uno contro tutti. Le grandi narrazioni occidentali consustanziali al capitalismo di fine ottocento e inizio novecento (basti citare Darwin e Freud) hanno creato un paesaggio, uno sfondo davanti al quale si svolgono le nostre vite, disegnato per esaltare questa visione di una società parcellizzata in monadi in guerra o competizione tra loro. Queste narrazioni sono possenti, hanno un’influenza profonda su di noi. Sono presenti nel nostro animo come può essere presente e influente un monumento nella piazza dove abitiamo o come possono esserlo degli elementi naturali come le montagne e il torrente che tutti i giorni vediamo; sono delle presenze che cerchiamo spesso, anche se a volte con movimenti inconsapevoli dello sguardo. Queste presenze costituiscono una geografia psichica condivisa e dunque collettiva in cui ci ritroviamo: un paesaggio a noi familiare, il nostro paesaggio. Come nel celebre film The Truman Show, occorre forse fortuna e certamente un sagace spirito critico per svelare l’artificio che ci circonda. Le presenze delle narrazioni dominanti (pensiamo al progresso) sono appunto come delle montagne che, svelato l’inganno, si rivelino posticce quinte sceniche, convenzioni progettate coerentemente con un disegno mirato a convincerci che la realtà sia come è utile che sia a chi è capace di articolare queste narrazioni, a disegnare questi scenari, a progettare questo show di cui siamo protagonisti ignari e gratuiti, e nello stesso tempo avidi consumatori paganti.

Abbiamo bisogno di aprire gli occhi e comprendere che il paesaggio in cui ci muoviamo è il risultato di queste narrazioni, per contrastare le quali non ci resterà che decodificarle ed edificarne di nostre. Dovremo cioè comprendere il paesaggio e partecipare a creare un contropaesaggiodel quale conosciamo gli autori e i fini, poiché ne siamo noi stessi i coautori. Nascono così, nella congerie di questi pensieri in lockdown, un testo e un video che costituiscono un quasi manifesto ai tempi del coronavirus, intitolato alla pan-demopraxia.

Ma tornando al quesito iniziale, come può un virus buono esaudire la promessa della democrazia? Quale meccanismo sociale può agire come un contagio (buono9) e diffondere la visione e le pratiche della demopraxia?

La riflessione sul potere accompagna la storia delle idee e non è qui la sede (né sono io in grado) per tracciare anche solo un richiamo alle filosofie che da Platone a Foucault hanno sviluppato le elaborazioni concettuali alla base dei modi con cui vediamo noi stessi e le società.
Tuttavia la nostra esperienza di oltre vent’anni delle pratiche artistiche di intervento nelle trasformazioni sociali – socially engaged art practices per usare un’espressione d’uso nelle conversazioni e nel dibattito internazionale per lo meno dagli anni ‘90 – conduce a conoscere non solo alcuni fondamenti della storia politica, ma soprattutto ad approcci e tratti psicologici, culturali e professionali che aprono interessanti prospettive su questo territorio, dove ora ci si avventura con l’aiuto della bussola della demopraxia.

La natura trasversale (cross sectoral, come suol dirsi) delle pratiche artistiche ha portato nella nostra quotidianità lavorativa e di vita non solo artisti, filosofi, storici, economisti, imprenditori, educatori, amministratori, ma anche scienziati e soprattutto scienziati sociali che hanno condiviso la loro competenza della storia e delle dottrine politiche, non solo occidentali. Essi sono intervenuti spesso come mentori e docenti nella scuola di alta formazione a Cittadellarte che abbiamo fondato negli anni ‘90 a Biella, Unidee Università delle Idee, che in questi ultimi anni si è costituita anche come Accademia di Belle Arti per l’erogazione di formazione formale nell’ordinamento AFAM del Ministero dell’Università e della Ricerca, il cui valore legale dei corrispondenti diplomi è in corso di riconoscimento.
Le lunghe conversazioni, la condivisione delle ragioni, delle scoperte che accompagnavano le ricerche e le opere delle centinaia di artisti e designer socialmente impegnati o – per chiamarli con i termini che di anno in anno sono stati usati per identificare in fondo gli stessi tipi di persone – change makers, place makers, innovatori sociali e imprenditori sociali e le straordinarie opportunità che abbiamo avuto di frequentarli e conoscere direttamente da loro le idee che li animavano ci hanno condotto a individuare quella che pare essere la dinamica psichica e comportamentale più direttamente coinvolta nell’attivarsi o meno delle condizioni che permettono la demopraxia: si tratta dell’automatizzazione. O meglio: dell’equilibrio dinamico tra automatismi e creazione. Un passare dall’agire come automi all’agire come autori.
Thoreau, ne La disobbedianza civile10, si esprime in modo molto chiaro: “La massa degli uomini serve lo Stato in questo modo, non come uomini, bensì come automi, con il solo corpo. Essi formano l’esercito regolare, e così pure la milizia, i secondini, i poliziotti, i posse comitatus, ecc. nella maggior parte dei casi non vi è nessun libero esercizio né della facoltà di giudizio, né del senso morale; questi uomini si mettono allo stesso livello del legno, della terra, delle pietre anzi: si potrebbero addirittura fabbricare uomini di legno che servano altrettanto bene allo scopo”.

Carlo Sini11 esplora il divenire degli umani da automi animali ad automi macchine, resi tali dalla parola e dalla cultura, di cui pure l’uomo è autore. All’interno del processo di ominizzazione si costituisce quel corpo macchina che comunemente chiamiamo automa: è colui la cui azione è determinata, orientata da ciò che chiamiamo cultura. Cultura12 che comporta l’internalizzazione del potere in noi, attraverso condizionamento e automatizzazione, determinando un circolo vizioso per cui noi stessi diventiamo concausa del nostro stesso divenire automi.
La tensione tra automa e autore è sempre stata presente ai filosofi come all’uomo comune, basti pensare alle leggende del Golem di Praga e alle macchine di Erone di Alessandria, e poi Pigmalione e perfino Pinocchio, fino all’etimo di robot, dal ceco ‘robota’, i.e. ‘lavoro forzato’, il nome dato dagli automi che agiscono come operai in un dramma di K. Čapek.

Eppure lo stesso concetto di automa porta con sé un duplice e opposto significato: automatos è ciò che opera o che avviene spontaneamente, macchina che si muove da sé; come se avesse vita. Nello stesso tempo, però, l’automa è anche il contrario di ciò che ha vita e che si muove da sé: è la macchina senza vita, il robot. Nell’accezione corrente oramai prevale quest’ultimo significato. Oggi siamo accompagnati dalle versioni moderne dell’automa che esprimono il dramma esistenziale di essere creati e creatori, rispecchiando quello che siamo noi. Basti pensare ai capolavori di Asimov13 e Clarke14, ma anche a Mary Wollenstoncraft Shelley e il suo Frankenstein. Sono decine, migliaia gli automi che portano in sé uno spirito vivente, un ghost in the shell15.
Ma automa ha la stessa radice di automatico, automatismo e automatizzazione. Ed è a questo significato che si riferisce l’analisi che segue.
L’automatismo ci ha permesso raggiungimenti altrimenti impensabili, basti pensare ai vantaggi derivanti dall’aver automatizzato processi vitali come la circolazione e il respiro, che altrimenti dissiperebbero gran parte delle nostre facoltà psichiche coscienti. Ma pure ci ha spesso trattenuti e neutralizzati nel nostro slancio vitale, quasi in una preparazione dello stato di quiete infrangibile cui una parte nel nostro essere anela.
L’automa in noi, secondo la tesi che qui si espone, è anche alla base della ragione per cui le (buone) idee e pratiche (e quindi l’instaurarsi delle condizioni favorevoli alla demopraxia) hanno spesso difficoltà a diffondersi ed attecchire. E questo per un set di dinamiche psichiche probabilmente assai numeroso e variegato tra le quali spiccano almeno queste quattro: la resistenza mentale al cambiamento (l’abitudine), la preferenza per situazioni che costano meno energia ancorché comportino cessioni di autonomia (la soggezione), il timore di fallire e subire danno (la paura) e la convenienza di una immediata conformazione alle regole (obbedienza, o il tentativo di sottrarsi ad esse con l’inganno).

Tutte e quattro queste compagne della nostra vita costituiscono ottimi alleati per l’esercizio del controllo sociale che i più diversi gruppi nella storia hanno adottato per mantenere la propria egemonia.
La nostra analisi di questi tratti psicosociali parte dalla constatazione che essi offrono realmente vantaggi per chi li esprima nelle proprie scelte e comportamenti, ed è per questo che tanto successo hanno avuto.
L’abitudine16, per cominciare, comporta un innegabile risparmio di risorse. Essa accompagna indissolubilmente l’apprendimento: è un meccanismo di vitale importanza che ci permette di fare tesoro delle nostre esperienze e di non cominciare ogni volta da capo17. Gli automatismi, infatti, sono essenziali nei primi passi della nostra crescita, nell’apprendere a camminare, a rendere sempre più efficiente il controllo del corpo al proprio interno e con l’ambiente. Ma anche molte interazioni sociali devono diventare automatiche (e rapide) per la nostra sopravvivenza, per esempio quando riguardino comportamenti di difesa o fuga o attività come la guida di un’automobile. Ma basti pensare a come sia stato difficile disabituarsi a porgere e stringere la mano come saluto ai tempi del Coronavirus (come saluterai?). L’abitudine, però, inibisce o impedisce il ricorso alla creatività. Quante occasioni abbiamo mancato nella vita per il fatto che non ci abbiamo pensato? Se non ci abbiamo pensato, spesso, il motivo è perché eravamo abituati a fare in un certo modo e questa abitudine serve appunto proprio a non pensarci.

Se invece si vuole pensarci, occorrerà se non proprio azzerare la nostra fiducia nell’esperienza pregressa, almeno ridurne l’importanza. Che cosa avviene quando il nostro affidarci all’abitudine cessa? Si apre uno spazio per pensieri e comportamenti nuovi, inediti, diversi, originali. Questo è il terreno della creatività. Qui si crea. Ed è qualcosa che può darsi in ogni momento della nostra vita, anche nelle attività più banali. Non è appannaggio esclusivo dei grandi artisti, anche se l’artista fa di questa attitudine la sua professione quotidiana.
Esiste dunque una tensione che unisce abitudine e arte. L’esercizio delle facoltà creative, com’è evidente, porta con sé un alto tasso di pensieri e comportamenti non automatici e non convergenti. Questo significa che la creatività apporta un effetto di deautomatizzazione e di divergenza. Tra autore e automa vi è una buona dose di alternatività o rapporto di proporzionalità inversa: quanto maggiore l’autorialità, tanto minore la automaticità.

Tuttavia, non si pensi che l’esercizio dell’arte non comporti automatismi, basti pensare alla dimensione tecnica: un virtuoso del violino ha sviluppato una straordinaria dotazione di automatismi. Ma perché anche la sua interpretazione sia altrettanto straordinaria, dovrà fare appello all’autorialità, e aprire la porta al non ripetuto, al nuovo, a qualcosa che sia in qualche modo connesso allo spazio e al tempo in cui l’interpretazione sta avvenendo, spazio e tempo che per definizione sono diversi dalle precedenti. Il contingente, il situato, la situazione, lo specifico e persino una certa dose di imprevedibile devono essere accolti, se il virtuoso intende essere riconosciuto grande anche come artista.
Coltivare l’arte dunque è un antidoto alla sclerotizzazione che ci aspetta quando la nostra mente è troppo incline all’automazione. Vi sono evidenze scientifiche18 che l’arte aiuti nelle terapie contro le malattie neuro-degenerative, e questo sembra coerente con il paradigma che attribuisce all’arte un ruolo importante nel passaggio dall’automa all’autore.
Tuttavia, il creare per il creare (l’arte per l’arte) può esso stesso diventare un automatismo mentale, per il quale il nuovo assurge a sinonimo e feticcio del bene, senza rapporto con le circostanze concrete in cui la creazione avviene, senza un ecosistema sociale e ambientale con cui negoziare il senso di ciò che si crea, e dello stesso fatto del creare. Il rischio della trascendenza e dell’idealismo19 è sempre in agguato nello spirito umano e anche se ci si può facilmente illudere che gli artisti, in quanto autonomi, ne siano immuni, è invece ragionevole pensare che essi ne siano sopraffatti tanto quanto gli altri.

Se l’abitudine è tanto necessaria quanto tossica quando essa sia portata ad assumere il dominio della nostra vita psichica, che cosa dire della soggezione?
Che cosa si intende con soggezione? Un quasi sinonimo del termine potrebbe essere domesticazione. La soggezione è l’essere soggetto, in senso di sottomesso. Dunque è propriamente sottomissione. Come l’abitudine, anche la soggezione porta in dote vantaggi che spesso si rivelano veri e propri strumenti di salvezza, come sanno bene i giovani primati che osano sfidare il maschio alfa. O i cani. O i ragazzini che fanno la lotta. O i soldati, i dipendenti di un’azienda, i compagni di squadra. Anche per il più valente dei combattenti, prima o poi arriva sempre il momento in cui conviene una dignitosa ritirata, un compromesso, piuttosto che un’ulteriore battaglia. La soggezione per la gran parte degli individui è una pratica di massima utilità. Ma anch’essa rischia di far perdere opportunità, e presto o tardi ogni umano si trova di fronte alla necessità di fare appello a tutto il suo coraggio e affrontare il maschio alfa (qualunque forma esso abbia preso). Il coraggio in molte delle occasioni della vita sia degli individui sia dei gruppi sociali può aiutarci a sviluppare un modo di affrontare l’altro, quando sia portatore di visioni e intenzioni opposte alle nostre, facendo uso della tecnica (dell’arte) del dialogo. Dià logos. Discorso. Il linguaggio. Verbale, soprattutto, ma non solo verbale. La massima espressione di quest’arte si ha nel dialogo del metodo socratico. Ma come l’arte è facoltà umana (nel senso che appartiene a tutti gli umani, non che solo ad essi competa, molti sono gli esempi di altri animali capaci di creare) e gli artisti sono coloro che la esercitano per professione, così il dialogo è strumento universalmente disponibile a tutti gli umani, ma Socrate e i suoi anche moderni epigoni sono probabilmente gli artisti del dialogo. Non intendiamo propriamente dell’arte retorica, ma appunto del dialogo socratico. Esso presuppone e nello stesso tempo promuove lo spirito critico, e anche il coraggio, come si ricorderà dalla circostanza dello sfidare il maschio alfa. Lo spirito critico e il coraggio sono tanto importanti per lo sviluppo della persona fisica, cioè dell’individuo con la sua identità, quanto lo sono per la società. Non è un caso che le dittature siano feroci con chi eserciti le due capacità che abbiamo tratteggiato, l’arte e il dialogo critico. Il potenziale sovversivo che portano è altissimo. Una società di autori e pensatori non corrisponde al sogno del dittatore che preferisce una massa di automi.

Passando a trattare la terza capacità, individuiamo il tratto psicologico massimamente caro alle dittature di ogni tipo, da quelle dei regimi totalitari a quelle esercitate tra le mura domestiche: la paura. Si sa che essa sia uno degli strumenti principali del controllo sociale. Ma c’è una forma di dittatura che spesso ci affligge, ed è quella esercitata da noi stessi su noi stessi. La paura di sbagliare, di fallire è spesso così terribile che ci rende inermi e passivi. Eppure anche la paura ci è amica, anzi, è una delle prime amiche della vita. Attraverso di essa si attiva un processo metabolico incredibilmente raffinato che nell’arco di centesimi di secondo porta l’organismo in uno stato fisico profondamente diverso. E questo consente la fuga repentina potendo fare affidamento sulle massime capacità del nostro apparato fisico e psichico, fino ad arrivare a non sentire il dolore, ad esempio mentre fuggiamo inseguiti da un predatore, fino a quando non siamo giunti in salvo e, al conforto dello scampato pericolo, si accompagna l’emergere dei danni riportati nella fuga.

Se il meccanismo della paura acuta è tanto salvifico, la cronicizzazione della paura può assumere i contorni di una schiavitù. Ne possiamo diventare preda costante, in ogni occasione, non solo appunto quando le spighe della savana sono mosse dalla leonessa intenta all’agguato. La paura può diventare un automatismo psichico e tanti disturbi psicosomatici testimoniano degli effetti che essa può avere sulla nostra salute.
Vi sono dunque paure motivate e sane e altre meno motivate, se non immotivate e dannose.
Quale antidoto conosciamo per la paura? Come capire se un timore che ci attanaglia è ragionevole e dunque utile, oppure al contrario è immotivato e dunque nocivo?
Quello che tutti noi sperimentiamo nella vita è che alcune cose che temevamo si sono rivelate paure infondate una volta che abbiamo capito la loro vera natura.

Dalle paure infantili a quelle degli adulti, il capire che cosa esse realmente siano è un processo di ricerca e apprendimento che anche in questo caso appartiene a tutti gli umani (e altri animali). Noi tutti facciamo quello che i ricercatori (scientifici o umanistici) fanno per mestiere. Analizziamo le situazioni, ci informiamo, indaghiamo, facciamo sopralluoghi, ascoltiamo il parere di esperti, in una parola: facciamo ricerca. La ricerca sconfigge molte paure nella nostra vita. Oppure aiuta a circoscriverle e diventarne maggiormente consapevoli, ma pure capaci di spiegarne la natura. E forse pure di trovare, un giorno, un rimedio alla loro causa. La ricerca aiuta a curare la paura ed è un presupposto per provare a modificarne le origini, comprese quelle oggettive o esterne a noi stessi; capire il comportamento del predatore, le orme e tracce che lascia, fino a saperne predire probabilisticamente il comportamento è in generale di grande aiuto nell’affrontarlo e persino batterlo, magari facendo affidamento sulle arti del dialogo critico, unificando dunque le tre capacità finora tracciate (creatività, dialogo, ricerca).
Lo spirito di ricerca è professionalmente esercitato dai ricercatori scientifici e umanistici. Anche loro non sono guardati senza senza sospetto dalle dittature, che, almeno per quanto riguarda i ricercatori scientifici, cercano piuttosto di metterli al proprio servizio, con le buone o le cattive.

Ma la ricerca è un’attività del pensiero e della vita pratica che tutti esercitiamo, o eserciteremmo se, come propone qualcuno, essa fosse riconosciuta come diritto universale umano20. “… ricerca è un nome specializzato per una capacità generalizzata di fare indagini disciplinate su quelle cose che abbiamo bisogno di sapere, ma non sappiamo ancora. Ritengo che la conoscenza sia più preziosa e più effimera a causa della globalizzazione e che sia vitale per l’esercizio della cittadinanza informata. Riconosco il 30% della popolazione mondiale totale nei paesi più poveri che può superare l’istruzione elementare fino all’ultimo gradino dell’istruzione secondaria e post-secondaria e dichiaro che uno dei diritti che questo gruppo dovrebbe rivendicare è il diritto alla ricerca – acquisire conoscenze strategiche, poiché questo è essenziale per le loro rivendicazioni di cittadinanza democratica”.
Anche in questo terzo caso ci troviamo di fronte a un compromesso tra i vantaggi arrecatici da una dotazione naturale incorporata nel nostro patrimonio genetico e le opportunità generate dall’esercizio di una capacità anch’essa, peraltro, del tutto appartenente al corredo con cui nasciamo. Anche in questo caso dunque la deautomatizzazione passa non attraverso la liberazione dalla paura, ma dalla tirannia della stessa. Imparare a convivere con ed anzi fare uso della paura è evidentemente sano. E la ricerca sembra essere la capacità più adatta a controbilanciare dinamicamente l’effetto della paura sulla nostra vita.

L’elenco delle dinamiche psichiche che favoriscono l’automatizzazione, e delle corrispondenti capacità di deautomatizzazione che possono aiutarci a operare in un rapporto di equilibrio dinamico con queste, potrebbe essere lungo, e a Cittadellarte si intende avviare un progetto di ricerca dedicato proprio a questi temi, in seno all’Accademie Unidee del Terzo Paradiso. Poiché d’altronde questo scritto è dedicato a una prima esplorazione delle ragioni epistemologiche che afferiscono al progetto politico della demopraxia, vi è una quarta dinamica che in questa sede è importante menzionare, perché si riferisce direttamente alla sfera del rapporto tra potere realmente esercitato dai cittadini. Vogliamo parlare della tendenza alla conformazione alle regole, alle norme. La storia della filosofia politica si è ampiamente occupata di questo appassionante tema. In particolare l’indagine delle origini della normatività21 porta a riconoscere l’evidente convenienza a seguire le norme esistenti sia secondo la visione volontaristica o giuspositivista, cioè di colui che “ritrova l’unità del sistema normativo risalendo alla autorità ultima a cui possono farsi derivare o per comando diretto o per delega le norme che lo compongono, e si appaga quando è riuscito a trovare il potere al di sopra del quale non esiste alcun altro potere, che è per l’appunto il potere sovrano22, il quale sovrano anche determina e commina le sanzioni; sia secondo la visione razionalista etica o giusnaturalista, di colui che “che cerca di costruire un sistema etico o giuridico sulla base della pura ragione, e pretende alla fine di avere costruito un’etica ‘more geometrico demonstrata’23 anche per la semplice consapevolezza della impraticabilità per i più e nella maggior parte delle occasioni di procedere a un esercizio intellettuale tanto ambizioso.

Diventa quindi evidente la convenienza di un atteggiamento etico fondato sulla conformazione all’ordine normativo esistente. A questo proposito, particolarmente efficace è la constatazione dell’affinità semantica dei concetti di normalità e normatività, di quanto è forte la suggestione per cui ciò che è normale è dunque eticamente valido, e ciò in senso non solo esplicativo, cioè che esso sarebbe valido per questa e quella ragione, ma anche prescrittivo, cioè che esso avrebbe forza cogente in senso etico su di noi. Quanti convinti fedeli cattolici che nei primi anni 2000 evocavano con Rumsfeld e Bush le nuove crociate sarebbero talebani se fossero nati e cresciuti in Iraq invece che in Arkansas?

Ora che abbiamo tratteggiato il tema, cioè la tendenza alla conformazione etica rispetto alle norme sociali vigenti, possiamo rintracciare in essa un profilo o una forma dell’automatizzazione di cui in questo scritto trattiamo. E dunque possiamo per lo meno sospettare che vi sia una correlazione positiva tra conformazione etica e resa incondizionata all’automa che è in noi. La stessa Korsgaard, nella sua elaborazione neokantiana, propone una via d’uscita attraverso la pratica dell’approvazione riflessiva, cioè dell’esercizio della facoltà riflessiva, dell’interrogarsi sulla giustezza del nostro assecondare un impulso che sentiamo oppure resistervi. Vorrei però portare il discorso su un piano più pratico, anche in ossequio all’obbiettivo finale di questo scritto, cioè di contribuire a una bozza di teoria della demopraxia. Come affrontare dunque la naturale tendenza alla conformazione alle norme anche quando esse ci paiono mancare di validità prescrittiva, cioè quando non sentiamo di poterci né doverci giustamente adeguare, senza rinunciare a una parte di noi stessi alla quale teniamo moltissimo, chiamala coerenza, onestà intellettuale o decenza?

Ci aiuta a rispondere un testo antichissimo, l’Apologia di Socrate. Se Socrate violasse le leggi e fuggisse di prigione, Socrate commetterebbe un’ingiustizia nei confronti dei suoi concittadini, che, per di più, sono innocenti della sentenza che gli è stata inflitta. La violenza contro le leggi non cancella l’ingiustizia che esse stesse abbiano compiuto, piuttosto occorre convincere la città di aver commesso un’ingiustizia. E dunque occorre piuttosto cambiare le leggi. Che cosa propone dunque Socrate? L’impegno di una partecipazione civica piena e autoriale. Contribuire a scrivere le leggi, e dunque a cambiarle quando ritenute ingiuste. Il contrappeso alla conformazione è l’esercizio della dimensione politica. Qui la demopraxia ci viene incontro. Non tutti i cittadini si sentono pronti a intraprendere la strada che porta al potere legislativo, che sia la candidatura attraverso il sistema partitico alla rappresentanza elettorale oppure l’avvio di un dibattito nazionale per un’iniziativa di legge popolare o referendaria. L’istituto della delega a molti cittadini non pare offrire reali alternative, anche se non mancano opportunità concrete insite anche soltanto nei movimenti di protesta, come hanno recentemente dimostrato i movimenti Black Lives Matter e Fridays for Future.

Come può dunque il cittadino partecipare in maniera attiva, propositiva, costitutiva alla definizione o modifica delle norme? La tesi fondante della demopraxia aiuta a trovare una risposta: ogni cittadino è primariamente impegnato nella propria comunità (o ecologia) di pratica, organizzazione in seno alla quale quotidianamente sono assunte decisioni esplicite o implicite con sostanziali impatti ed effetti sulla vita degli appartenenti alla stessa comunità. Qui è dato a tutti esercitare una rilevante azione di controbilanciamento alla conformazione alle norme. Non che sia cosa semplice e immediata, ma è evidente che la scala a cui si dispiega questa azione è assai più raggiungibile di quella del parlamento nazionale o del governo centrale. Opzione che, peraltro, rimane aperta comunque a colui che decidesse di esercitarla.

Giungiamo così alla conclusione che la partecipazione politica demopratica (oltre che democratica) sia direttamente efficace nel processo di deautomatizzazione e quindi nel passaggio dalla società degli automi a quella degli autori.
In tutti e quattro i casi di dinamiche automatizzatrici che abbiamo toccato (l’abitudine, la soggezione, la paura e la conformazione) possiamo facilmente notare come le società democratiche liberali moderne in gran parte dei casi abbiano coltivato gli antidoti, cioè i contrappesi delle capacità, ossia le arti, lo spirito critico del dialogo, la ricerca e l’impegno politico. Tutti questi sono di fatto fondamentali valori democratici o assimilabili a questi. Eppure è difficile negare che l’evoluzione delle società contemporanee in chiave ‘neotecnica’, per citare in negativo Mumford, finanche delle democrazie liberali tende a spostare la nostra vita verso l’automa più che l’autore che è in noi.
Questi meccanismi portano nella quotidianità delle comunità e dei singoli l’automatizzazione che occupa la dimensione culturale e comportamentale.

Quindi tendono a occupare lo spazio dell’iniziativa, prosciugandolo e neutralizzandolo profondamente.
È in qualche misura inevitabile che il potere consolidato (le corporation, i fondi finanziari speculativi semplici e sovrani, le istituzioni sovranazionali) faccia affidamento sulla nostra naturale inclinazione all’abitudine, alla soggezione, alla paura e alla conformazione, oltre che alle altre dinamiche psichiche dell’automatizzazione ancora da descrivere. Conseguentemente non c’è nulla da stupirsi che vi siano ingenti interessi a promuovere pensieri e comportamenti (di fatto consumi) automatizzati e socialmente “collaudati” in quanto funzionali.

A questo punto, chiarito che l’automatismo è promosso (perlomeno o anche) da abitudine, soggezione, paura e conformazione, dovrebbe essere chiaro che la deautomatizzazione può di fatto contribuire a liberarci dalla condizione di passività e neutralizzazione a cui l’automatizzazione tende a relegarci, la posizione di un automa privo di volontà propria sia in senso etico normativo, sia in senso psichico e pratico. Se si conviene che la deautomatizzazione porta in modi diversi e non ancora del tutto spiegati a una emancipazione, è ragionevole pensare che l’emancipazione promossa dalla deautomatizzazione possa tendere alla demopraxia, cioè la realizzazione piena della democrazia, l’avverarsi del sogno e della promessa del governo del popolo. Sembra esserci dunque un rapporto di retroazione tra deautomatizzazione e demopraxia: l’una alimenta l’altra.
E dovrebbe essere altrettanto chiaro che la coltivazione dell’autorialità (cioè delle arti, ma anche dello spirito del dialogo critico, della ricerca e dell’impegno civico politico) è associata all’emancipazione dalla condizione di automa. Questo passare dall’essere automa a essere autore è, probabilmente, nella maggior parte dei casi, temporaneo e parziale, pur tuttavia rappresenta la pratica più radicalmente generativa e rigenerativa che gli individui e le organizzazioni e la società possano coltivare.

La posizione e la pratica dell’autore è esercitabile da parte di tutti? Citando la massima di Michelangelo Pistoletto creare è umano, questa facoltà sarebbe alla portata di tutti, e lo stesso possiamo dire delle altre capacità che abbiamo tratteggiato: lo spirito critico (come sostiene Socrate), la ricerca (come promuove Appadurai) e la partecipazione civica diretta (come permette di constatare la cronaca quando non la storia). Ma queste naturali capacità non bastano se non sono accompagnate dalla libertà di esercitarle in quanto effettiva possibilità; non dunque una formale attribuzione di generici diritti, ma una effettiva, concreta, pratica possibilità per tutti di esercitarle. È evidente che le teorie delle capacità di Amartya Sen e Martha Nussbaum siano diretta matrice di ispirazione a questa traccia che tende a esplorare i rapporti tra autorialità e automatizzazione come assoggettamento.
Se viene inculcato in noi il pregiudizio che invece queste capacità siano riservate a pochi eletti, il loro esercizio diventa difficile, anche se esse albergano di fatto nella nostra psiche. È essenziale che impariamo a riappropriarci di quanto è sempre stato nostro, attraverso la formazione, attraverso una scuola dedicata a questa missione emancipatrice e costruttrice di società di autori.

Conclusioni
L’arte (intesa specificatamente in questo scritto come creatività coniugata con lo spirito critico, la ricerca e l’impegno politico) rappresenta la strada per il contagio buono della demopraxia.
A questa prospettiva, come si diceva in apertura, è dedicato il quasi manifesto della pandemopraxia, che invita persone e organizzazioni delle reti a cui partecipiamo come Cittadellarte ad attivarsi e sperimentare questa strada.
Ed è stato in quel frangente che l’arte della band dei Subsonica è venuta in aiuto.
Il finale della loro canzone, infatti, è a suo modo un sottile dispositivo di deautomatizzazione, semplice, ma efficace nel profondo come spesso l’arte è capace di essere.

Come farai quello che farai? Questa domanda, declinata in esempi concreti e vicini a ognuno di noi (parlare, vestire, lavorare, nutrirsi, pensare, sorridere, sognare…) è un potente metodo per accedere alle regioni del nostro spirito in cui queste azioni sono codificate e (quasi sempre) automatizzate, attraverso l’azione combinata dell’abitudine, la soggezione, la paura e la conformazione (e da altre dinamiche psichiche ancora da spiegare).
Per rispondere alle domande della canzone, dunque, bisogna creare, con spirito critico e sulla base della costante attività di ricerca, e insieme agli altri cittadini e membri della nostra comunità di pratica; cioè studiare che cosa queste semplici domande chiedano veramente e che cosa implichino nella nostra vita, nel contesto in cui viviamo, la nostra ecologia24 di pratica, la nostra casa, il luogo in cui lavoriamo, dove e con chi e come e con quali tracce e conseguenze passiamo il nostro tempo.

La ricerca, ancor più quando vissuta come diritto inalienabile, può innescare l’impegno politico attivando ed impegnando le persone nelle proprie comunità ed ecologie, trasformandole in agenti del cambiamento, invece che soggetti passivi alle ricerche e pratiche altrui, che siano i loro delegati legittimi o altri soggetti.
Ognuno di noi, attraverso la deautomatizzazione, assume un ruolo fondamentale nella struttura sociale, perché la nostra stessa identità25 non è più legata a narrazioni preesistenti e prefabbricate, ma discende dal creare, dal ricercare, dal dialogo civico e dall’impegno politico e dagli esiti a cui possono condurci queste capacità.
Che cosa troveremo ricercando nel nostro quartiere, nel nostro ufficio, nella nostra casa, nel nostro luogo di lavoro? E che cosa creeremo in questi contesti, facendo uso dello spirito che alberga in ognuno di noi, spirito teso a creare, generare e rigenerare, per natura e per diritto?

L’arte della demopraxia assume queste basi come proprio fondamento; l’arte, il dialogo e la ricerca come motori di ingaggio sociale e civico. E questo ingaggio si gioca all’interno delle nostre ecologie di pratica. Promuovere arte (motore del creare), dialogo socratico (forma di espressione dello spirito critico) e ricerca (fonte della verifica) per un giudizio autonomo e una conseguente azione responsabile e attiva in seno al consesso civico in cui abitiamo è dunque il farmaco o contagio buono che Cittadellarte è impegnata a creare e ricercare, con le reti a cui partecipa, e con la sua scuola, in particolare l’Accademia Unidee del Terzo Paradiso.

È un progetto aperto e collettivo, non privo di insidie e difficoltà non ultime strutturali e di risorse organizzative e finanziarie, oltre che di adeguatezza delle dotazioni e degli strumenti epistemologici, in cui chiamiamo a collaborare autori di ogni campo ed esperienza.
Un laboratorio di ricerca fondato su arte, filosofia, impegno politico, sostenibilità, scienze sociali, attivismo e potenzialmente ogni campo di attività, al quale sono invitati a contribuire enti di ricerca, collettivi artistici, movimenti civili, istituti di formazione e ogni altra comunità di pratica che consideri queste tracce come una possibile prospettiva di conoscenza e di azione. Ricerca ma anche azione, in quanto l’invito è esteso non solo alle già attive ambasciate Rebirth di Cittadellarte, ma anche alle comunità più diverse intenzionate a sperimentare il canovaccio dell’arte della demopraxia nel proprio contesto territoriale e sociale.

 

Paolo Naldini, Biella, gennaio 2021

 


Note dal sommario
1* – Disautomatizzazione: Il termine, qui usato in un’accezione comune, è collegato alla trattazione di Bernard Stiegler, vedi Stiegler, B (2019). La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Milano, Meltemi.
2* – Ecologia di pratica: il termine è derivato dalla nozione di “comunità di pratica” di Wenger e Lave, vedi Wenger, E. (1998). Communities of practice: learning, meaning, and identity. Cambridge University. New York, Oxford University Press.
Note dal testo
1* – Il concetto di demopraxia nasce intorno al 2011 in Unidee, la scuola di Cittadellarte, Biella, ed è fondato sulla sostituzione del cratòs con la praxis, riconoscendo all’ecologie di pratica la funzione di microgoverni già di fatto operanti nel tessuto sociale, ma disattivati o latenti per mancanza di consapevolezza e di metodi di sistema. Cittadellarte e il network di quasi 200 ambasciate Rebirth diffuso nel mondo, hanno sviluppato un metodo (L’arte della demopraxia, vedi http://demopraxia.org/demopraxia.html), che propone un canovaccio per un’opera di partecipazione civica fondata sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Gli obbiettivi dell’Agenda sono stati presentati pubblicamente in una delle prime occasioni a livello globale a L’Avana, Cuba, proprio nell’ambito dell’avvio della prima Opera Demopratica nel novembre 2015. Il canovaccio della demopraxia prevede tre fasi (Coro, con mappatura e mostra; Forum e Cantiere) ed è in corso di sperimentazione in diverse città europee, in Australia e a Cuba.
2* – Hanno partecipato giornalisti come Milena Gabanelli, artisti dell’animazione come Bruno Bozzetto, religiosi come Padre Enzo Fortunato, politici come Francesco Rutelli, scrittrici come Silvia Avallone, cantanti come Massimo Ranieri, funzionari del MiBACT come Maria Laura Orrico, chef come Carlo Cracco, musicisti e produttori come Frankie Hi-nrg, soundartisti e compositori come Max Casacci, conduttori come Nicolas Ballario, leader come il presidente di Croce Rossa Francesco Rocca e poi docenti, manager, critici e curatori, imprenditori, funzionari ONU…
3* – La definizione di comunità di pratica (come indicato nella nota 2 del sommario proposta da J. Lave ed E. Wenger, 1991) è estendibile con l’espressione ecologia di pratica, con cui si intendono non solo le relazioni interumane ma con ogni altro ente animale, vegetale, minerale e iperoggettuale.
4* – L’uomo, essere sociale (Politica, 1252a): “L’uomo è per natura un essere sociale, e chi vive escluso dalla comunità è malvagio o è superiore all’uomo, come anche quello che viene biasimato da Omero: “empio senza vincoli sociali”; infatti, un uomo di tal fatta desidera anche la guerra. Perciò, dunque, è evidente che l’uomo sia un essere sociale più di ogni ape e più di ogni animale da gregge. Infatti, la natura non fa nulla, come diciamo, senza uno scopo: l’uomo è l’unico degli esseri viventi a possedere la parola; la voce, infatti, è il segno del dolore e del piacere, perché appartiene anche agli altri esseri viventi: la loro natura ha fatto progressi fino ad avere la sensazione del dolore e del piacere ed a manifestare agli altri tali sensazioni; la parola, invece, è in grado di mostrare l’utile ed il dannoso, come anche il giusto e l’ingiusto: questo, infatti, al contrario di tutti gli altri animali, è proprio degli uomini, avere la percezione del bene, del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose. E la comunanza di queste cose crea la casa e la città”.
5* – I neuroni specchio sono una classe di neuroni motori che si attiva involontariamente sia quando un individuo esegue un’azione finalizzata sia quando lo stesso individuo osserva la medesima azione finalizzata compiuta da un altro soggetto qualunque (Wikipedia, ref. Gennaio 2021). Molti commentatori individuano nei neuroni specchio la base fisiologica dell’empatia.
6* – Un’ampia e ispirata trattazione di questo tema si trova in Emanuele Coccia, 2018, Il Mulino. “… Ciò che ci contiene, l’aria, diviene in noi contenuto e, per converso, ciò che conteniamo diventa ciò che ci contiene. Respirare significa essere immersi nell’ambiente che ci penetra con la stessa intensità con la quale noi lo penetriamo…”.
7* – Francesco Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, 2019.
8* – Si veda il progetto Contropaesaggio, consultabile al sito http://www.contropaesaggio.it/.
9* – Evidentemente con il termine “buono” non ci riferiamo ad alcun giudizio di valore intrinseco, piuttosto vogliamo esprimere il concetto di auspicabilità e desiderabilità genericamente intese.
10* – Henry David Thoreau, Disobbedianza civile, SE, Milano, 1992.
11* – Carlo Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.
12* – Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna, 1988.
13* – isaac Asimov, Io Robot, 1950.
14* – Arthur C. Clarke è autore del romanzo 2001: Odissea nello spazio, 1968, il cui coprotagonista è la macchina pensante HAL 9000.
15* – Scritto e disegnato da Masamune Shirow, serializzato per la prima volta in Giappone dal 1989 al 1991, giunge sugli schermi cinematografici nel 1995.
16* – La nozione di abitudine come fondamento dell’umana comprensione del mondo è stata sviluppata in particolare da David Hume nel saggio Trattato sulla natura umana.
17* – La nozione di abitudine come fondamento dell’umana comprensione del mondo è stata sviluppata in particolare da David Hume nel saggio Trattato sulla natura umana.
18* – Crystal Ehresman, From rendering to remembering: Art therapy for people with Alzheimer’s disease, International Journal of Art Therapy, Volume 19, 2014 – Issue 1: Art Therapy and Neuroscience. “… Negli ultimi due decenni, le terapie artistiche creative sono state sempre più utilizzate per il supporto e l’assistenza terapeutica in una varietà di strutture sanitarie. La crescita personale attraverso l’attività artistica è possibile in ogni fase della vita, anche per chi ha una demenza dovuta all’età avanzata. La malattia di Alzheimer (AD) è una condizione neurologica prevalente senza causa definitiva e con trattamenti e interventi efficaci limitati disponibili. Le regioni del cervello e i meccanismi coinvolti nella creazione di arte visiva non sono irreparabilmente compromessi per chi soffre di Alzheimer. L’arteterapia come trattamento per le persone con demenza può migliorare la qualità della vita attraverso i benefici che derivano dall’uso delle arti visive per comunicare l’esperienza interiore e connettersi con gli altri. Inoltre, le attività creative stimolano diverse regioni del cervello contemporaneamente, incoraggiando un cervello sano negli anziani promuovendo i processi plastici del cervello”.
19* – Si potrebbe analizzare l’inclinazione alla trascendenza come effetto delle concause indicate in questo articolo (abitudine, soggezione, paura, conformazione) e l’immanenza come antidoto fornito dalle quattro corrispondenti capacità (creatività, spirito critico, ricerca, impegno politico), ma non è questa la sede opportuna.
20* – Appadurai, Arjun. (2006). The Right to Research. Globalisation, Societies and Education. 4. 167-177.
21* – Korsgaard, Christine, (2014). Le origini della normatività, a cura di Luciana Ceri, presentazione di Luca Fonnesu, Pisa, Edizioni ETS.
22* – Bobbio, Norberto (1977-1984). Enciclopedia Einaudi, pagg. 876-907.
23* – Bobbio, Norberto, ibidem.
24* – La definizione di comunità di pratica (come indicato in una nota precedente di J. Lave ed E. Wenger, 1991) è estendibile con l’espressione ecologia di pratica, con cui si intendono non solo le relazioni interumane ma con ogni altro ente animale, vegetale, minerale e iperoggettuale.
25* – Il riferimento all’identità allude alla teoria dell’identità di pratica di Christine Kosgaard: Le origini della normatività, a cura di Luciana Ceri, presentazione di Luca Fonnesu, Pisa, Edizioni ETS, 2014. Dall’introduzione: “… identità pratica… cioè la descrizione in base alla quale trovate che la vostra vita valga la pena di essere vissuta, e che le vostre azioni valgano la pena di essere intraprese”, essa consiste in un insieme di ruoli e identità che costituiscono cioè che noi siamo, il più importante dei quali è quello di membri del Regno dei Fini. La moralità kantiana, nella rielaborazione di Korsgaard, consiste dunque in una legge formale, il principio di universalizzazione, e nel contenuto di questa legge che viene fornito dalla nostra identità pratica.