“Facciamo le squadre! Io scelgo…”.
Quante volte da bambini, al parco con gli amici o al centro estivo, un gioco è iniziato con la scelta dei due gruppi che si sarebbero poi fronteggiati? L’adrenalina cominciava già da quel momento: se si veniva reclutati per primi ci si sentiva forti, carichi di energia, quasi responsabili dell’esito della partita; se eravamo chiamati per ultimi, invece, spesso passavamo per gli sfigati, l’ultima ruota del carro. Già la composizione dei team poteva influire e incidere sull’andamento della nostra prestazione, qualunque gioco fosse. A volte le scelte erano dettate dalle amicizie, altre dalle presunte abilità. Ma già così si creavano delle ‘gerarchie’ tra bambini, generate implicitamente dalla scelta di chi componeva le squadre. Poteva sembrare un momento irrilevante, ma contava. Moltissimo. Stava poi a noi, durante il gioco, dimostrare qualcosa e provare a soverchiare il giudizio iniziale del nostro compagno.
Lo scorrere del tempo ha poi trasformato quel mettersi in gioco, portandolo in alcuni ambiti della nostra vita, personale o professionale. In una partita a calcio, se si parte dalla panchina, sta a noi dimostrare all’allenatore di aver sbagliato. Il match sportivo, così come l’attività motoria o mentale, sono solo degli esempi, perché vale per qualunque attività ludica: il gioco è lo specchio di molti meccanismi della società, semplicemente costruito in una dimensione diversa e parallela. Quello del gioco, infatti, è un tema vasto che si ramifica in numerose tipologie. In quest’ottica, per mettere in luce i suoi aspetti e il suo ruolo nella società, è nata l’idea di intervistare due esperti del settore, ma di due rami diversi. Da una parte Ruggero Poi, formatore montessoriano e direttore dell’Ufficio Ambienti d’Apprendimento di Cittadellarte, dall’altra Francesco Biglia, membro del circolo biellese Dado Giallo e titolare de Il Folletto, attività commerciale aperta da quasi 20 anni specializzata in giochi da tavolo, fumetti e manga. Ecco quali frutti sono nati da questo confronto.
Da sinistra: Ruggero Poi, formatore montessoriano, Luca Deias, del Journal, e Francesco Biglia, titolare de ‘Il Folletto’.
Che cos’è il gioco per voi?
Francesco: È una passione che mi ha sempre accompagnato. Lavorando come negoziante, inoltre, vedo il gioco in maniera più ampia, come forte strumento di aggregazione e crescita. Non è solo una distrazione per staccare dallo stress della vita quotidiana, ma è una parte integrante della società.
Ruggero: Il gioco, fin da bambini, è un modo per allenarsi alla realtà con il ‘paracadute’. È sempre un’occasione per esercitare competenze che possono mettersi in moto senza rischio di farsi male, in maniera figurata e non. È inoltre uno strumento di sviluppo e tra i mammiferi una delle prime forme di apprendimento.
Quale apporto può dare un gioco a dei soggetti in condizioni di fragilità? Può accompagnare un percorso riabilitativo e cognitivo?
Francesco: Negli ultimi anni è stata rivolta maggior attenzione a questo aspetto. Ad esempio mi è stato chiesto di scegliere e portare determinati giochi alla biblioteca di Biella, nelle scuole, o in contesti di fragilità. Ho clienti che sono assistenti sociali e si rivolgono a me per trovare giochi che possano essere utili ad affrontare i problemi personali o che favoriscano la memoria, l’intelligenza e la mobilità. Fino a 4 anni fa non mi ero mai reso conto di questa ricerca, ora è aumentata sensibilmente. Il mondo del gioco, comunque, fa sì che ci sia un prodotto per ogni tipologia, anche per per l’ambito educativo: ce ne sono che aiutano la socialità o altri che contribuiscono a far imparare le basi della matematica e di altre materie. Chi interagisce con questi giochi ha piacere di farli e imparare, perché non li sente come una cosa imposta.
Ruggero: Bisogna sempre considerare che si gioca per interesse e da protagonisti, questo è un punto di forza che permette già l’apprendimento di qualsiasi ambito. Quando ci si mette alla prova si è concentrati e la concentrazione è la base del benessere. Quindi se facciamo attività ludiche stiamo bene. Il gioco, inoltre, si è allargato a livello di target e può essere rivolto a un pubblico che va da 0 a 99 anni, rivelandosi utile anche per persone con Alzheimer o demenza senile.
Il gioco può essere lo strumento che permette un’acquisizione di contenuti scolastici e culturali in modo più armonioso soprattutto fra i più piccoli?
Francesco: La parte più educativa è sempre più legata al gioco, ho vissuto questo cambiamento personalmente coi miei clienti. Si può imparare molto, perché esiste una selezione molto ampia di giochi, che spaziano dall’apprendimento alla comunicazione fino alla storia e sono rivolti a determinate fasce d’apprendimento. In ogni caso, tutti i giochi, da quelli collaborativi a quelli in cui ci si sfida, generano momenti di apprendimento. Ciò che risulta fondamentale è che vengano rispettate le condizioni dell’attività, ovvero sapere le regole e applicarle per poi scatenare la propria creatività.
Ruggero: Fino allo scorso secolo il gioco era considerato per bambini e, come tale, non utile. Oggi, invece, sappiamo quanto sia fondamentale e quindi vengono organizzate proposte di apprendimento in cui si impara attraverso simulazioni, giochi ed esperienze. Il gioco, oggi, è diventato un’attività seria. Montessori, a questo proposito, all’inizio del ‘900 ha dovuto fare un processo diverso: una didattica definita “gioco” sarebbe stata fraintesa e sminuita, per questa ragione chiama l’attività dei bambini “lavoro”. In questo modo era più chiaro che un bambino non stesse soltanto facendo una simulazione, ma stesse costruendo la sua persona attraverso una determinata attività.
In ambito pedagogico il gioco accompagna la crescita e lo sviluppo del bambino. Quali benefici porta nello specifico?
Francesco: Una componente importante del gioco è quella legata all’apprendimento. Aiuta a sapere nozioni, risolvere i problemi e ragionare. A mio avviso la parte più importante è la socialità: la maggior parte dei giochi che ho in negozio, ad esempio, sono rivolti a più partecipanti, quindi per utilizzarli occorre interfacciarsi con altre persone, condividendo una struttura con gli altri soggetti intorno al tavolo a prescindere dalla loro età o professione.
Ruggero: Oltre a quanto detto in precedenza, il gioco permette di imparare dagli altri, anche mettendoci nei loro panni. In questo modo è favorito anche lo sviluppo dell’empatia.
I videogiochi vengono spesso demonizzati dai media. Qual è il vostro pensiero a riguardo?
Francesco: C’è la tendenza ricondurre ai videogames la causa di episodi negativi commessi da certi giocatori, ma bisogna sempre valutare i problemi che si celano dietro un individuo. Un videogioco può essere alienante, ma non è il motivo scatenante che genera una criticità. Possono anche risultare positivi: Minecraft, ad esempio, ha cambiato il modo di pensare di una generazione di bambini. Molti, anche se in giovane età, hanno realizzato virtualmente bellissimi paesaggi e costruzioni con la propria creatività. In alcune nazioni alcuni utenti sono riusciti addirittura, nel gioco, a dar forma a una biblioteca contenente dei testi censurati dal governo. Un altro fattore a favore dei videogames moderni è la cooperazione, che permette di avvicinare appassionati distanti geograficamente grazie alla rete internet, mentre una volta ci si divertiva perlopiù singolarmente.
Ruggero: Dobbiamo però discernere il funzionamento del cervello di un adulto da quello di un bambino: un videogioco può essere pericoloso se si inizia in un’età in cui non si è in grado di distinguere realtà e finzione. È significativo, in quest’ottica, che le app più sviluppate per i bambini sotto i 6 anni non abbiano uno scopo educativo, ma sono tese a mero intrattenimento, una distrazione da usare per quando gli adulti sono impegnati in auto, al ristorante o in altri momenti. Questo può aver influito anche sull’aumento dei disturbi di apprendimento. Con questo non intendo dire che sia sbagliato giocare ai videogiochi a prescindere, ma sono uno strumento il cui utilizzo va valutato con attenzione.
Mens sana in corpore sano: come si trova un equilibrio tra le attività motorie e quelle mentali?
Ruggero: È fondamentale mettere insieme i due fattori: la scienza ha dimostrato che la capacità attentiva dei bambini cala dopo una decina di minuti se non avviene interazione. Non c’è quindi apprendimento senza interazione… e questo ci dice molto su come possa essere la scuola.
Francesco: È assodato che un corpo che sta bene aiuta la mente e viceversa. Quindi il gioco può contribuire a rendere più attive entrambe le parti con un effetto a cascata. A questo proposito, oltre alle attività all’aperto, esistono giochi da tavolo che si basano sui riflessi e sulla velocità.
Il gioco è lo specchio della propria personalità, quasi un’enfatizzazione dei nostri comportamenti. A volte, invece, un’attività ludica tende a mostrare un atteggiamento insolito in un soggetto. Dove sta la verità?
Francesco: Sono vere entrambe le possibilità. Ho notato che una persona tende a iniziare più volentieri un gioco che conosce – perché si sente a suo agio – o a farne uno in cui sa di poter avere successo o riconoscimento. È importante che si abbiano pulsioni positive nel misurarsi con gli altri, anche se non si vince. Nei giochi di ruolo, ad esempio, alcuni vestono dei panni fissi, altri molto diversi dalla propria realtà di riferimento. In quelli da tavolo, inoltre, se c’è una comunità che ti accoglie è possibile superare le proprie barriere. A volte sono presenti criticità: essendo il gioco una dinamica sociale, purtroppo alcune persone non si espongono adeguatamente perché hanno paura di ricevere un giudizio negativo anche in questo contesto. Per fortuna all’interno del gioco sono molto rari i giudizi e le persone tendono a rilassarsi.
Ruggero: Anche nei giochi si cerca inizialmente la nostra comfort zone. Poi anche se si perde non è un problema, anzi, è un aspetto positivo diventare confidenti con l’errore. Nel gioco si può sbagliare senza conseguenze.
In età adulta si tende a mostrare una repulsione verso il gioco, in quanto associato a un’attività esclusivamente rivolta a un target di pubblico più giovane. A cosa si deve questa ostilità?
Francesco: Come spesso si sente dire, “s’invecchia quando si smette di giocare”. È un problema generazionale: secondo me la situazione è cambiata in questi anni, perché le persone della nostra generazione sono cresciute con i giochi e con videogiochi e stiamo quindi sdoganando questa percezione anche coi figli. Tantissime persone hanno visto serie o film come Game of Thrones ed Harry Potter, quindi non sono più legati solo alla cultura nerd. Anche i media stanno dicendo che è normale giocare: anni fa in serie come The Big Bang Theory i protagonisti venivano visti come ‘sfigati’, nella più recente Community, invece, viene ribaltato questo aspetto. Tutto ciò influisce nella cultura del gioco. Poi, nel passato, molti giochi venivano socialmente ben visti, come gli scacchi, le carte o addirittura le battute di caccia, solo che non venivano propriamente considerati come tali.
Ruggero: Un tempo giocare era considerata una perdita di tempo per i ‘grandi’, anche perché le attività ludiche venivano ritenute come momenti non dedicati al lavoro. Oggi è tutto diverso, come dimostra il mercato dell’intrattenimento: attualmente gran parte dei cartoni animati hanno un linguaggio e un ritmo che si rivolge agli adulti.
C’è anche una casistica non indifferente di persone che soffrono di ludopatia, tra slot machine, gratta e vinci, scommesse e i giochi d’azzardo. Anche se sono definiti come giochi, sono ambiti che non hanno correlazione con quelli trattati finora…
Francesco: Dobbiamo imparare a scindere i due aspetti: l’azzardo non ha nulla a che fare col mondo del gioco. Anzi, chi pratica attività all’aperto o giochi da tavolo è probabilmente la persona più lontana dalla ludopatia. Solo nel mondo del videogioco ci sono alcune compagnie che cercano di celare comportamenti di azzardo e di compulsione, come ad esempio nelle app Candy Crush e Farmville, che premiano l’utente se paga.
Ruggero: Nell’azzardo c’è il tema di sfidare il caso, che però non è controllabile. La patologia è nell’esaltare una componente, che è appunto la sfida, in maniera patologica. Qua non c’è il paracadute: questi giochi influenzano alcune componenti del nostro cervello, dando uno sporadico e breve appagamento che porta a non fermarsi.
Il lockdown ha portato famiglie, adolescenti e persone di tutte le età a passare molto più tempo tra le mura domestiche. Francesco, che gioco consiglieresti per trascorrere una serata invernale con i propri cari?
Francesco: Se la famiglia è numerosa Dixit è un gioco apprezzabile perché non richiede conoscenze pregresse. Sarebbero tantissimi i consigli, ma per una serata suggerisco Ticket to Ride o Just One. Non conta quale sia il gioco, è importante stare insieme e condividere il tempo.
Adriano Farina (dipendente de ‘Il Folletto’) e Francesco Biglia.
In tempo di pandemia sono aumentate le vendite e gli interessi per i giochi di società?
Francesco: Per quanto mi riguarda, nonostante le difficoltà, è stato un anno ottimo. Siamo riusciti, durante i vari lockdown, a portare i giochi nelle case, prestando anche quelli aperti in modo che la mia clientela li potesse provare valutandone l’acquisto. Nell’ultimo anno abbiamo fatto scoprire la passione per il gioco a più di 1500 famiglie. In generale, per il mio ambito c’è stata una crescita di interesse e numerose aziende del settore hanno esaurito titoli e puzzle.
Il gioco quindi non è solo momento di divertimento, ma anche di confronto e scambio con altre persone. Attraverso specifiche attività ricreative è possibile migliorare i rapporti interpersonali anche in un contesto professionale?
Ruggero: Sì, in questo caso il gioco fa cadere le barriere perché si sospendono le gerarchie. Un’attività ricreativa può anche aiutare a instaurare rapporti più corretti, senza incidere sulle differenze di ruolo, ma solo sulle cose che accomunano. Cito, a questo proposito, il metodo LEGO Serious Play, mirato proprio al team building aziendale.
Francesco: Certo, il gioco può essere strumento che aiuta a far gruppo, ragionare insieme e creare affiatamento. Anni fa, ad esempio, mi è stato chiesto di organizzare una serata di team building per un’azienda robotica di Amazon. L’iniziativa si è rivelata un successo: i partecipanti erano professionisti laureati in ingegneria, non bambini…
Ruggero, abbiamo parlato molto di giovani, ma negli anziani specifiche attività ludiche possono aiutare a contrastare malattie neurodegenerative?
Ruggero: Sì, perché finché si gioca si rimane giovani e attivi. Giocare, anche semplicemente a carte, aiuta la memoria, le relazioni e a essere protagonisti della propria giornata. Il gioco può essere importante anche nell’ultima parte della nostra vita, magari in compagnia di un nipote.
Il Covid-19 ha ridotto sensibilmente i rapporti interpersonali, anche nella propria sfera sociale. Il gioco potrà essere uno strumento per riavvicinare le persone nel post pandemia?
Ruggero: Se ha una funzione sociale sì: che si tratti di nascondino o di un’attività da tavolo, giocare aiuterà a ritrovarsi.
Francesco: Durante il lockdown abbiamo trovato il piacere di stare con le famiglie. Ora ci mancano solo gli amici. Sarà bellissimo potersi ritrovare, anche per giocare.
Intervistare Francesco e Ruggero è stato allo stesso tempo interessante e divertente. Viaggiare alla scoperta di lati nascosti di qualcosa che ci portiamo dietro fin dall’infanzia ha fatto sorridere il bambino che è ancora in me. Non è stato solo un lavoro, ma un’attività creativa che ha permesso di dare forma a un’idea. Questo articolo, in fondo, l’ho vissuto come un gioco, nell’accezione più suggestiva e intrigante del termine.