Ungheria, è emergenza sociale per le discriminazioni di genere
Amnesty International ha lanciato l'allarme: nel Paese dell'Europa Centrale durante la pandemia sono sempre più numerose le donne che sono state oggetto di discriminazione in ambito lavorativo. Non solo, il parlamento ungherese ha approvato una norma che vieta il riconoscimento giuridico del genere alle persone transgender e intersessuate.

Come ormai noto, in pieno allarme Covid-19 in Ungheria il parlamento aveva dato pieni poteri al premier Orbán per affrontare l’emergenza sanitaria. Non solo un’investitura reputata un golpe dall’opposizione, ma una mossa politica che destò stupore a livello internazionale. Il termine dittatura è forte, forse fuori luogo, ma quando si sente la definizione ‘pieni poteri’ è facile pensare a un limite politico che viene oltrepassato. E chi è al comando ha già cominciato a minare la libertà socio-sessuale di una parte dei cittadini: il parlamento ungherese ha infatti approvato una nuova norma che vieta il riconoscimento giuridico del genere alle persone transgender e intersessuate. Nello specifico, è stato stabilito che la registrazione del sesso di una persona nelle anagrafi nazionale delle nascite, dei matrimoni e dei decessi non possa subire modifiche nel tempo. Cosa comporta? Come riportato da Amnesty International, i documenti d’identità di ogni soggetto avranno le stesse e non più modificabili informazioni, impedendo quindi ai transgender o agli intersessuati “di registrare i loro nomi associandoli alla loro identità di genere e vederli trascritti in ogni atto ufficiale”.

Krisztina Tamás-Sáróy, ricercatrice ungherese dell’organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani, ha espresso il proprio dissenso in una nota ufficiale: “Questo voto – ha dichiarato – spinge l’Ungheria indietro verso tempi bui e sopprime i diritti delle persone transgender e intersessuate, che dovranno subire non solo ulteriori discriminazione ma anche le conseguenze di un clima ancora più intollerante e ostile verso la comunità Lgbt. Chiediamo al Commissario per i diritti fondamentali dell’Ungheria di sollecitare urgentemente una revisione da parte della Corte costituzionale che porti all’annullamento di questa terribile nuova norma. Ogni persona ha diritto al riconoscimento giuridico dell’identità di genere e deve poter cambiare il suo nome e i riferimenti al genere su tutti i documenti ufficiali”.

Le criticità, purtroppo, riguardano anche il mondo femminile: Amnesty International ha pubblicato una ricerca che spiega come le donne, in ambito professionale, abbiano subito un impatto dalla pandemia più grave rispetto agli uomini. Lo studio, infatti, ha messo in luce come si stia acuendo il problema esistente da lungo tempo in Ungheria, ovvero quello relativo all’ineguaglianza di genere sul lavoro. “Le donne ungheresi, soprattutto quelle incinte e le madri con bambini piccoli, subiscono brutali forme di discriminazione diretta e indiretta sul posto di lavoro – ha affermato Krisztina Tamás-Sáróy commentando in una nota stampa i risultati della ricerca – e la situazione è peggiorata durante la crisi sanitaria. Ignorando l’obbligo di eliminare la discriminazione di genere nel campo del lavoro, le autorità stanno consentendo ai datori di lavoro di calpestare i diritti delle donne in un momento nel quale dovrebbero essere più protette che mai”. Il riferimento della portavoce di Amnesty International è alla mancata trasposizione nel diritto del lavoro degli obblighi internazionali sui diritti umani. Lo studio, infatti, rivela che in questo modo i datori di lavoro possono continuare a sfruttare le ‘scappatoie’ presenti nella normativa interna in materia di relazioni salariali e uguaglianza di trattamento.

Tra i casi più delicati figura, come accennato, quello delle donne in gravidanza: se il datore i lavoro viene a conoscenza che una sua dipendente è incinta può porre termine al suo contratto. Un’azione che ufficialmente non si potrebbe attuare – il diritto del lavoro ha misure di tutela a riguardo – ma spesso il titolare di un’azienda può millantare senza prove a comportamenti inappropriati di una dipendente, potendo così concludere il rapporto di lavoro senza conseguenze. In quest’ottica, l’organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani ha inoltre sottolineato come i datori di lavoro ignorino spesso l’obbligo di ripristinare il ruolo originario della neo madri o affidarne uno equivalente al rientro dalla maternità (sono numerosi i rifiuti delle richieste di part-time al rientro da un congedo per gravidanza). Se già prima il contesto era critico, la pandemia – in quanto situazione inedita – potrebbe quindi portare ulteriori forme di discriminazione a causa dell’assenza di regole in materia.

La pandemia – ha affermato Dávid Vig, direttore di Amnesty International Ungheria – ha avuto un impatto su ogni aspetto della nostra vita ma non dovrebbe essere usata come pretesto per minacciare ulteriormente i diritti delle donne sul posto di lavoro. Nel XXI secolo la gravidanza e la maternità non dovrebbero essere considerate uno stigma. I datori di lavoro dovrebbero invece impegnarsi per mettere a disposizione delle impiegate con figli delle forme di lavoro più flessibili e solidali. Ne trarrebbero vantaggio gli uni e le altre”.


Didascalia immagine di copertina: veduta di Budapest.
Foto di Ansgar Scheffold da Pixabay.