“Il bene e il male esistono?”, quando una domanda tra amici e colleghi dà vita a un libro
Andrea Degl'Innocenti e Daniel Tarozzi, due colleghi giornalisti e soprattutto amici, hanno scritto un libro a quattro mani in cui si sono interrogati sul senso della parola "valori", chiamando in causa esperti e pensatori - tra i quali figura anche Michelangelo Pistoletto - che si sono già interrogati su questi argomenti da vari punti di vista: psicologico, filosofico, sociologico, giuridico, antropologico, artistico, educativo, biologico e spirituale. Vi proponiamo un'intervista ai due autori per ripercorrere parte della loro indagine e mettere in luce il dietro le quinte dell'opera.

Il bene e il male esistono? Una domanda che potrebbe essere posta da un bambino e, allo stesso tempo, uno dei più grandi temi dell’esistenza non può che portare a risposte complesse da articolare oltre la soggettività. Allora perché non fare rete coinvolgendo e riunendo in un libro diversi pareri da differenti ambiti per delineare una nuova risposta o offrire stimoli per costruirla? È stata questa l’indagine che hanno sviluppato Daniel Tarozzi e Andrea Degl’Innocenti, rispettivamente direttore responsabile e giornalista di Italia Che Cambia, nel loro ultimo libro Il bene e il male esistono? Inchiesta di due tipi curiosi e poco attendibili edito da Amrita. L’idea dello scritto è nata per caso (tutto accade davvero per caso?) durante una giornata in Germania, in un parco, passata con un altro amico e collega. Tra sfottò calcistici e confronti sul lavoro e sulla vita, Daniel e Andrea hanno imboccato un sentiero che li ha portati a confrontarsi sulla domanda chiave che poi ha dato forma al loro libro. I due giornalisti si sono resi conto di avere una visione differente: per Daniel, in sintesi, è giusto avere dei valori per distinguere il giusto dallo sbagliato, mentre per Andrea non può esserci nulla che possa definirsi in questo modo (non entriamo nel dettaglio delle loro riflessioni iniziali per non spoilerare).
E così, quello che poteva essere un parere diverso, un motivo di micro-conflitto nella loro sfera relazionale, diviene invece un’opportunità: i due amici, prima che colleghi, decidono di ascoltare il punto di vista dell’altro, argomentando il proprio. Non arrivano, però, a un equilibrio di vedute, ognuno rimane nella propria posizione, pur rispettando quella dell’altro. E da qui si accende la lampadina in Daniel: “Se scrivessimo un libro su questo? Potremmo fare una serie di interviste ad esperti che ci potrebbero guidare alla scoperta di questi argomenti, e noi fare da filo conduttore…”. I due, dopo essersi interrogati sul senso della parola ‘valori’ condividendo prima le proprie considerazioni col lettore, hanno così intervistato, fra i tanti, Francesco Bernabei, Andrea Colamedici, Giuseppe Barbiero, Melania Bigli, Danilo Casertano, Ugo Mattei, Luigi Zoja, Massimo Canevacci, Michelangelo Pistoletto, Lama Palijin Tulku Rinpoce e Angelo Vaira. Hanno quindi intrapreso un viaggio, sempre avvalendosi del pensiero sistemico, che li ha portati a scoprire nuovi punti di vista, che hanno permesso di dare nuova forma, colorare e sfumare le loro riflessioni. Hanno poi cambiato idea? Sono arrivati a una risposta universale? Per scoprirlo, vi lasciamo alle pagine del libro.

Il libro mi ha fatto riflettere. Ho pensato a ogni mia azione e all’impatto che può avere in una dimensione locale e globale. Insomma, la vostra opera mi ha consentito di ragionare e vedere oltre l’immediato di ogni mio gesto quotidiano. Come autori, quale obiettivo vi siete posti nei confronti del lettore?
Andrea – Inizialmente non c’era nessun obiettivo, è nato come un dibattito tra noi due che però ci sembrava interessante. Nei primi tempi il libro è stato quasi un escamotage per approfondire la differenza di opinioni tra noi; il fatto di dargli una forma, nella mia testa, era un modo per non accantonare la questione, ma al tempo stesso affrontarla in una maniera costruttiva, in un perimetro che era quello di un libro che comunque ci obbligava ad andare avanti e a confrontarci, coinvolgendo poi altri soggetti. Credo che lo scopo per chi lo legge – l’ho capito andando avanti nella narrazione – sia calare questi concetti astratti nel concreto della vita di tutti i giorni da tanti punti vista, collegandoli alla vita delle persone e facendo vedere come gli elementi trattati siano tutt’altro che astratti. L’obiettivo, quindi, può essere quello di aiutare a riflettere su questi temi e a porsi delle domande e, perché no, trovare delle risposte. Il libro apre a grandi interrogativi calati nel concreto di tutti i giorni.

Daniel – Mi ritrovo in quanto detto da Andrea. All’inizio non c’era un obiettivo: il libro è nato un po’ per gioco e un po’ per sviscerare e per trasformare un problema in un’opportunità. In quest’ottica, è stata d’ispirazione l’intervista di Truffaut a Hitchcock: senza minimamente volersi paragonare a loro, ho trovato meraviglioso ascoltarli dialogare. Per fortuna ci siamo resi conto quasi subito che per rendere interessante il libro dovevamo coinvolgere gli esperti, anche perché lo scritto affronta temi che hanno delle implicazioni enormi nella vita di tutti.

Come reputate la vostra indagine sul bene e sul male? Credete che in qualche modo sia una forma di bene o è un processo naturale frutto dell’evoluzione umana porsi quesiti come questo?
Daniel – Affermare che il libro sia qualcosa di bene sarebbe arrogante, ma porsi queste domande lo è sicuramente e credo che sia insito nelle persone un po’ consapevoli. Questi interrogativi – chiedersi se esistono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il giudizio e il non giudizio – possono diventare chiacchere mentali quando li astrai, ma cambia tutto quando si indaga sulle ricadute di questi concetti nella nostra vita.

Andrea – Penso che sia stato un bene per noi due e per Italia Che Cambia. È stato un bel percorso, un modo costruttivo di affrontare una difficoltà. In riferimento alla tua domanda, ritengo che può essere un bene, visto che gli esseri umani si pongono queste domande da diverse migliaia di anni. Credo che sia dentro la natura dell’essere umano chiedersi queste cose e rivolgersi a chi sta già indagando da molto tempo su questi quesiti, come nel nostro caso col libro. Al di là dal fatto che il bene e il male esistano, credo che sia molto naturale chiederselo, a prescindere dalla risposta che ci diamo.

Durante un dialogo tra amici in un parco è nata l’idea di Daniel di scrivere il vostro libro. Pagina dopo pagina si evince quanto la profondità del vostro legame abbia influito per dar forma a una narrazione ricca e aperta al dialogo. A vostro avviso, quali risultati si sarebbero ottenuti se il libro fosse stato scritto da due estranei?
Andrea – Il fatto che fossimo e che siamo amici è stata la cosa che ha creato più disagio all’inizio. Avere una differenza di opinioni con Daniel è stato un elemento di stupore, ma allo stesso tempo la leva che ci ha permesso di superare la differenza di vedute e anche di fare questo percorso assieme. Personalmente non avrei avuto l’interesse di approfondire a tal punto qualcosa del genere con una persona che non conosco. Non è solo una questione di amicizia, perché conta la stima reciproca e il fatto che qualcuno che stimi abbia una visione diversa alla tua ti incuriosisce a voler approfondire. Poi c’era l’aspetto lavorativo: avevamo bisogno di capire da cosa nasceva questa divergenza.

Daniel – Non l’avrei fatto con un estraneo. È stato un lavoro complesso, durato tre anni. Un autore non guadagna quasi niente da un libro, non lo scrive per soldi. Nonostante sia stato un lavoro di tre anni, è un impegno che non è mai pesato perché il lavoro che stavamo svolgendo era portato avanti da me e Andrea. In quest’ottica mi faceva rabbia che lui la pensasse in quel modo, perché è una persona che stimo immensamente. Non è questione di essere amici. Il tema era l’aver necessità di trovare un dialogo costruttivo con Andrea, perché è una delle persone che professionalmente stimo di più. Nella narrazione passo per quello a favore dei valori, ma io in realtà su moltissimi aspetti la pensavo come lui; era una sfumatura non banale, molto forte, quella che ci differenziava. Il non trovare una forma di dialogo davvero costruttivo con Andrea sarebbe stata la parte che lui più contesta dell’approccio valoriale, quella divisiva: “Io la penso in un modo, tu in un altro, quindi ci separiamo professionalmente”. Il mondo sarebbe andato avanti ugualmente, ma per me era inaccettabile, sarebbe stata una sconfitta professionale. Forse l’amicizia sarebbe continuata ugualmente, ma professionalmente l’avrei vissuta come una delle più grandi sconfitte della mia vita, e ne ho avute di sconfitte… ma questa sarebbe stata la più grande di tutte.

Credo, da giornalista, che sia interessante osservare l’interlocutore quando gli vengono poste le domande, in modo da avere una velata risposta emotiva a seguito dell’input dato. Qual è stata la prima reazione degli intervistati quando gli presentavate l’indagine su cui verte il libro?
Daniel e Andrea – Abbiamo lavorato anche via mail e telefono, quindi non abbiamo potuto osservare la reazione di ogni singolo intervistato. È stato emozionante, comunque, notare che alcuni si sono rivelati affascinati della nostra indagine e nessuno di loro è stato difficile da convincere a prenderne parte.

Una delle soprese del libro è stato constatare quanto dietro alla vostra indagine ci siano relazioni e implicazioni che non rientrano solo in ambito filosofico o sociale, ma in quello artistico, biologico, giuridico ed educativo, solo per citarne alcuni. Mi ha colpito, ad esempio, la visione di Angelo Vaira sul bene messo al servizio degli altri esseri viventi o le riflessioni di Colamedici (“Non è l’educazione che va fatta, va fatta un’educazione alla fioritura. Tu non puoi insegnare la stessa cosa a tutti gli alberi, non puoi insegnare la stessa cosa a tutti i fiori. Dire cosa è giusto e cosa è sbagliato significa annaffiare tutti i fiori allo stesso modo, mentre l’educazione deve essere quella alla fioritura dell’individuo”). A voi cosa ha colpito maggiormente?
AndreaÈ difficile definirlo: innanzitutto abbiamo scelto queste persone proprio perché pensavamo fossero quelle più titolate e interessanti da coinvolgere. Sono rimasto colpito, all’inizio, dagli argomenti che conoscevo meno, come la visione di Lama Rinpoche, o quella di Canevacci, che calava i concetti del libro a livello antropologico ed etnografico, e anche l’intervento di Mattei sulla parte giuridica. Cito anche Bernabei: aveva una visione che sotto molti aspetti era opposta dalla mia, ma su altro avevo affinità, come se stessimo vedendo una cosa simile ma dai due punti esattamente opposti della circonferenza. In ogni caso, penso davvero che tutti i contenuti siano stati molto interessanti. 

Daniel Anche per me non è semplice rispondere. Bernabei, per motivi diversi da Andrea, mi ha stuzzicato molto, anche se è stato uno degli interventi più astratti. Mi ha poi colpito Mattei e il tema sulla giustizia e le implicazioni sull’aspetto giuridico e psicologico. Vaira e Barbiero poi, per me, sono due maestri. Anche Pistoletto, pur conoscendolo molto bene, più di tutti gli intervistati (Daniel ha lavorato a Cittadellarte per 4 anni ed è stato direttore del Journal, ndr), mi ha fatto riflettere.

Vi siete avvalsi delle riflessioni di autorevoli figure di ogni ambito del tessuto sociale, che hanno dato un contributo a partire dal proprio ambito di competenza per offrire stimoli e contenuti alla vostra ricerca. Ma quali riscontri avete avuto sulla domanda chiave del libro a due mesi dall’uscita?
DanielNon ho ancora avuto un dibattito sul tema coi lettori, ma mi ha colpito il fatto che chi lo ha letto ne ha colto il senso. Hanno tutti capito che il dibattito tra me e Andrea non era solo nostro, ma trattava delle implicazioni e delle ricadute concrete che ha sulla vita di tutti, non come un libro soltanto filosofico. Uno stimolo critico, invece, ci è arrivato da una delle protagoniste del libro, Melania Bigi. Lei ci ha fatto notare che era l’unica donna intervistata. Il fatto che tutti gli altri fossero uomini è successo inconsciamente, ma così si è avuta una visione parziale per una questione di rappresentanza, non di semplici quote rosa. Col senno di poi mi ha fatto riflettere.

Andrea – A me ha colpito il feedback di una signora: mi ha riferito che la narrazione scanzonata, articolata parlando tra di noi e intervistando le persone, le è piaciuta molto, al punto che ha condiviso con me una serie di riflessioni passate o presenti stimolate dal libro. Questo mi ha fatto molto piacere. Poi, pur non avendo avuto ancora molti riscontri, ho capito che il libro può essere uno strumento utile e accessibile per far avvicinare le persone a certe tematiche.

Sulla base del vostro libro e del vostro lavoro, una semplice domanda può essere la base e chiave di volta per il cambiamento? La curiosità, citata anche nel sottotitolo, è l’istinto fondamentale per articolare questo processo?
Andrea – Direi di sì. Ogni cambiamento parte più da una domanda che da una risposta, perché quest’ultima la ‘troviamo’ lungo il cammino. L’indagine sul bene e sul male è una questione molto grande, ma anche nella vita di tutti i giorni: non credo che esistano mai delle risposte definitive: un atteggiamento che assumiamo in un momento – che può essere giusto o adatto per noi in quel frangente – può non esserlo più fra qualche anno. Anche quando parliamo di sostenibilità ciò che è giusto oggi può non esserlo più tra un anno o in un altro contesto. Quindi credo che continuare sempre a farsi domande e a far lavorare il muscolo dello spirito critico sia un allenamento fortissimo per il cambiamento. Bisogna quindi non smettere di porsi quesiti: le risposte sono importanti da trovare, ma con la consapevolezza che sono sempre parziali, vanno bene per un po’, ma poi appunto dobbiamo continuare a metterle in discussione.

Daniel – “La risposta è dentro di noi ed è quella sbagliata”, affermava Guzzanti interpretando il personaggio Quelo. Scherzi a parte, solo negli ultimi 3/4 anni, forse influenzato dal libro, ho capito che il mio obiettivo è ‘dare’ domande. La curiosità è la base di tutto: oggi più che sento di aver raggiunto un obiettivo quando stimolo delle domande. Se do una risposta ho fallito, io non ho risposte, e lo affermo con fiducia in me stesso, perché credo che quello che posso trasmettere alle persone siano le domande. Non è una dichiarazione di umiltà, è una consapevolezza. L’educazione che noi dobbiamo dare al nostro cervello, alla nostra osservazione del mondo – e in questo il giornalismo quando è fatto bene è un mestiere meraviglioso! – è quello di interrogarsi. Ogni volta che si cerca una soluzione semplice è facile finire in qualche forma di fascismo, di mono-pensiero, di approccio valoriale nel senso più tremendo del termine, che divide buoni e cattivi e crea conflitti. La curiosità e le domande, quindi, per me sono alla base di tutto.