Intervista a Giorgio de Finis: “Vi presento il nuovo Museo delle periferie”
Il prossimo curatore del nuovo museo di Tor Bella Monaca delinea ai nostri microfoni l'identità del progetto artistico: "Il RIF intende ‘collezionare’ tutte quelle esperienze che, in ogni latitudine, hanno rappresentato una risposta diversa e ‘fantasiosa’ ai mali della marginalità e vuole lavorare sul territorio, promuovendo ricerche e progetti artistici site specific". L'ambasciatore Rebirth/Terzo Paradiso e antropologo spiega inoltre quale ruolo può assumere l'arte in un contesto lontano dalla metropoli e ripercorre le sue esperienze passate al MACRO Asilo e al MAAM.

Nella capitale l’arte supera i confini del centro città: il vicesindaco e assessore alla crescita culturale Luca Bergamo ha annunciato la nascita del RIF – Museo delle periferie, che avrà sede nel noto quartiere di edilizia pubblica popolare di Tor Bella Monaca, a Est del Grande Raccordo Anulare, la superstrada che circonda Roma. L’incarico di curatore di questo progetto è stato affidato a Giorgio de Finis, già direttore (per affidamento diretto) del progetto sperimentale MACRO Asilo. Abbiamo intervistato l’antroprologo e ambasciatore Rebirth/Terzo Paradiso che si occuperà della curatela del museo, per scoprire quale impronta vorrà dare al progetto e da quale proposta artistica sarà caratterizzato. “Sarà la quarta gamba del neonato polo delle culture contemporanee – ci ha anticipato il curatore –  che, sotto l’egida dell’Azienda Speciale Palaexpo, mette insieme Palazzo delle Esposizioni, MACRO, Mattatoio, e ora anche il RIF”.

Giorgio, ti intervistai a gennaio 2018 in merito alla nomina di nuovo direttore artistico del MACRO. Cosa è cambiato da allora? Ci offri un bilancio della tua ultima esperienza?
Considero l’esperienza di MACRO Asilo una piccola grande rivoluzione che ha abitato in una crepa del sistema, dell’arte e forse anche della politica. La trasversalità, l’interdisciplinarietà, la pluralità, il suo farsi spazio ‘agonistico’ (per usare l’espressione di Chantal Mouffe), l’essere in grado di accogliere paradigmi e forme di vita le più diverse tra loro, in ragione di una sospensione del ‘giudizio’ (assumendo, cioè, uno sguardo ‘metalinguistico’ e sollecitando l’autocandidatura) per lasciare a ciascuno (tutti spettatori emancipati!) la libertà di trovare risposte o porsi domande… sono alcuni degli aspetti che fanno del MACRO Asilo un museo senza eguali. Una grande macchina maieutica, che è stata attraversata da 330mila persone in 14 mesi, che ha saputo guardare senza paura la complessità del (mondo) contemporaneo accogliendo tutti senza pregiudizi (giusto i filtri minimi necessari) all’interno degli spazi protetti del museo. Questi, nel terzo millennio, li possiamo a mio avviso smettere di considerare ‘sacri’.

Quale impatto sociale ha avuto il Rebirth Forum Roma, nato e sviluppato al Macro Asilo quando era sotto la tua direzione artistica?
Il Rebirth Forum Roma, e il Tavolo del Terzo Paradiso realizzato per il MACRO Asilo da Cittadellarte, sono stati una straordinaria ricchezza del museo che ha posto la relazione (e la responsabilità di artisti e cittadini) al centro. Un percorso di riscoperta della possibilità stessa della politica e della democrazia per il tramite di un’arte relazionale che non è solo ‘rappresentazione’ (della relazione, dello stare insieme), ma reale condivisione a fini trasformativi. 1 + 1 = 3, la grande scoperta di Michelangelo, e la formula dell’arte, ci hanno accompagnato per tutto il percorso.

Quando hai iniziato il tuo incarico al MACRO Asilo hai affermato come desiderassi che divenisse “un museo ospitale, una casa e una piazza, uno spazio del comune, da costruire insieme, in maniera collaborativa, come fosse una cattedrale medioevale”. L’obiettivo è stato raggiunto? Queste finalità si differenzieranno o avranno punti in comune col Museo delle periferie?
Il MACRO Asilo era interessato alla vita, alla ‘apparizione’ e alla proliferazione delle forme di vita (artistiche come di pensiero), e non alla loro sparizione (compito spesso si dato al cosiddetto ‘sistema’ che troppo spesso, a mio avviso, opera come un diserbante, liberando le coltivazioni dalle erbacce). Noi ci siamo rifiutati di svolgere questo compito, considerando ogni produzione parte di un più vasto ‘eco-sistema dell’arte’ e invitando tutti gli artisti a collaborare con generosità alla costruzione di uno spazio comune, quello del museo appunto. Quest’ultimo con le minime risorse a disposizione senza questa partecipazione avrebbe chiuso i battenti o sarebbe tornato ad essere l’affittacamere di qualche galleria. Anche il Museo delle periferie combatterà la sua battaglia per abbattere muri e rendere la città più inclusiva; RIF, sta anche per ‘rifondazione’ della città, che può essere ripensata, anche passando per il museo.

Focalizziamoci quindi sul Museo delle periferie e sulle sue peculiarità: quale l’identità vuoi dare al progetto? Ne hai delineato gli obiettivi?
Il Museo delle periferie (museo e centro studi) intende ‘collezionare’ tutte quelle esperienze (artistiche, architettoniche, politiche, da basso come dall’alto) che, in ogni latitudine, hanno rappresentato una risposta diversa, ‘fantasiosa’, ai mali della marginalità. E lavorare sul territorio, promuovendo ricerche e progetti artistici site specific. Creare un punto d’eccellenza in periferia vuol dire anche portare le persone del centro a Tor Bella Monaca, e la cosa più importante spesso è proprio permettere l’incontro di pezzi di città che altrimenti non entrerebbero in relazione.


Il logo del Museo delle periferie.

È già stato scelto il logo del nuovo Museo. Quali messaggi vuole veicolare?
Il logo è una freccia che gira intorno, è ispirato all’anello che circonda Roma, ma in generale evoca la periferia come qualcosa che si distacca da un centro. La freccia, come dicevo, può anche rappresentare un aratro, in questo caso significa ripensare e allargare i confini della città, che a Roma non sono più quelli tracciati ai sette colli da Romolo, fratricida, ma devono estendersi a tutta la città. Assomiglia anche a un uroboro, il serpente (o drago) che si morde la coda, ossia un segno di rinascita.

Il RIF toccherà nella sua mission alcuni dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile?
Alcuni dei 17 punti hanno esplicitamente a che vedere con il superamento dell’esclusione e con la metropoli, che non dimentichiamolo, è l’habitat dell’homo sapiens del Terzo Millennio (dal 23 maggio del 2007, quando il 50% +1 della popolazione mondiale, per la prima volta nella storia umana, si è trasferita a vivere in città).

Hai già annunciato che il museo avrà una biblioteca specializzata, una videoteca, una collezione permanente e proporrà residenze per artisti e progetti di ricerca, oltre a organizzare lectio magistralis e incontri. Non un semplice spazio espositivo quindi, ma un museo interattivo e soprattutto partecipativo. Sono queste le chiavi per far sì che diventi un hub culturale?
Sì, inoltre il museo lavorerà ad una rete di relazioni internazionali, con lo scopo di mettere in comune esperienze, idee, e di confrontarle, avviando fruttuosi scambi con altre città e altre realtà su scala globale.

Dal MAAM al RIF a Tor Bella Monaca: porti nuovamente un progetto in periferia. Quale ruolo può assumere l’arte in un contesto lontano dalla metropoli? La nuova esperienza darà una continuità a quella precedente del Museo Abitato, sempre lontano dalla città?
Ogni progetto ha le sue ‘regole del gioco’, e quelle del RIF non saranno le stesse del MACRO Asilo o del MAAM. Anche se alcuni ‘principi’ li accomunano tutti, principi che definirei ‘politici’ nel senso etimologico del termine.
Tor Bella Monaca non è lontano dalla città, ma solo dal centro, inteso come il luogo da cui si misurano le distanze, quelle spaziali, ma anche troppo spesso quelle economiche e sociali. Più ci si allontana dal Km zero, più si appartiene, volenti o nolenti (nonostante i tanti ragionamenti sulla città policentrica) al margine.
Qualche anno fa proponemmo la creazione di un museo archeologico in cima al Corviale. Lo chiamammo (io e l’architetto Carmelo Baglivo) Corviale Capitolino. L’idea era semplice: si trattava di portare sul tetto di questo edificio di edilizia popolare lungo 1 Km un pezzo del tesoro cittadino, sino ad ora riservato alla città ‘storica’ e monumentale contenuta dal solco tracciato dall’aratro di Romolo. Era un gesto che simbolicamente provava a riparare, con duemilasettecento anni di ritardo, il torto subito da Remo e dalla sua progenie.
Non tutti lo sanno, ma al 913 di via Prenestina, nel quadrante stellare di Roma Est, c’è un altro Campidoglio, con il suo disegno ‘michelangiolesco’ a terra, quello della città meticcia di Metropoliz, un villaggio che resiste ai romani, al pari di quello immaginato da René Goscinny e Albert Uderzo anche grazie ad una speciale ‘pozione magica’, ossia la presenza dell’arte.

Come la Roma del Centro, anche Metropoliz ha il suo museo, il MAAM, con una collezione di opere fuse ai muri e agganciate ai macchinari (quelli che un tempo producevano insaccati), che ha superato il mezzo migliaio. Una ‘barricata’ che gli artisti più diversi, tra cui Michelangelo Pistoletto, hanno contribuito ad erigere per proteggere l’occupazione abitativa, un’opera corale che ha aiutato a re-immaginare il museo del futuro ripartendo dall’origine dell’arte, quando nelle caverne, conviveva con la vita e l’abitare. Se il MAAM ha il compito di proteggere gli abitanti (200 precari e migranti provenienti da tutto il mondo) e i loro diritti, ha anche un’altra funzione che è opposta all’idea del recinto fortificato: quella di aprire la porta di Metropoliz e invitare la città ‘di fuori’ ad entrare, contrastando l’effetto enclave che sempre minaccia questo avamposto al pari delle ruspe. Il Museo dell’Altro e dell’Altrove rappresenta uno scarto nella guerra di trincea che si disputa tra ricchi e poveri, centro e periferia, alto e basso; è un cortocircuito che nega l’idea che un’altra città e un’altra storia siano possibili. Possibilità che non vuol dire affatto rinunciare al conflitto, che è vitale per la pluralità e l’esercizio della democrazia, ma solo non irrigidirlo in una contrapposizione senza via d’uscita, facendoci dire, come il rassegnato protagonista di Mattatoio n.5, “così è la vita”.

In quanto ambasciatore Rebirth/Terzo Paradiso, hai spesso dato l’impronta del segno-simbolo di Michelangelo Pistoletto ai tuoi progetti e ai tuoi incarichi. Al MAAM portasti la Venere degli Stracci, al MACRO, come accennato, il Rebirth Forum. Come pensi che continuerà la collaborazione con Cittadellarte al Museo delle Periferie? La demopraxia avrà un ruolo nel nuovo museo?
In parte ho già risposto, ma aggiungo che con Michelangelo, Paolo Naldini e Francesco Saverio Teruzzi parlammo di realizzare un’opera al RIF già l’anno scorso, quando, nel corso degli incontri partecipati del MACRO Asilo, si iniziava a ragionare di questo nuovo museo. Sono sicuro che faremo ancora molta strada insieme.

Quali funzioni avranno l’arte e la cultura nella società post pandemia?
Il Covid-19 ha aggravato la situazione di chi sopravviveva ai margini, producendo un ulteriore ‘distanziamento sociale’. Nuova povertà, nuove esclusioni, nuovi allontanamenti. Il RIF nasce in un momento che vede per molti, singoli e famiglie, drammaticamente peggiorata la possibilità anche solo di sopravvivere in città.
L’arte è la capacità di ridisegnare il mondo, di dire ‘no’ allo status quo. Quindi confido sempre nell’arte. Che è cultura (in senso antropologico, in quanto produzione esosomatica dell’uomo), ma che combatte la cultura quando questa invece si limita a chiosare un pensiero già dato.