“Invulnerabile” di Francesco Monico: un nuovo immaginario nel mondo che cambia
Come gestiamo la dimensione razionale e l’immaginario? Che cosa rappresenta il capitalismo? Quale è la forza della narrativa? E quale è il ruolo degli organismi internazionali nella globalizzazione? E l’arte che ruolo ha in tutto ciò? Francesco Monico, che si divide tra l'Accademia Unidee e l'Ufficio Spiritualità con Michelangelo Pistoletto, risponde a queste e altre domande nel suo ultimo libro edito da Heraion, offrendo una serie di riflessioni tra "l'immaginario magico e il rigore razionale". Vi proponiamo un'intervista all'autore per viaggiare tra i contenuti del suo ultimo volume, realizzato con l'influenza e l'ispirazione trinamica di Pistoletto.

Dalla filosofia alla religione, dall’economia alla storia, dall’arte all’antropologia fino alla sostenibilità: leggere Invulnerabile significa compiere un viaggio in prima classe alla scoperta di questi mondi, scoprendone sfaccettature e connessioni. La meta è l’immaginario, o meglio, la sua decostruzione. Il libro, edito da HCS Heraion Creative Space, è un testo di teoria critica che porta il lettore a vivere una sorta di aggiornamento del sistema operativo, individuale ma anche collettivo. Per Francesco Monico sembra che stia infatti per calare il sipario sul moderno ed è dunque agli sgoccioli, se non già in atto, un inevitabile cambio di paradigma. Oggi, in questo palcoscenico sociale “non è importante sapere tutto o tanto – scrive l’autore – ma avere la capacità di muoversi tra più immaginari”. Del resto, è proprio quello che la sua opera propone, un viaggio nell’attualità strizzando l’occhio al futuro. Monico non si risparmia, non offre la guancia alla retorica, ma con prospettive inedite spalanca i cancelli di nuove verità o realtà ignote. Dalla lettura se ne esce ricchi e stimolati, a livello culturale e introspettivo. E attenzione a non commettere l’errore di farvi spaventare dal linguaggio e dalle tematiche affrontate o dal citazionismo: per avventurarsi tra le pagine del libro bisogna essere concentrati e affamati di sapere, ma alla fine del percorso si potrà guardare indietro con nuove consapevolezze. Così, varchiamo insieme le soglie di Invulnerabile con un’intervista a Francesco Monico.

Nella copertina del libro è in evidenza l’opera Metaforfosi di Michelangelo Pistoletto ed è presente un Qr code che rimanda alle Lectio Magistralis intitolata Terzo Paradiso e Trinamica – tenutasi a marzo 2023 all’ISIA di Roma – che ti ha visto dialogare con il maestro. Non solo, nei ringraziamenti iniziali dedichi un pensiero alla famiglia Pistoletto, con la quale hai messo in piedi l’Accademia di belle arti dell’omonima Fondazione. Questa profonda connessione con Cittadellarte come ha impattato nella realizzazione del libro?
Sicuramente devo molto a Paolo Naldini e a Michelangelo Pistoletto, in una parola a Cittadellarte. All’idealismo di Paolo Naldini devo la spinta per arrivare a produrre un affresco di un possibile contemporaneo, a Michelangelo Pistoletto l’idea di trinamica intorno a cui il libro è costruito. È una sorta di dialettica estetica negativa alla maniera di Adorno, che pone al centro della scena il decostruttivismo; quindi la applico all’immaginario. In questo modo cerco di scoprire gli archetipi nascosti della società; questi, pur essendo presenti nell’immaginario profondo, non sono resi consapevoli dalla cultura di massa e dei media. Cosa rappresenta l’opera in copertina? Significa vedere come lo stesso artifizio possa avere più apparenze. La lezione di Michelangelo esprime un nuovo modo di fare pensiero, cercando una sintesi tra la grande tradizione filosofica antropologica dell’occidente e la tradizione dell’arte, in particolare moderna e contemporanea in quello che possiamo chiamare pensiero-arte.

Nel retro di copertina viene specificato come il libro conduca alla “decostruzione dell’immaginario apparentemente invulnerabile a cui siamo assuefatti”. L’esito di questo processo quali ripercussioni sociali può portare a lungo termine? 
Uno dei contributi più interessanti alla filosofia contemporanea è la ‘Horror of Philosophy’ della New School di New York. Parla dei nuovi concetti perturbanti ed estranianti di questo grande cambiamento di paradigma che stiamo affrontando all’alba del XXI secolo. Ritorna così il ‘numinoso’ di Rudolf Otto ma anche di Carl Gustav Jung, perché siamo di fronte alla potenza invisibile degli archetipi, di cui la nostra conoscenza riesce a recepire solo l’immagine o la manifestazione culturale che purtroppo oggi non esiste ancora. Di fatto il moderno è finito. Che cos’è il moderno? È la speranza del futuro, la costruzione di un mondo dignitoso e migliore. Oggi siamo invece di fronte a un nuovo nichilismo, a una mancanza di uno scopo e di un perché. Tutto questo parrebbe tragico e terrificante, ma invece dal punto di vista artistico diventa entusiasmante, perché dobbiamo ricodificare e riscrivere un mondo intero. Da qui si manifesta l’importanza di inserire l’arte dentro la teoria critica delle grandi filosofie moderne contemporanee. In una nuova alleanza tra artisti e pensatori per produrre appunto un pensiero-arte. A me interessa proprio la potenza dell’immaginario veicolata dall’arte per fare quella che chiamiamo ricerca speculativa e che sta a buon titolo dentro le cosiddette contemporary humanities.

Focalizziamoci sul bacino d’utenza. Ritieni che il libro si rivolga a un target specifico o a un pubblico generalista? Quale obiettivo, in riferimento al lettore, ti sei prefissato come autore?
Il libro l’ho scritto in seguito alle riflessioni con gli studenti dei miei corsi e con la comunità accademica e artistica che frequento. In un articolo uscito su Vogue qualche anno fa avevo definito gli alunni e i docenti rispettivamente come i creatori di nuove narrative e i guardiani delle rovine, nel senso che noi adulti (gli studiosi) siamo codificati dalle esperienze che abbiamo vissuto e dalla cultura che abbiamo studiato, mentre gli adolescenti (gli studenti) hanno, nel senso stesso del loro essere, la possibilità di creare nuove storie e immaginari. Visti così gli adolescenti sono il participio presente dell’adulto, ovvero il suo farsi, e in questo senso sono e saranno i creatori dei mondi futuri che affronteremo. Questo è un libro è dunque per tutti coloro che sono interessati a nuovi immaginari, ma anche a chi desidera essere consapevole dell’epoca in cui sta vivendo e a chi non vuole annegare nell’inconsapevolezza di ciò che potrebbe arrivare.

Il volume si avvale della prefazione di Francesca Lancini, che ha spiegato come i processi digitali abbiano mescolato le narrazioni personali con quelle collettive, e dell’introduzione di Derrick de Kerckhove, soffermatosi sull’epistemologia e sul potere dell’immaginario. Se il tuo libro fosse un cena di gala, potremmo considerare questi contributi come un antipasto gourmet che dà il via a un viaggio tra i sapori della conoscenza?
Assolutamente sì. Francesca è una bravissima scrittrice, colta, sofisticata e profonda. Derrick è uno dei punti di riferimento internazionali dell’analisi dei mass media e dei nuovi media, in particolare di lui mi interessa la profonda conoscenza degli archetipi della filosofia e dell’epica greca, che fondano il pensiero occidentale. L’idea di avere la prefazione di una scrittrice, l’introduzione di un sociologo dei media e una lezione di un artista contemporaneo, è proprio un tentativo di creare più punti di vista sistemici all’interno della stessa opera.


Derrick de Kerckhove.

Francesca Lancini. Foto di Giovanni Troilo.

Nel primo capitolo ti focalizzi su uno dei temi chiave del tuo libro, ossia l’immaginario. Scrivi che “la vita ha una dimensione narrativa, ovvero costruttiva, e l’essere umano diventa un artista del racconto che costruisce il senso di una verosimiglianza che una cronaca non potrà mai ricostruire perché l’umano abita il suo stesso immaginario”. A livello di antropologia culturale, esistono dei limiti al potere costruttivo-creativo della narrativa?
Credo di no. Di fatto siamo una specie che è riuscita in un tempo brevissimo a porre le basi per la propria estinzione.

In riferimento al capitolo Il moderno Pangloss, ti soffermi sull’Antropocene e sul controverso e fragile legame tra l’economia speculativa e le risorse naturali. In un parallelismo col simbolo trinamico di Pistoletto, qual è la chiave per giungere all’equilibrio del Terzo Paradiso? Come scrivi, poter ripensare al concetto di progresso può essere la chiave di volta?
Oggi, secondo me, stiamo vivendo la fine del moderno. E per moderno intendo tutto quel paradigma tecnocratico che si è diffuso dopo la stampa a caratteri mobili a metà del ‘400 e che si conclude con la fine del secolo breve di Hobsbawm, il quale metteva in evidenza – come evento conclusivo – la caduta del Muro di Berlino. Non solo, ma al tempo veniva lanciato il brevetto del world wide web e, con l’avvento dell’internet, si avvia la globalizzazione, che si compie con lo smartphone, il dispositivo che ha portato il globale nel palmo di ogni individuo. Quindi la cultura si rimescola in tutte le culture: i nostri pensieri diventano relativi a una dimensione mondiale. In questo scenario c’erano però molte culture, come quelle di Cina, Giappone e del Sud America, che non erano così entusiaste del progresso. Il risultato è che oggi dobbiamo fare i conti con questo fenomeno passato, ossia che una parte del mondo potrebbe non essere così interessata a questo aspetto. Perché la tecnica è globale ma le culture sono locali. Questa globalità si compie assistendo all’arrivo di Chat GPT, ovvero di un’intelligenza dell’artificiale che determinerà un neoglobale che sarà la vera cifra del XXI secolo.
In quest’ottica, proprio in senso trinamico, potrebbe essere presa in considerazione l’eresia della decrescita di Latouche e lo sguardo verso forme di sapere passate, la messa in discussione dello stesso moderno attraverso un’analisi critica del progresso visto come imperativo di innovazione in una reazione che potremmo chiamare nuova-reazione. Ecco, con il cambio di paradigma, la trinamica è un ottimo strumento dialettico per lavorare dentro questi nuovi possibili immaginari.

Dalla teologia al pensiero razionale-calcolante. In quest’epoca tecno-scientifica, secondo Francesco Monico, Dio è davvero morto? 
Friedrich Nietzsche, con il suo “Dio è morto” aveva aggiunto che sarebbe ritornato. Io credo proprio questo: affermare che “Dio è morto” significa descrivere la fine di un paradigma di riferimento. Oggi si spiega tutto con la scienza e l’economia, ma nel momento in cui il paradigma tecnocratico andrà in crisi la grande tradizione religiosa che ha caratterizzato l’umanità nella sua storia ritornerà e potrebbe essere che assumerà di nuovo un ruolo centrale.

Nel quinto capitolo offri una panoramica trasversale su cosa si cela dietro gli orrori del nazismo. A questo proposito, sottolinei che “se ci siamo liberati dal Reich come evento, ancora non ci siamo liberati da ciò che lo ha reso possibile”. Puoi anticipare e argomentare, a chi ancora deve avventurarsi tra le pagine del libro, le motivazioni di questa impattante riflessione?
Preciso che questa idea non è mia, ma di Roberto Esposito della Scuola Normale Superiore di Pisa e anche di vari epigoni della filosofia della tecnica europea. Attraverso la loro opera mi concentro sulla struttura che sta dietro al nazismo, ovvero il pensiero tecno-scientifico, che è la vera cifra di questo terribile movimento. Sia il fascismo sia il nazismo sono stati movimenti tecnologici, ma come scrivo nel libro la tecno-scienza non si era ancora dispiegata completamente; esisteva quindi un margine per la vita e l’umanità, che alla fine ha vinto. La struttura tecnologica del primo novecento ha creato come sovrastruttura il nazismo. Il problema è che i vincitori di allora, essendo uomini molto scaltri che desideravano investire sulla propria vittoria, non hanno cambiato il paradigma, e quindi la struttura, ma se ne sono appropriati. Ne consegue che questa struttura contemporanea è una forma camuffata di nazismo; basta pensare che, da questo punto di vista, il più grande successo organizzativo umano è stato l’Olocausto. Sicuramente oggi, come allora, c’è un mondo che si oppone all’esaltazione di questo paradigma tecno-scientifico.

Hai passato una vita nel mondo dell’alta formazione, insegnando in varie accademie e atenei italiani di assoluto prestigio. Citando il filosofo Giovan Battista Vico, così come approfondito su Invulnerabile, come è possibile far sì che le nuove generazioni non risultino sempre più “analfabeti dell’immaginario”?
Nella mia pratica accademica mi ispiro a Vico e cerco di insegnare agli studenti a conoscere l’immaginario. Per questo ritengo che occorra creare una nuova teoria dell’immaginario: non c’è mai stata, e vista la centralità che assumerà, in un mondo determinato da storie generate dall’Intelligenza artificiale e dalle onnipresenti storie verosimili (le fakenews), è arrivato il momento di crearla. Ovviamente bisogna riuscirci anche guardando verso le religioni. E questo lo affermo nonostante sia convintamente laico.

Concludiamo dunque rivolgendo uno sguardo alla spiritualità, che è anche uno dei temi chiave della pratica artistica di Pistoletto.
La sua arte è fondata su quelli che io chiamo ‘pensieri arte’, ossia dall’incontro tra filosofia, scienza e arte. In tutto questo pensiero è centrale la spiritualità, nel senso dello spazio della memoria, del dato che di fatto non esiste se non nella mente del soggetto, e che oggi è il luogo dei nuovi immaginari. In questo senso, Michelangelo mi ha proposto di lavorare con lui alla creazione dell’Ufficio Spiritualità di Cittadellarte; da parte sua, a mio avviso, ha così compiuto una mossa contemporanea perché il suo interesse verso la spiritualità non fa altro che dimostrare l’incredibile attualità di tutto il suo pensiero.