Il rumore del vuoto. Un rumore metallico. Come una campana stanca di suonare: un colpo di ringhiera. “Nel nome della madre, della figlia e delle sorelle tutte, prendetene e bevetene tutti, questo è il mio corpo offerto in rovina per voi”.
La live performance degli studenti frequentanti il corso di “Anatomia Artistica” dell’Accademia Unidee di Cittadellarte accoglie così gli spettatori: all’interno delle stanze di uno stabile dismesso, in una di quelle archeologie industriali della città di Biella che, con il fascino delle rovine del tempo, sa evocare, far immaginare e domandare di essere riabitata. Tra il silenzio delle pareti scrostate e lo scorrere del fiume Cervo, ai piedi del Ponte di Chiavazza: “Questo è il nostro sangue, versato nel nome della nostra sorellanza – continua la voce, proveniente ‘dall’aldilà’, dagli invisibili piani dell’impotenza – ricordatevi delle vostre sorelle che si sono addormentate nella speranza della resurrezione”. Striscia dolorante, poco a poco, dal piano superiore, un corpo straziato di donna; avvolto in tessuti candidi, come un angelo caduto, svela il suo sentire interiore, ma a parlare, ora, sono i suoi occhi rosso fuoco, sangue.
In bilico tra il sacro e il profano, si sviluppa la live performance di Luisa Mertina, studentessa al 3° anno di Sustainable Fashion Design. Con il potere di trasportare gli osservatori, attratti e respinti allo stesso tempo, nelle altre stanze sconosciute dell’edificio, il suo corpo viene ritrovato con le mani immerse in tinozze colme del proprio sangue e con sguardo penetrante: “Questo è il mio sangue versato per voi. Non sarò sposa e nemmeno madre. Voglio essere donna. Io voglio sanguinare libera. Non voglio stare alle vostre regole. Del vostro pudore e di questa vergogna, io, me ne lavo le mani”. Tracciando segni e impronte sui muri semi intonacati dell’UNIDEE Space, la performer continua ad abitare lo spazio in mezzo al pubblico, abbandonandolo all’incontro di un’altra situazione.
Questa volta l’atmosfera è color indaco sbiadito, come il vestito di raso della figura al centro della nuova stanza. Assorta nell’osservare il proprio volto, riflesso su un piccolo specchio tenuto tra le mani, una donna seduta nel suo spazio intimo è alle prese con il truccarsi le labbra, rosse come l’accendino che posa sul tavolo.
“Non troverai mai più nessuno migliore di me. Sei sicura che vedi i tuoi amici? Dove vai truccata così? Io sono il tuo fidanzato. Tu sei mia”. Una voce maschile forzatamente serena, dal retro della stanza, le rivolge queste parole. Il clima s’intensifica, di toni e di reazioni, plasmando una situazione purtroppo già familiare a molti tra il pubblico. Fotografie stracciate, lettere bruciate, occhi carichi, spalle al muro e la sopportazione tenuta al limite di un persistente silenzio assordante. “Bastava non farmi incazzare – continua imperterrito il ragazzo – io non ti tratto male, io ti amo”. Una porta viene sbattuta e il silenzio viene rotto: grida di dolore, ma solo per alcuni momenti, gli ultimi. La performance viene portata avanti dal pubblico che, impietrito, rimane a guardare ciò che resta delle atrocità della vita.
“Benvenuto in Me!”, recita un cartello all’entrata di uno spazio da cui proviene una lieve luce calda. Mentre ciascun spettatore continua a perdersi tra i labirintici spazi dell’ex fabbrica abbandonata, qui ognuno è invitato ad assistere al ritrovamento e all’incontro dell’ex se stesso. Come riaprire il diario che si scrisse da bambini, ricordare l’empatia provata per quei personaggi narrati tra le pagine d’autore, in questa stanza si torna vivi nella scena riflessa di un monologo allo specchio, che poi monologo non è. “Parlando con l’ex. L’ex di me stesso” si legge tra i vari messaggi affissi alle pareti. I performer qui sono i diversi Alvaro Werner riflessi dall’unico Alvaro Werner. Vestono tutti lo stesso kimono verde a rose rosse della nonna, il tacco in pelle e gli occhiali da sole mentre sorseggiano vino bianco. “È una scelta, amore. Fai la tua scelta – si dicono da una dimensione all’altra -, sappi che io sono te. Io sono la scelta che tu fai nella tua vita. Non avere paura, vieni. La vita qua fuori è bella. Esci, vivi, non esistere. Tu sei qui, siamo insieme, abiti in me stesso”.
Intanto una danza tra due anime, scandita dal tentativo di nascondere una lama affilata, evolve sempre più in una lotta figurata tra due introspezioni umane. In queste mura, tra cumuli di muschio, manichini e polvere su tappeti persiani, Filippo Panico, studente al 1° anno di Moda Sostenibile, performa concettualmente con la parte distruttiva e creativa di se stesso; con il “tradimento”, incarnato da una figura nera, che lo porterà ad arrendersi nella ricerca della luce della “fiducia”, personificata da un corpo femminile dalle vesti bianche. Attraverso l’utilizzo di colori, costumi simbolici e grazie alla collaborazione di Sara Rognoni e Francesca del Pizzo, la performance proposta dal giovane WZRD, nome d’arte di Filippo Panico, mette in moto una storia delle emozioni e un racconto della relazione che può esistere tra due comportamenti contrastanti.
“Sogni”, “Speranza”, “Amore”, “Coraggio”: queste sono alcune delle parole che, come in un flusso di coscienza, vengono annotate su un foglio bianco da un corpo vestito scuro, in piedi in una piccola stanza buia. È la trasposizione del mosaico dei pensieri suscitato dalla mente di una donna legata a una sedia, impossibilitata a muoversi. Questa la performance di Natalie Terezova, frequentante il 1° anno di Moda Sostenibile, realizzata in collaborazione con Gabriel Croso, studente al 2° anno di Arti Visive per la Sostenibilità Sociale.
È capitato a tutti tra il pubblico, almeno una volta, di imbattersi nella ragnatela estesa dell’allieva Melek Bacha, durante l’esperienza di viaggio proposta nell’evento a casa di Accademia UNIDEE. Ispirandosi al classico “Notti bianche” (1848) di F. Dostoevskij, la giovane performer intesse e disfa trame, intreccia muri di filo di lana che diventano proiezioni di uno “scudo” personale, sorretto da ansie e tormenti. “È una trasposizione di un mio nido creato nel tempo – racconta la studentessa al 1° anno di Moda Sostenibile ai nostri microfoni -, una mia tana da cui vengo stanata da me medesima, tagliando, come processo inverso della costruzione, quel filo che collega il mio passato, il mio presente e il mio futuro”.
Queste le performance individuali degli studenti accademici di Cittadellarte, che si sono intrecciate, tra le 18:00 e le 19:30 della giornata del 16 aprile, nel volume vuoto di UNIDEE Space attraverso quello che è stato definito dagli insegnanti, Verena Stenke e Andrea Pagnes, e dagli allievi stessi:
“Un viaggio nostro, dinamico,
Per rendere vive mura fragili e stanze vuote, in disuso
Almeno per un giorno, un’ora,
Il tempo di un respiro“.
Gli insegnanti del corso di Anatomia Artistica di Accademia Unidee, Verena Stenke, artista tedesca, e Andrea Pagnes, artista e scrittore veneziano, dal 2006 hanno fondato un duo artistico, con il nome di VestAndPage, per esplorare la loro ricerca artistica con la performance art e il cinema a livello internazionale. La pratica artistica di VestAndPage è concepita psico-geograficamente in risposta all’ambiente naturale, ai contesti sociali, ai siti storici e alle architetture, ricercando costantemente con le loro azioni una poetica delle relazioni. “Noi lavoriamo sullo sviluppo narrativo – ha raccontato l’artista Verena Stenke ai nostri microfoni – attraverso la collaborazione, la performance e lo storytelling. Su questi aspetti abbiamo potuto affiancare i ragazzi, ispirandoli.”
Verena e Andrea sono i fondatori e i direttori della Venice International Performance Art Week e le loro pubblicazioni, con i loro scritti poetici, sono stati stati tradotti in diverse aree del mondo. Dopo l’incontro all’UNIDEE Space abbiamo ascoltato le parole dell’artista e insegnante Andrea Pagnes in merito al corso e al progetto portato a termine con gli studenti (di cui riportiamo l’elenco completo a fondo dell’articolo).
“Precedentemente al progetto performativo, insieme agli studenti abbiamo curato un percorso di ricerca della propria potenza emotiva attraverso quella che viene chiamata ‘Creative Writing’. Il sentire interiore è da intendere come un tozzo di creta tra le mani, come un corpo. Iniziando a plasmarlo si possono estrarre azioni performative, consapevoli che a seconda dello spazio in cui le potenze emotive verranno performate, queste potranno ulteriormente trasformarsi. Uno degli elementi fondamentali nella performance art è la relazione, che si instaura con sé stessi, con un altro performer, con il pubblico e con il corpo dello spazio. Anche il vuoto è un corpo. Per questo il nome del corso è ‘Anatomia Artistica’, perché è improntato sull’analisi di tutte quelle teorie legate al corpo, dello spazio o della memoria, per citarne alcuni. Per noi la sfida è mantenere attivi tutti questi concetti e corpi facendo azione, dal primo giorno. In inglese ‘Hold the space’ significa ‘tenere uno spazio’, indossarlo, proteggerlo e pensare che attraversandolo, con una propria azione, si può custodire ed esprimere il proprio potenziale artistico e creativo. Questo progetto prova come lo spazio, come corpo, abbia interagito durante tutto il suo sviluppo. E qui siamo giunti e torniamo a chiederci ‘quali spazi della città vorremmo fossero rigenerati e con quale destinazione d’uso?’”.