Michelangelo Pistoletto si racconta a “La vita che mi diedi”, programma radiofonico di Rai Radio 3
Novant'anni di storia raccontati in 58 minuti di conversazione: è andata in onda l'altro ieri sera, domenica 28 gennaio, l’intervista al fondatore di Cittadellarte per il programma targato Rai. La puntata, condotta da Monica D'Onofrio, è ora disponibile all’ascolto sull’applicazione Raiplaysound nella playlist del programma. "Tutti gli elementi della civiltà - ha affermato il maestro - sono lì che aspettano che l’arte li conduca a un risultato nuovo e armonico, ed è lì che noi lavoriamo per mettere insieme gli elementi contrapposti in modo tale da creare, non conflitto, ma equilibrio”.

Durante l’ultima edizione del Festivaletteratura, tenutasi a Mantova il settembre scorso, Michelangelo Pistoletto ha riavvolto il nastro dei suoi 90 anni ai microfoni del programma radiofonico “La vita che mi diedi”, condotto da Monica D’Onofrio su Rai Radio 3 Suite.
La conduttrice introduce il maestro sottolineando la sua intramontabile energia e, riferendosi agli anni compiuti dal fondatore di Cittadellarte, afferma: “Direi che 90 anni sono una prospettiva particolare per guardare al futuro”.
Sono un trampolino di lancio per me! Non credevo – esordisce il maestro – che a quest’età mi sarei sentito pronto per partire. Sicuramente parto da una piattaforma che ho creato e che mi permette di immaginare il futuro nella dimensione tracciata attraverso il mio lavoro e la mia vita”.

Come si intende dal racconto delle prime esperienze vissute nel laboratorio di restauro del padre, fino all’iscrizione presso l’Università di pubblicità di Armando Testa, Michelangelo Pistoletto potè avvicinarsi all’arte ottocentesca e approfondire l’arte moderna fin dalla giovane età. Colti i primi stimoli visitando le mostre nella Torino degli anni ’50, l’artista racconta come e da dove è nata la sua necessità di fare ricerca. “Io mi sono dedicato alla ricerca della mia identità, mi sono chiesto: chi sono io? Vede, se io avessi seguito quello che succedeva in quel momento, sarebbe stato per me immediatamente possibile e facile creare un segno, creare una forma, stendere dei colori e produrre una materia; cosa che veniva fatta dagli artisti come estrema espressione di autonomia e individualità. Questo è andato via via creando un’estensione di individualismo assoluto nell’arte contemporanea. Se io faccio un segno e decido che io sono quel segno, non scopro chi sono io, lo decido io. Invece, per scoprire chi sono, perché esisto in questo mondo, un mondo che oltretutto trovavo piuttosto maledetto a causa di questa ‘guerra dell’esistenza’ continua, mi sono dedicato all’unica possibilità di riconoscimento: quella dell’autoritratto”. 

La curiosità di Monica D’Onofrio prosegue sulla visione giovanile di Michelangelo Pistoletto: “Si ricorda un artista in particolare che l’ha folgorata, che intraprendeva delle strade nuove rispetto al panorama di allora?”
“Forse l’artista più attraente per me è stato Fontana, – risponde il maestro – e non distante Burri, con i suoi sacchi cuciti e le sue plastiche bruciate. Forse in qualche modo i miei stracci, che sono venuti poi molto più tardi, hanno ancora qualcosa a che vedere con quelle esperienze, con la pittura materica di Burri e la ricerca spaziale di Fontana. In quel momento non capivo cosa volesse dire Fontana, forse potevo capire meglio Burri, ma quando davanti alle tele bianche bucate di Fontana vedevo la gente che si ribellava, urlava e interpretava quelle opere come un insulto, io pensavo che se un artista aveva creato quelle opere, una sua motivazione doveva pur averla. Così, anche non capendo a pieno la sua vera ragione, quello che compresi è che aveva lavorato per metterla in evidenzia. Quello che ho voluto fare io – specifica – da quel momento è stato iniziare a cercare la mia di ragione. Ecco perché Fontana è diventato importante per me”.

La conduttrice orienta il discorso sulla dimensione sociale degli ultimi anni ’50 e i primi anni ’60, periodo in cui l’artista stava raggiungendo i primi ‘traguardi’. Nonostante Torino all’epoca fosse ancora molto provinciale, i tempi stavano iniziando maturare per dare vita a un cambio di prospettiva. “Come Piero della Francesca – prosegue il maestro – ha aperto e codificato scientificamente una prospettiva, io mi chiedevo se in quel momento fosse possibile per l’arte tracciare una nuova prospettiva nella società, così come è stato fatto nel Rinascimento. Ovviamente non si parla della prospettiva rinascimentale perché quest’ultima è finita con l’arte moderna, con Fontana che buca il muro della prospettiva e fora lo spazio per vedere se ne esiste un altro oltre. Quando io ho trasformato il quadro in superficie specchiante ho abbattuto il muro, perché tutto quello che si vedeva davanti a me era apertura totale. A quel punto arrivai al risultato che ciò che io vedevo davanti a me, includeva me, lo spettatore e tutto quello che stava intorno e dietro di me. L’essere umano così l’ho posto al centro di una prospettiva circolare”.

La conversazione continua liberando i ricordi del periodo in cui nacquero gli “Oggetti in meno”, momento tanto di apertura, verso la strada che porterà alla nascita dell’Arte Povera, quanto di rottura, rispetto al sistema americano e alla corrente della Pop Art in cui Michelangelo Pistoletto, con i suoi quadri specchianti, si stava andando a inserire.
“’Gli oggetti in meno’ sono il risultato di un processo che si è verificato attraverso la diffusione dei quadri specchianti” riporta il maestro. Per salvaguardare e mantenere la propria identità italo-europea, racconta quanto segue: “Ho iniziato a distruggere il mio ‘marchio’, che erano i quadri specchianti, e ho cominciato a fare un lavoro totalmente diverso. Era il 1965 e ogni mio lavoro era così diverso da qualsiasi altro che ogni opera sembrava essere realizzata da un artista diverso. I galleristi Leo Castelli e Ileana Sonnabend mi chiesero se mi volessi distruggere, io risposi che era esattamente quello che volevo fare. Avevano fatto una diagnosi perfetta. Assumendo questa assoluta autonomia, non come individuo unico, ma come artista suddiviso in istanti totalmente diversi nel mio produrmi, mi sono diversificato e sono diventato tanti altri in me stesso. Ecco che a quel punto ho aperto il mio studio, coinvolgendo arti e competenze diverse, dando vita ad uno ‘zoo fuori dalla gabbia’”.

Il dialogo prosegue esplorando le dinamiche della nascita dell’Arte Povera e lo sviluppo dello studio del maestro, che è stato motore di uno scardinamento della “gabbia dell’istituzione” e di un’attivazione di incontri sociali e di interventi diretti nelle piazze delle città. A questo proposito la conduttrice sollecita il fondatore di Cittadellarte sul tema e sul rapporto dell’arte con lo spazio pubblico e con la società. “Con il segno-simbolo del Terzo Paradiso – spiega Michelangelo Pistoletto – ho creato una formula per includere l’umanità in un senso attivo. Così nasce Cittadellarte a Biella. L’ho immaginata come istituzione che ingloba tutte le ‘uscite dalle istituzioni’. Così sono ripartito con un progetto che ha saputo coinvolgere tutti i settori sociali. Oltre che ad esserci la musica, la poesia, il teatro, il cinema, c’è la politica, la scienza, la religione e l’economia, tutti gli elementi che sono parte della società, quella società che abbiamo voluto incontrare con l’arte per assumere un impegno di trasformazione della società stessa. Così attraverso Cittadellarte si pone la creazione di una ‘civiltà dell’arte’, una civiltà condotta dall’arte. Tutti gli elementi della civiltà sono lì che aspettano che l’arte li conduca a un risultato nuovo e armonico, ed è lì che noi lavoriamo per mettere insieme gli elementi contrapposti in modo tale da creare, non conflitto, ma equilibrio”.

Oltre all’azione e all’arte, la conduttrice s’interroga sull’importanza della scrittura: “Lei crede nel valore della parola, oltre che di quella parlata, della parola scritta?”.
Se pensiamo al Louvre – replica il maestro – che raccoglie attraverso l’arte la storia dell’umanità, le biblioteche raccolgono la storia dell’umanità attraverso la scrittura. La scrittura viaggia come memoria della nostra storia ed è indispensabile per congiungere la visione con il pensiero e l’azione. Attraverso questo mezzo io riesco a trasporre il mio pensiero in un piano che può essere utilizzato anche dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale. Sono gli algoritmi che sono diventati parola – conclude l’artista – diventano memoria dinamica che ci porta davanti a uno specchio che non è più solo visivo, come i quadri specchianti, ma è uno specchio tecnologico che ad oggi tutti utilizziamo”.

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