Immaginate di sentire fastidio ad accavallare le gambe e sofferenza nel camminare a lungo o durante i rapporti sessuali. Provate a pensare di non essere ascoltate, che il vostro disagio fisico e psicologico non venga preso sul serio e di avere le spese per le cure economiche a vostro carico. Questo è ciò che vive chi, come la mia amica Sofia Scolaro, studentessa ventiduenne di Scienze dell’Educazione di Torino, soffre di vulvodinia, una malattia ginecologica invalidante che comporta dolore vulvare cronico, come sensazione di bruciore o di spilli, e che compromette la vita quotidiana, affettiva e di coppia di molte donne. Proprio oggi, 11 novembre, è la Giornata Internazionale della Vulvodinia, istituita da VulvodiniaPuntoInfo ONLUS per sensibilizzare su questa patologia ancora poco conosciuta che si presenta come “malattia invisibile”, poiché non è accompagnata da sintomi “visibili” quali tagli o lesioni: questo aspetto ha fatto sì che alcuni medici non credessero al dolore delle pazienti malate e che ritenessero, erroneamente, che si trattasse di stress o ipocondria. La poca ricerca e letteratura scientifica rende la vulvodinia, quindi, non facilmente diagnosticabile, nonostante non sia una malattia rara e, anzi, colpisca circa 1 donna su 7. E il numero è sottostimato.
“È iniziato tutto – ha esordito Sofia – in un pomeriggio di maggio 2020; i centri culturali e i musei riaprivano al pubblico le loro porte perciò decisi di visitare una mostra. La giornata procedette molto bene, avevo camminato parecchio e sudato, quindi, tornata a casa, ho iniziato a lavarmi. Ad un certo punto, sento però una fitta lancinante che dal clitoride si diramava su entrambi i lati delle cosce e scendeva giù fino la punta dei piedi. Inizialmente non ci diedi importanza, cercai di ignorare il dolore pensando che sarebbe stato solo momentaneo, ma dopo settimane ancora non passava. Conoscevo già la vulvodinia ed ero consapevole della difficoltà che una donna può riscontrare nell’avere una diagnosi e una cura. Mi misi così alla ricerca di un medico specializzato che fosse quantomeno in grado di riconoscerla. Ebbi la diagnosi di vestibolodinia l’8 ottobre 2020 e l’unica cosa che mi fu prescritta fu un percorso di psicoterapia perché la vulvodinia poteva essere legata a uno stato di depressione o ansia, ed io avevo sofferto di depressione alle superiori. Il medico mi ha informata che sarebbe stato meglio se avessi avuto qualsiasi altra malattia ma non questa, perché, come affermò, ‘non c’è nulla da fare’. Ciò mi demoralizzò molto. Mesi dopo, lo stesso dottore, sollecitato da mia madre, mi prescrisse il Laroxyl, un antidepressivo che agisce sul dolore neuropatico. Il primo ciclo andò bene, riuscivo ad avere rapporti e addirittura orgasmi, ma finita la terapia tornò tutto come prima, se non peggio. Riprovai la terapia altre due volte, ma senza successo”.
Sofia Scolaro.
Sofia ha rivelato le conseguenze di questo grave problema: “Quando ho ricevuto la diagnosi ho subito pensato: ‘Dovrò cambiare il mio stile di vita completamente, dovrò spiegarlo ai miei amici, che si dovranno adattare ai miei ritmi’. Ero rassegnata, ho capito che non avrei avuto una vita sessuale attiva come le altre ragazze. Inizialmente avevo paura a comunicare la mia malattia, anche perché si tratta di una zona intima, ma ora fa parte di me. Se devo uscire con qualcuno può succedere che all’ultimo io debba disdire, cerco di divertirmi come i miei coetanei, se non mi sento bene mi siedo un attimo ma è capitato che dovessi tornare a casa e mi dispiace rovinare la festa. Ho iniziato a soffrire parecchio anche d’ansia, c’è stato un periodo in cui facevo fatica ad alzarmi dal letto perché pensavo: ‘Se mi alzo sto male come prima’, quindi passavo le giornate a letto a piangere, la vulvodinia ti isola”. Quando le chiedo quali azioni può svolgere alla luce della sofferenza della malattia mi risponde, scoraggiata, che è frustrante sentirsi impotenti. E quando non sa come liberarsi del dolore lo rende visibile scrivendolo su un foglio, che poi simbolicamente butta nel cestino, come per provare a sbarazzarsene.
Molte donne ne soffrono, ma tendono a sottovalutare il problema, che resta non curato per anni, perché il dolore femminile, ad esempio durante il ciclo mestruale o nei rapporti sessuali, è normalizzato nella nostra società. A causa di retaggi storici e culturali, inoltre, si prova vergogna a esporsi verso problematiche che riguardano la sfera intima e le adolescenti spesso la vivono come un segreto e la nascondono per paura di non “essere all’altezza” delle aspettative dei coetanei. “La malattia ha risvolti sociali poiché la pressione – ha spiegato Sofia – porta noi donne a cercare di essere sempre perfette e accondiscendenti nei rapporti sessuali, a indossare pantaloni attillati e a depilare anche la zona intima, azioni che possono portare ad ammalarsi anche di vulvodinia. Ora sono abituata a utilizzare solo intimo bianco e di cotone, ma è fondamentale trovare un partner che sia sensibile e comprensivo, che abbia pazienza e che sia rispettoso. Un ragazzo con cui stavo uscendo all’epoca mi disse che dovevo ringraziare se ogni tanto riuscivo ad avere rapporti, altrimenti non sarei stata con uno come lui”. La vulvodinia ha implicazioni anche politiche e mediche: “Non siamo tutelate dal punto di vista lavorativo, non c’è un certificato che attesti il dolore; io sono una cameriera, devo camminare tanto e velocemente e spesso è capitato che avessi fitte lancinanti durante il turno. La malattia, inoltre, è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ma non dal Sistema Sanitario Nazionale, perciò le spese sono tutte sulle spalle di noi pazienti malate, dalle visite ai farmaci. Non tutti i medici sono competenti, ci sarebbero alcuni posti in cui farsi curare, con dottori che fanno parte del Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, ad esempio a Milano o Bologna, ma non tutte possono permettersi di pagare gli spostamenti. La questione si estende ai diritti delle donne più in generale, basti pensare al fatto che gli assorbenti siano tassati come beni di lusso o che non esista un congedo mestruale”.
La prima fotografia è stata scattata durante il corteo “Lotto Marzo” in occasione della festa dei diritti delle donne (8 marzo 2022) mentre la seconda è del presidio “Sensibile – Invisibile” organizzato da “Non Una di Meno” (23 ottobre 2021).
Mentre intervisto Sofia noto che utilizza più volte il termine “rinuncia”; la vulvodinia, infatti, limita in diversi aspetti della vita quotidiana, dall’alimentazione all’abbigliamento fino allo sport. “Da quando ho ricevuto la diagnosi le mie abitudini sono cambiate, ad esempio dovrei evitare cibi piccanti o bevande alcoliche che possono irritare la zona vulvare. Inoltre sono appassionata di moda ma ho dovuto reinventare il mio modo di vestire; indosso principalmente pantaloni larghi e comodi ed evito collant o body: non posso osare troppo. Sono sempre stata anche molto sportiva, ma ora non potrei più andare in bicicletta o praticare kick box come un tempo e non esistono personal trainer che si occupino di un allenamento solo femminile con questa accortezza in più. Le attività più indicate sono lo yoga, il pilates o il nuoto, mentre quelle che sollecitano il pavimento pelvico, come l’equitazione, sono sconsigliate. Soffro anche semplicemente a stare seduta a lungo; ad esempio dovevo tornare dalla Sicilia in pullman ma alla fine ho deciso di prendere l’aereo, perdendo i soldi del biglietto, perché la tratta in bus sarebbe stata troppo dolorosa”.
La comunità di donne vulvodiniche è molto coesa e si fa forza a vicenda, le malate si sentono molto unite, si consigliano i medici e si supportano per non sentirsi sole. “Per un anno – mi ha confidato Sofia – non sono riuscita a parlare della malattia, non la nominavo nemmeno perché mi spaventava parecchio. Successivamente ho iniziato a seguire su Internet persone che si occupano di informazione sul tema, ho guardato un servizio del Le Iene e grazie ai social network ho iniziato anche io, nel mio piccolo, a divulgare la mia esperienza personale e aiutare ragazze come me attraverso post su Instagram o partecipando a manifestazioni, come quelle organizzate da Non Una di Meno. Il primo passo verso la guarigione è parlarne”. I canali di comunicazione digitale sono stati fondamentali per creare, soprattutto ultimamente, consapevolezza sulla vulvodinia e le altre malattie prettamente femminili – quali l’endometriosi e la fibromialgia – anche grazie all’intervento pubblico di influencers e attiviste come Giorgia Soleri, associazioni e testate quali Internazionale, che ha realizzato un video-documentario su questa patologia.
Alla domanda su quali speranze ripone per il futuro Sofia risponde, convinta e senza esitare un attimo, che auspica che la malattia venga studiata, che ci sia maggior collaborazione tra i medici e che si trovino altre terapie possibili in quanto è un’emergenza, è una patologia talmente estesa che non può essere ignorata. Vorrebbe anche che venisse trattata con cura la tematica dell’educazione sessuale e della prevenzione nelle scuole e che si sensibilizzassero il più possibile le ragazze e le donne affinché possano conoscere la vulvodinia. “Mi auguro che il dolore femminile venga ascoltato e non deriso o sottovalutato dai medici o dalla società poiché, anche se ‘invisibile’, è reale“.