Malcolm Angelucci: “Cosa ho imparato riattivando il Terzo Paradiso al Bosco di San Francesco di Assisi”
Le nuove generazioni incontrano la sostenibilità e la creatività attraverso un confronto collettivo demopratico: l'ambasciatore Rebirth, in una narrazione intima e introspettiva, mette in luce il dietro le quinte delle ultime attività organizzate a settembre scorso nel contesto dell'opera di land art del simbolo trinamico al Bosco di San Francesco. “Il cambiamento - ha affermato - può essere prodotto solo con l’esempio, con il lavoro collettivo, con i nostri pregi e i nostri difetti, successi ed errori”.

121 bambine e bambini per i 121 ulivi del Terzo Paradiso al bosco di San Francesco in Assisi. Una bambina o bambino per ogni albero, e per ogni albero un piccolo messaggio di pace”. È così che Cristiano Cinti dell’Umbria Green Festival ha sintetizzato il lavoro con la scuola elementare dell’Istituto Comprensivo Assisi 2, organizzato con Cittadellarte e il FAI – Fondo Ambiente Italiano, Bosco di San Francesco. E infatti, in una bellissima mattinata di sole, abbiamo visto arrivare i pulmini, abbiamo camminato insieme alle maestre, a un maestro, alle ragazze e ai ragazzi lungo la carrareccia che affianca i sentieri del Bosco in procinto di essere riaperti dopo l’alluvione dello scorso giugno, e abbiamo lavorato, discusso e creato insieme, riempendo con le nostre voci e i nostri corpi la stupenda conca naturale che ospita l’opera di Michelangelo Pistoletto, con la natura che ci faceva da anfiteatro e da contrappunto.

Ruggero Poi e Alessandra Bury (entrambi dell’ufficio Ambienti d’Apprendimento di Cittadellarte) mi hanno chiesto di mettere insieme qualche impressione su questa bellissima esperienza; colgo allora l’occasione anche per riflettere su un paio di quesiti aperti rispetto al progetto del Terzo Paradiso, quesiti che la mattinata mi ha aiutato a risolvere. Mentre guardavo questi bambine e bambini pieni di entusiasmo e il corpo insegnante tanto disponibile, allegro, pieno di sana leggerezza, mi sono rivisto anni fa a Melbourne, in Australia, al Forum del Terzo Paradiso organizzato da Independent School Victoria, un’organizzazione molto attiva e competente che offre esperienze extra-curriculari a scuole primarie e secondarie quasi esclusivamente private. Al tempo ero docente all’Università di Melbourne, e da invitato esterno che ero fui ben presto attratto e felice di essere coinvolto da Paolo Naldini (direttore di Cittadellarte) e Armona Pistoletto (presidente di Let Eat Bi) nel dibattito che cresceva intorno ai tavoli e intorno al simbolo dell’infinito. Con loro conobbi anche le instancabili Artenaute del Castello di Rivoli, ed è anche grazie a loro che è nata la mia voglia di collaborare e aiutare per quanto posso. Rimasi immediatamente stupito dalla chiarezza del Forum, dalle sue metodologie demopratiche e dalla capacità di coinvolgere e motivare all’analisi, alla creatività e alla responsabilità di fronte al cambiamento. Allo stesso tempo, però, si facevano strada dei dubbi.

In primo luogo, mi sono chiesto quali sarebbero stati gli esiti di questi sforzi nel contesto del lavoro futuro delle scuole e nelle vite dei giovani. All’università dove lavoravo, erano gli anni in cui era martellante il mantra dell’impatto, della necessità di valutare e perfino quantificare gli effetti dei nostri progetti, per natura qualitativi ed in gran parte effimeri; per farla breve, si parlava di definire gli effetti del nostro lavoro oltre al progetto in sé, di affermare con certezza il beneficio apportato. In questo senso, dopo due giorni in cui si era creata – con grande impegno e fatica – una comunità di giovani che andava al di là delle appartenenze d’istituto, che cosa sarebbe rimasto? Avevo paura che le scuole – per la maggior parte ricche, private e prestigiose – finissero per pensare che “strusciare la spalla con il famoso maestro”, come si dice in inglese, fosse sufficiente ad accrescere il loro prestigio agli occhi di genitori presenti e futuri, lasciando cadere nel dimenticatoio quanto di bello si era costruito. La mia paura era forse legata a questa complessa dinamica tra Michelangelo come individuo artista e Cittadellarte come comunità, tra una bellissima orizzontalità delle pratiche e l’inevitabile verticalità dell’artista, che ricade inevitabilmente nel discorso pubblico sul ‘genio’ – un termine che non amo usare perché, tra gli altri suoi difetti, è difficile da declinare al femminile.

La giornata al Bosco di San Francesco insieme ad Alessandra e Ruggero di Cittadellarte, ad Alessandra e Laura del Bosco, alle maestre e al maestro e alle bambine e ai bambini della scuola mi ha regalato invece un grandissimo ottimismo, e mi ha fatto pensare che alla fin fine il problema sono io. Ho seguito Ruggero con un gruppetto che chiacchierava all’ombra degli ulivi, voci che parlavano di equilibrio, di dialogo, di San Francesco e gli animali; ho visto le classi camminare e correre lungo il percorso dell’infinito e poi insieme ad Alessandra lavorare ad un’opera collettiva, in cui la ricerca dell’equilibrio si ripeteva esperienzialmente a livello individuale – bilanciando su un dito un bastoncino con due palline d’argilla fissate agli estremi – per poi riflettersi nei tentativi delle altre e degli altri e infine unirsi insieme in un’installazione che è rimasta ad adornare i rami degli alberi. Qui ho capito che il simbolo del Terzo Paradiso – a metà tra l’allegoria e la metodologia – ha il grande valore di saper dare il via alla pratica. So che a Cittadellarte la chiamano demopraxia. Al Bosco l’ho vista manifestarsi come semplice, bella e libera attitudine all’incontro; senza gerarchie, così, come siamo, esseri umani semplici che non hanno il bisogno di impartire, insegnare, pontificare. Ogni voce, dalla più attiva e partecipata a chi aveva la necessità di distrarsi, di prendersi una pausa, da chi faceva domande a chi, come è normale, mostrava segni di stanchezza per la lunga giornata, inclusi noi…

Ho capito allora che non è una questione di impatto o di risultati tangibili, di quanto mondo abbiamo salvato al Bosco. Insomma: il risultato è l’evento in sé, il metodo, la pratica, lo stare insieme. Michelangelo dice che la pace bisogna farla, non solo dirla, e questo al Bosco lo si è fatto. Certo, le urgenze del mondo sono tante e drammatiche che il cambiamento è necessario, e subito; ma se la demopraxia è una pratica e non una lezione, se è orizzontale e non verticale, allora il cambiamento può essere prodotto solo con l’esempio, con il lavoro collettivo, con i nostri pregi e i nostri difetti, successi ed errori. Come e chi raccoglierà l’esempio, chissà: non sta a noi imporlo. Questo era successo anche a Melbourne, con Paolo, Armona e altri. È che io ci ho messo un po’ a capirlo.

A proposito del ‘genio’. Per tre giorni sono stato un punto della costellazione di telefonate, messaggi, attività in cui tutte e tutti coloro che hanno contribuito all’evento si sono messi a disposizione come parte di una rete di amiche e amici, Maria e Michelangelo inclusi. Vederli il giorno dopo andare a visitare il Bosco, ringraziare il personale che si prende cura dell’opera, guardare insieme i lavori delle bambini e dei bambini, fermarsi a visitare la mostra sui frutti antichi mi ha fatto pensare che al di là delle televisioni, delle persone che si voltano perché “quello è famoso”, dei selfie eccetera, siamo tutti parte integrante di una bella comunità di esseri umani.

Malcolm Angelucci