Giuditta Vendrame, da UNIDEE Residency Programs a La Biennale di Venezia
Nell'ambito di una collaborazione tra Yarat Contemporary Art Space e Fondazione Pistoletto, Giuditta Vendrame aveva vinto nel 2018 una borsa di studio che l'aveva portata a partecipare a una residenza artistica a Baku. Dopo l'esperienza in Azerbaigian, è ora protagonista al Padiglione Italia della Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, dove presenta un estratto dell'installazione sonora e luminosa "SOT GLAS" insieme ad Ana Shametaj. "Abbiamo deciso di analizzare il tema del confine tra Italia e Slovenia attraverso le lente della musica e dei canti popolari. Per dar forma a questo processo abbiamo dato una nuova funzione a un rifugio antiaereo triestino della Seconda Guerra Mondiale".

Affrontare e interrogare la nozione di confine politico guardando alla musica come ad uno sconfinamento e ad un paesaggio: è questa, in sintesi, la peculiarità di SOT GLAS (sot dal friulano ‘sotto’ e glas dallo sloveno ‘voce’), installazione sonora e luminosa di Ana Shametaj e Giuditta Vendrame che ha riattivato i cinquecento metri di tunnel sotterranei di Kleine Berlin a Trieste dall’8 all’11 giugno 2023. Il contesto è stato particolarmente significativo: si tratta di un rifugio antiaereo costruito durante la Seconda guerra mondiale (1943), un luogo difensivo, oscuro come l’inconscio della storia collettiva delle comunità che hanno vissuto in questa regione di confine. “Un confine doloroso, che allo stesso tempo divide ed è punto di contatto e di contaminazione con altre culture. Oggi – viene specificato nella presentazione dell’opera – la frontiera italo-slovena si manifesta per le comunità di migranti che quotidianamente in auto o a piedi lo attraversano come ultima tappa della rotta balcanica”. La musica, come accennato, ha avuto un ruolo chiave nell’ideazione e nella ricerca artistica di SOT GLAS, in quanto “attraversa i confini con suoni, melodie e parole sono in continuo movimento”. Altro elemento chiave dell’installazione è stato il linguaggio: in questa regione di confine c’è infatti una particolare ricchezza linguistica, che comprende le lingue ufficiali come l’italiano, lo sloveno, il tedesco, il friulano, ma anche molti dialetti, vernacoli e “nuove lingue” (arrivate anche attraverso la migrazione contemporanea).



Foto di DSL STUDIO (Alessandro Saletta e Melania della Grave).

Dobbiamo ricordare – viene specificato nella nota – come durante il periodo fascista, ci siano stati atti molto violenti verso la lingua, e conseguentemente verso il canto, infatti durante questi anni era vietato parlare e cantare in sloveno. La nozione di confine politico viene qui messa in discussione attraverso l’utilizzo di canti popolari, in particolar modo canti con due o più lingue intrecciate, storicamente questi canti non sono stati archiviati perché considerati pratiche incoerenti, che sfuggono alla moderna costruzione dello Stato-nazione. La drammaturgia sonora spazia da canzoni multilingue, a brani in cui testi e melodie si mescolano, a canti di migrazione e di abbandono, di guerra e di pace, a ninna nanne e filastrocche, trattando l’infanzia come condizione pre-linguistica”. I canti selezionati sono stati reinterpretati da un quartetto di voci femminili del territorio Anutis che ha performato in chiave contemporanea il repertorio popolare individuato. Nel soundscape sono presenti anche una tessitura di voci con impostazioni canore di provenienza diverse: Stu Ledi, gruppo vocale femminile della minoranza slovena di Trieste, un coro di bambini e singole voci Pashto intonano landays, brevi poesie di resistenza solitamente cantate dalle donne afghane, e una ninna nanna. “In una prospettiva anti-filologica, la composizione smembra e ricompone le strutture musicali dei canti folkloristici transfrontalieri. L’esperienza estetica è qui rafforzata dal disegno luminoso ritmico e immersivo dove pause e rarefazioni sono importanti e imprevedibili così come il buio improvviso”.

L’opera è stata posta sotto i riflettori nell’ambito di Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri al Padiglione Italia alla 18 esima Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e curato da Fosbury Architecture. L’installazione è presente – dal 20 maggio al 26 novembre 2023 – attraverso un estratto dell’installazione di Trieste, con un impianto a 16 canali che orchestra quattro canti popolari reinterpretati dalle voci del territorio. Nello specifico, le artiste si sono avvalse di un cannone sonico, dispositivo acustico a lungo raggio, che viene utilizzato come strumento di controllo e allontanamento in manifestazioni, conflitti e anche come mezzo per disorientare i migranti in mare, e qui riproduce un’intima ninna nanna, a cui danno voce due membri della comunità Pashtun di Trieste (migrati dall’area tra Afghanistan e Pakistan). La ninna nanna, cantata quasi sottovoce, chiede al visitatore di avvicinarsi disarmando la natura del dispositivo stesso e ribaltandone la funzione.
Nell’ottica di scoprire il dietro le quinte e di approfondire le peculiarità dell’installazione abbiamo dato voce a una delle due artiste, Giuditta Vendrame. Quest’ultima nel 2018 aveva vinto una borsa di studio di YARAT Contemporary Art Space – proposta nell’ambito di una collaborazione tra la stessa organizzazione non profit con sede a Baku e la Fondazione Pistoletto con UNIDEE Residency Programs – che l’aveva portata a prendere parte alla residenza artistica e poi a lavorare a Humid City in Azerbaigian.

Com’è stata l’esperienza in Azerbaigian e quale impatto ha avuto sulla tua pratica artistica? E quale da Cittadellarte?
Sono stata per la prima volta in visita alla Fondazione Pistoletto quando ero studentessa del Politecnico. Fin da allora mi colpì, la trovai un luogo di ricerca, ispiratore e molto stimolante anche grazie al programma di UNIDEE Residency Programs. Per quanto concerne l’esperienza a Yarat non è stata semplice, perché ho dovuto atterrare in un contesto complesso e completamente diverso dal punto di vista linguistico e culturale. Al di là di questa criticità, mi sono concentrata sui corpi d’acqua, in quanto avevo già svolto alcuni lavori sul tema dei territori e dei confini lavorando precedentemente sul Mediterraneo e sul Danubio. A Baku, invece, mi sono focalizzata sul Mar Caspio. Questa indagine è partita da un dipinto in mostra al tempo a Yarat: “Marine monuments of the Caspian Sea” (1980) di Nadir Qasimov in cui era raffigurato un frammento di un insediamento quasi distopico immerso nel mare in questione. Trattasi di “Oil Rocks”: primo sito al mondo per l’estrazione di petrolio offshore costruito da Stalin nel 1949. Le architetture di questo luogo mi hanno colpita profondamente e così, per due mesi, ho concentrato il mio lavoro su questo complesso, costituito da più di 300 km di ponti e piattaforme. Il sito appartiene ad una compagnia di gas statale ed è raggiungibile solo via elicottero o nave previo permesso, quindi la maggioranza dei cittadini che vivono nelle zone limitrofe non hanno mai avuto la possibilità di visitarlo. È stato interessante constatare come la comunità di quell’area veda il corpo d’acqua prevalentemente come un mero sito estrattivo. A partire da questo contesto esplorativo, ho poi presentato in una mostra collettiva a Baku un’installazione che proponeva un modello fittizio ed astratto delle piattaforme petrolifere di “Oil rocks”. Ho infatti cercato con questo modello astratto di creare una prossimità tra gli abitanti e questa città lontana e umida. Camminando nel modello stesso, tra le piattaforme fatte di pietre usate per la pavimentazione delle strade, un po’ come un atto di riappropriazione dello spazio in mezzo: il mare.



Foto di Luca Chiaudano.

Nell’ambito di Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri, al Padiglione Italia alla 18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, hai curato l’installazione sonora SOT GLAS con Ana Shametaj. Ci illustri il dietro le quinte di questo progetto?
I curatori di Spaziale, per il Padiglione Italia, hanno affidato 9 temi da indagare a dei micro-team composti da figure che non avevano mai collaborato prima, distribuiti in 9 territori di fragilità e trasformazione diffusi sul territorio nazionale. Ad Ana e me è stato assegnato il tema del confine tra Italia e Slovenia. Un argomento estremamente delicato e complesso sia dal punto di vista storico – dato che questo è stato soggetto a numerosi cambiamenti nell’ultimo secolo – sia da quello attuale, poiché l’area in questione rappresenta l’ultima tappa della rotta balcanica per molte comunità di migranti. Abbiamo deciso di affrontare questo tema attraverso le lente della musica e dei canti popolari, avvalendoci del contributo di etnomusicologi locali italiani e sloveni. Ci siamo dunque concentrate su canti popolari che trattano di migrazione, guerra, la pace e dell’infanzia come condizione pre-linguistica. Grazie all’aiuto di esperti come la ricercatrice slovena Marjeta Pisk, siamo risalite a canti “maccheronici” in doppia lingua, in cui si intrecciano versi in dialetto istro-veneto e dialetto sloveno. Queste diverse espressioni linguistiche, peculiari dell’area transfrontaliera, sono state quindi integrate in un unico canto! Tuttavia, a causa della loro natura ibrida, questi brani non sono stati archiviati né da lato italiano né da lato sloveno per molto tempo, in quanto considerate pratiche incoerenti secondo gli studi folcloristici, sfuggendo così alla costruzione “omogenea” dello stato-nazione.

Qual è stato il ruolo del rifugio antiaereo nel processo musicale?
Abbiamo raccolto diversi canti popolari e li abbiamo registrati nuovamente con le voci di Anutis (Alba Nacinovich, Juliana Azevedo, Caterina De Biaggio, Laura Giavon) e del Piccolo Coro degli Amici diretto da Aglaia Merkel Bertoldi, Maryam Rashid, Ismail Swati, Stu Ledi. Durante le registrazioni a Casa della Musica a Trieste, grazie alla preziosa collaborazione con Renato Rinaldi, artista del suono, abbiamo scomposto le voci per poi ricomporle e spazializzarle presso Kleine Berlin, un dedalo di gallerie situato nel centro di Trieste. Questo luogo iconico, ora gestito da un’associazione di speleologi urbani del CAT (Club Alpinistico Triestino) fu costruito durante la seconda guerra mondiale dai Tedeschi per scopi militari e dagli Italiani per scopi civili. Noi abbiamo usato questa seconda area, che presentava spazi non cementificati. Il risultato? Nel corso del tempo, la natura e l’acqua sotterranea si sono riappropriate dello spazio, formando stalattiti e concrezioni creando una specie di grotta naturale. Grazie al lavoro sonoro svolto con Renato Rinaldi e all’illuminazione curata da Giulio Olivero, abbiamo generato un’orchestrazione di una vera e propria drammaturgia, una macchina scenica dove l’esperienza sonora si è intrecciata a quella estetica: luci calde e avvolgenti si alternano al buio improvviso, immergendo e spaesando il visitatore in un continuo rimando di canti, voci e lingue diverse. 




Foto di Marco Cappelletti.

Come avete poi presentato il progetto a Venezia?
Nel Padiglione Italia abbiamo presentato un estratto di quattro canti registrati a Trieste, utilizzando un sistema audio a sedici canali disposti in modo circolare. Le voci, smembrate nelle singole casse, si ricompongono in un vero proprio coro, invitando i visitatori ad entrare ed ad immergersi. Inoltre, a Venezia abbiamo voluto dare maggior risalto alle voci del duo Pashto. La loro ninna nanna viene suonata nello spazio del padiglione utilizzando uno speaker insolito: una sorta di “arma disarmata”, un cannone sonico utilizzato nelle manifestazioni e in mare per allontanare le persone. 

Perché hai messo in relazione la musica con il tema delle migrazioni?
Abbiamo ricercato canti e li abbiamo registrati per offrire al pubblico un’ esperienza emozionante incentrata sul tema della migrazione. La musica e i canti popolari ci hanno offerto uno sconfinamento, attraverso richiami sonori, linguistici e testuali. La musica popolare riporta le tracce dei movimenti migratori legati a momenti storici e a diverse geografie. È stato importante per noi rimescolare queste tracce del passato e del presente, dandogli una nuova voce. Nell’installazione, soprattutto a Trieste, i visitatori hanno percepito queste scelte e sono stati profondamente toccati dall’installazione stessa. È stato significativo anche che ogni persona abbia dato interpretato SOT GLAS in modo diverso. Alcuni dei visitatori lo hanno addirittura considerato uno spazio sacro. 

Cosa ti ha lasciato SOT GLAS sul piano artistico e personale? Cosa c’è ora nel futuro di Giuditta Vendrame?
Per me è stata una bella opportunità tornare in Friuli Venezia Giulia, la mia regione di origine. È stato interessante dal punto di vista introspettivo, poiché l’area in cui sono cresciuta è molto militarizzata, con un sito militare ogni 15-20 chilometri. A volte, quando cresci in un ambiente del genere, non ti poni nemmeno domande sul perché ci siano così tante caserme, bunker e luoghi di difesa. Era semplicemente la mia normalità. Tuttavia, ha contribuito in qualche modo a plasmare il mio percorso artistico e di ricerca. Inoltre, grazie a SOT GLAS sono nate delle bellissime collaborazioni con Ana e Renato, e un team di persone e organizzazioni davvero speciali.
Guardando al futuro, ho in mente un progetto di ricerca che è ancora in uno stato embrionale. Posso anticipare che mi piacerebbe lavorare con il linguaggio delle leggi sulla cittadinanza in Italia e dei relativi testi a partire dal 1861. Dopo Spaziale e SOT GLAS sento la necessità di affrontare questo argomento, che trovo urgente e stimolante.


Autrici: Giuditta Vendrame, Ana Shametaj
Incubatori: Kokoschka Revival, Alpe Adria Cinema – Trieste Film Festival
Luogo: Trieste, Friuli-Venezia Giulia
In coorganizzazione con: Comune di Trieste
In collaborazione con: Casa della Musica, Club Alpinistico Triestino
Sostenitori: Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Ambasciata e Consolato Generale del Regno dei Paesi Bassi, Ambasciata della Repubblica d’Albania in Italia, Creative Industries Fund NL, INPS – Fondo PSMSAD, Fondazione Benefica Kathleen Foreman Casali, Fondazione Pietro Pittini, OPIFICIO NEIRAMI
Produzione: Kokoschka Revival
Sound Design: Renato Rinaldi
Project Manager: Irene Panzani
Voci / Voices: Anutis (Alba Nacinovich, Juliana Azevedo, Caterina De Biaggio, Laura Giavon), Piccolo Coro degli Amici diretto da Aglaia Merkel Bertoldi, Maryam Rashid, Ismail Swati, Stu Ledi
Light Design: Giulio Olivero
Assistente luci: Vitaly Weber
Direttore tecnico: Fabio Brusadin
Consulenza scientifica: Valter Colle, Marjeta Pisk (ZRC SAZU, Institute of Ethnomusicology), Luciano Santin, Lino Straulino
Ringraziamenti: Associazione Linea d’Ombra ODV, Friuli Venezia Giulia Film Commission, GO! 2025, Robida, vicino / lontano associazione culturale, Alessandro Cattunar, Francesca Colussi, Gabriele Centis, Giulio Manzin, Nicoletta Romeo, Donatella Ruttar, Diego Sussan, Danilo Traverso (Neirami), e uno speciale ringraziamento all’etichetta NOTA per “Lisica ta Fasalawa” – CD “REZIJA” NOTA CD231.