Cittadellarte, interno del Bistrot le Arti. Calda mattina estiva. Bisbigli di comparse fugaci al bancone, tazzine di caffè illy che si posano delicatamente sulle labbra. Nella cucina in fermento mestoli consenzienti passano da una pentola all’altra. Michelangelo Pistoletto si accomoda. “Un ginseng con un cubetto di ghiaccio, grazie”. Alla nostra destra, in fondo alla sala, un pianoforte in trepidante attesa di un musicista che gli dia vita, a sinistra, nel tavolo accanto al nostro, due studenti abbassano il tono della voce, quasi rapiti dalla presenza del maestro. Michelangelo, di fronte a me, è come sempre elegante – gilet, pantaloni e scarpe nere, camicia bianca -, ma con un tocco di creatività cromatica offerta dalle calze rosse. In questa occasione è la caffetteria, contesto informale e conviviale, a far da sfondo a una sua nuova intervista in anticipazione di Arte al Centro. Nella sua vita ne ha rilasciate centinaia o migliaia, ma è facilmente percepibile quanto ogni occasione di dialogo sia per lui linfa preziosa, soprattutto se rivolta a un pubblico eterogeneo di lettori. Così, tra il fascino impetuoso dei suoi toni e l’acume riflessivo dei contenuti trattati, ha spalancato un inedito cancello nella sua vita d’artista.
Michelangelo Pistoletto e Luca Deias durante la realizzazione dell’intervista.
Cittadellarte è giunta alla 26esima edizione di Arte al Centro. In riferimento al nome della rassegna, per Michelangelo Pistoletto l’arte di cosa deve essere al centro?
Occorre che sia al centro di tutte le manifestazioni degli esseri umani. Anche se sono fondamentalmente creativi, risultano quasi sempre ignari di questa loro potenza: sono pochi quelli che la usano, la sviluppano e la fanno funzionare nella società; non sempre, infatti, le persone hanno la coscienza di essere un centro di creazione. La creazione non è nella società umana soltanto un fenomeno individuale, ma collettivo. Senza un’attività di corrispondenza continua, non si sviluppa nemmeno la dimensione personale. La creazione è infatti un fenomeno duale: ci sono sempre due elementi che si incontrano e ne producono un terzo che non esisteva. La dualità la abbiamo dentro di noi: tra il nostro essere animali e il nostro essere pensanti, naturali e artificiali, positivi e negativi, aggressivi e pacifici, felici e oppressi o tristi, coscienti e incoscienti. Questo a livello individuale, ma nella dualità tra sé e l’altro tutta questa fenomenologia del doppio si ripercuote in ogni relazione. Tutto il mondo sociale si riflette continuamente nell’incontro tra due entità, che non è limitato a chi è presente, ma è condizionato da tutti gli atti che si compiono nel mondo. L’incontro tra due persone è infatti la base della formazione di una società, dai primordi a oggi. Nel tempo sono avvenuti dei passaggi continui, ma uno estremo sta accadendo nella nostra epoca. I fattori sono numerosi, come la moltiplicazione degli esseri umani e la capacità di utilizzo delle risorse naturali a fine artificiale. Oggi ci troviamo in un contrasto evidente tra la sfera naturale da cui noi veniamo, e quella artificiale che, via via, ha percorso la storia umana fino a oggi, ma con un balzo esponenziale nell’ultimo secolo: il potere della componente artificiale è diventato immenso. Quindi la creazione che coinvolge tutti gli esseri umani diventa il seme su cui far nascere un terzo tempo dell’umanità su questo pianeta. Occorre dunque che l’incoscienza di gran parte degli esseri umani, ancora estremamente diffusa, diventi consapevolezza della capacità e della responsabilità insite in ognuno. La creazione non deve essere privilegio attivo di pochi, ma attività di tutti.
Nella tua vita, qual è stata la creazione più significativa?
Sicuramente i quadri specchianti sono stati e continuano a essere la più importante. In seguito, la creazione più rilevante, che non è disgiunta dalla prima, è la formula della creazione. La seconda non esisterebbe senza la prima, perché il quadro specchiante porta alla scoperta del rapporto funzionale tra il nulla e il tutto. Specifico che intendo il nulla in senso ideale e culturale, perché scientificamente non possiamo affermare che il nulla esista, mentre esiste il vuoto. Ma il concetto del nulla, così come del tutto, è anche quantitativo. Nel quadro specchiante abbiamo un nulla, ovvero uno zero immagine, perché lo specchio non ha immagine propria ed è per questo che contiene tutte le immagini dell’esistente. Nel Metrocubo d’infinito o nella Divisione e moltiplicazione dello specchio ho fatto risuonare lo specchio con se stesso, dividendosi e moltiplicandosi. Qui troviamo lo zero e l’infinito, due estremi che però continuano a lavorare insieme senza tregua. Sono quindi gli elementi essenziali di un linguaggio che va oltre la matematica e si identifica con il sistema algoritmico, in cui i numeri sono tutti trasformati in 1 e 0. Tutto l’esistente è portato a questa combinazione artificiale. Quindi 0 è lo specchio e 1 tutto ciò che lo specchio riflette.
Nel 2024 – tra mostre, forum, presentazioni e incontri – hai viaggiato in ogni angolo della penisola, ricevendo di volta in volta non solo attestati di stima, ma anche affetto. È quasi consuetudine cogliere, da parte di un pubblico differente sul piano generazionale e geografico, un’emozione profonda nel poterti conoscere e ascoltare. Come ti fa sentire questo seguito?
Io sono felice di essere ascoltato, perché penso che siano utili le mie riflessioni e ritengo che questa utilità venga percepita. C’è però un lavoro da fare partendo dal mio operato. La mia attività si sviluppa partendo da quella che è la mia pratica artistica fino alla scrittura del libro ‘La Formula della Creazione’. Dalla sua pubblicazione ho cominciato una tournée di incontri con figure autorevoli in ogni campo del sapere e ora proseguo nella chiarificazione di quanto ho scritto per rendere attiva la formula che propone. Quest’ultima deve portare a un concetto di utilizzo della creazione indirizzato verso il totale impegno a produrre culturalmente e praticamente la pace, superando – e possibilmente eliminando – l’istinto che porta alla guerra. La gente, anche se non ha ancora totalmente compreso la formula, apprezza il fatto che io l’abbia messa a loro disposizione.
Dalla crisi russo-ucraina fino al conflitto armato, politico e sociale israelo-palestinese: la pace preventiva continua a rivelarsi un concetto stringente e attuale. In una dimensione bellica, quale ruolo può rivestire l’arte?
Il conflitto è inevitabile, in quanto tutto ciò che esiste funziona per incontro duale. Da due elementi, se posti insieme, ne nasce un terzo che può essere guerra o pace. Il legame sarà sempre inevitabile. La creazione consiste nel dare la capacità agli esseri umani di inventare un confronto che permetta loro di continuare a relazionarsi senza uccidersi. Dobbiamo quindi creare in tutti i campi il gioco della vita. Io ho già identificato questo metodo nel sistema sportivo: nel calcio, per esempio, la palla è il caso, che può essere spinto da una squadra o dall’altra verso una meta usando intelligenza, forza, capacità e astuzia; alla fine la vittoria è il sistema che si ripete continuamente con la possibilità che siano gli uni o gli altri ad averla. La vittoria è imparziale, ha bisogno del gioco per esistere, così come ognuno ha bisogno dell’altro per competere. L’altro non è il tuo nemico, ma è l’amico necessario per il gioco della vita. Il ruolo dell’arte in una dimensione bellica è dunque quello di introdurre l’umanità in questa dinamica: la capacità di sapere usare degli elementi virtuali come la palla che sostituiscono il caso rendendoci capaci di manovrarlo. A questo proposito, con la creazione dell’arte posso sviluppare il concetto di ‘pace’, che è opposto al concetto di ‘predazione’. La predazione esiste negli animali, che si nutrono di specie diverse dalla loro; gli esseri umani, invece, con la guerra si nutrono di un potere di predazione sviluppato sui loro simili. Questa è la parte peggiore esercitata dalla creatività umana con l’uso della predazione. Siamo diventati culturalmente e artificialmente predatori dei nostri simili, diversi da tutto quello che esiste in natura, ma imitandone artificialmente il sistema. Gli esseri umani sono culturalmente cannibali. Dobbiamo superare il cannibalismo culturale e pratico di cui siamo produttori e vittime. Per riuscirci occorre portare la creazione a delle forme di attività, non solo sul calcio, che ho preso come esempio vista la sua diffusione globale, ma su tutti gli sport. L’obiettivo è far sì che il nostro artificio ci permetta di nutrirci in maniera sempre meno violenta, predatoria e rapace verso gli esseri umani e il pianeta stesso.
Michelangelo, c’è una sensazione che spesso risulta mediaticamente celata nei tuoi processi creativi: il divertimento. Come impatta nella tua vita d’artista?
Tutto quello che sto facendo è per me il massimo divertimento, nel senso di piacere, di sentirsi a proprio agio e felice nella propria azione. Io, per esempio, mi diverto nel cercare la pace preventiva. La parola ‘divertimento’, inoltre, significa ‘divergere’ da qualcosa. Nella vita non ho fatto altro che divertirmi, anche nel senso di divergere rispetto a quello che si ritiene essere fisso, dogmatico e assoluto. Nella mia ricerca c’è un divergere, un divertimento presente in ogni azione, ma lo possiamo trovare nella lettura, nelle pitture e nel ballo, come divertimento comune. Così come ognuno di noi ama cantare i brani dei musicisti famosi che si esibiscono per professione. Pensiamo persino alle gare sportive: ci sono campioni di nuoto, ma c’è anche chi in piscina si diverte senza competizione; c’è il football, con gare nazionali e internazionali, ma non mancano i bambini che giocano in un parco con un pallone. Il divertimento è anche il piacere che si afferra nel momento in cui si vive un momento di partecipazione – o individuale, perché si può giocare anche con una palla contro un muro, che diventa un alter ego -, ma è anche incontrare gli altri in te stesso. Non solo: è muoversi, camminare e scoprire il mondo, ossia sviluppare il nostro desiderio di conoscenza. È importante anche riuscire a divertirsi nel lavoro: bisogna trovare il modo per cui nella propria professione ci si senta appagati per qualcosa che è un entrare e un partecipare, comprendendo qual è l’utilità che si ha nell’opera che si sta facendo verso se stessi e verso gli altri.
Ribaltiamo la narrazione scoccando una scintilla responsabilizzante. Caliamo il sipario sull’intervista senza nuove domande, ma con un tuo messaggio rivolto all’ignoto lettore che, in questo istante, ha la tua attenzione attraverso queste righe.
Per me il lettore rappresenta l’altro e con questa intervista esiste la possibilità di far scattare una scintilla tra me e il prossimo. Io non posso essere seduto a parlare davanti a chiunque, ma lo scambio è continuo: tu rappresenti in questa intervista tutti i lettori possibili, anche perché in questo frangente non posso sentire la loro risposta alle mie riflessioni. Allo stesso modo, il mio invito è che ognuno possa in qualche maniera occuparsi e mettersi davanti a qualcun altro. Ecco, è questa la mia proposta: intervista il tuo prossimo.