Sull’onda del festival internazionale di cultura e cucina vegetariana “Vegetarian Chance”, tenutosi il 12 e 13 maggio, si è riaccesa la tematica del rapporto fra ambiente e produzione alimentare.
Come è risultato dalle ricerche condotte da Timothy Lang, esperto di politiche alimentari al City University London’s Centre for Food Policy, l’industria alimentare sta assumendo sempre più il primato come fattore di causa dell’inquinamento ambientale: in particolare, il settore agricolo sarebbe responsabile del 24% dell’emissione di gas serra e la produzione di cibo del 52% del CO2 disperso nell’aria.
L’aumento esponenziale della popolazione rende difficile soddisfare l’elevata richiesta di cibo: la soluzione che nella maggior parte dei casi è stata adottata è quella dell’industria intensiva.
Questa scelta sta portando, tuttavia, numerose aziende alimentari alla pratica di un’agricoltura e di un allevamento di massa, che minaccia la stabilità ambientale. Inquinamento idrico, eccessiva acidità del suolo e piogge acide (causate dall’ammoniaca contenuta nei liquami di scarico), sono solo alcune delle principali conseguenze derivate dall’industria intensiva. Queste modalità di coltivazione provocano lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, promuovendo un’agricoltura non sostenibile e soprattutto, non allineata alle disponibilità del pianeta.
Ecco il motivo per cui molte organizzazioni ambientaliste stanno sempre più insistendo nell’intraprendere la via dell’agro-ecologia: un sistema di agricoltura associato al rispetto e alla salvaguardia dell’ambiente. Molte pratiche moderne di coltivazione si dimostrano, infatti, distruttive a causa del vasto impiego di erbicidi, pesticidi, fungicidi e fertilizzanti, che hanno portato danni climatici in molte zone del mondo.
Occorre uno sfruttamento più consapevole delle materie prime che garantisca la biodiversità; è necessario che le nostre scelte alimentari, innanzitutto, si orientino verso alimenti biologici, provenienti da colture locali e che promuovano il naturale processo di crescita delle piante. La tendenza, infatti, è quella di modificare le condizioni climatiche e ambientali per sottostare alla richiesta di determinati prodotti: in questa maniera non solo si rischia di danneggiare la terra ma di intaccare anche l’habitat animale e alterare pericolosamente l’ecosistema.
Nel 2014, ad esempio, in Thailandia un imprevisto mutamento climatico ha comportato la perdita del 60% delle piantagioni di caffè: per far fronte al danno arrecato, gli agricoltori hanno combinato colture diverse che insieme creavano una maggiore resistenza; in Finlandia, invece, per permettere la pesca al di sotto dei ghiacci, uno scienziato-pescatore ha ricostruito ecosistemi adatti per poter pescare.
Azioni di questo tipo dimostrano come occorrerebbe intraprendere una via semplicemente più “naturale”, seguendo i normali bioritmi del pianeta e sfruttando l’alternanza delle stagioni.
Di recente, è stato realizzato un nuovo modello di “piramide alimentare” a cui è stata affiancata la corrispondente scala di impatto “ambientale”: si tratta di una “doppia” piramide in cui i cibi considerati come fondamentali per i nostri bisogni alimentari (frutta e verdura) risultano essere anche quelli a minor impatto sul pianeta; viceversa, la carne (che troviamo appena al di sotto dei prodotti dolciari al vertice della piramide alimentare), risulta essere la maggiore causa di danno.
D’altra parte, però, rimane aperto il problema di come provvedere al sostentamento della popolazione in crescita. È davvero possibile alimentare l’intero pianeta senza dover ripiegare sull’industria intensiva?