“Un calo medio di animali del 68% negli ultimi 50 anni è catastrofico ed è una chiara prova del danno che l’attività umana sta arrecando al mondo naturale. Se non cambia nulla, le popolazioni continueranno senza dubbio a diminuire, portando la fauna selvatica all’estinzione e minacciando l’integrità degli ecosistemi da cui tutti dipendiamo. Ma sappiamo anche che agendo sulla attività di conservazione delle specie possiamo allontanarci da questo baratro. Servono impegno, investimenti e competenza per invertire queste tendenze”. Queste le parole di Andrew Terry, direttore conservazione della Zoological Society of London, in riferimento ai risultati del Living Planet Index, una delle misurazioni più complete della biodiversità globale. Si tratta di un’emergenza macroscopica: due terzi degli animali selvatici nel mondo sono scomparsi in mezzo secolo e le statistiche, non per caso, sono state rese note in occasione della 75esima edizione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Una considerevole riduzione delle popolazioni globali di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci che risulta ancora più drammatica se si considera la proporzione tra mortalità e tempistica messa in luce dallo studio.
Il colpevole di questo declino? L’uomo, che con la la distruzione degli ecosistemi “sta anche contribuendo all’emergere di malattie zoonotiche come il Covid-19. Il Living Planet Index (LPI), fornito dalla Zoological Society of London (ZSL) – spiega il WWF in una nota stampa – mostra infatti che i fattori ritenuti in grado di aumentare la vulnerabilità del pianeta alle pandemie, come il cambiamento dell’uso del suolo e l’utilizzo e il commercio di fauna selvatica, sono gli stessi che hanno determinato il crollo delle popolazioni di specie di vertebrati tra il 1970 e il 2016 il cui valore medio globale si attesta intorno al 68% di perdita“. Uno dei motivi chiave che hanno originato questo allarme sul fronte biodiversità è infatti la perdita e il degrado degli habitat, inclusa la deforestazione, influenzata anche dal modo col quale l’umanità produce cibo.
Nel rapporto sono indicate anche le specie più a rischio, ossia il gorilla di pianura orientale (il cui numero nel Parco Nazionale Kahuzi-Biega in Congo è calato dell’87% tra il 1994 e il 2015, principalmente a causa della caccia illegale) e il pappagallo cenerino in Ghana sud-occidentale (diminuito addirittura del 99% tra il 1992 e il 2014 a causa delle trappole usate per il commercio di uccelli selvatici e la perdita di habitat). Non solo: come riportato dal WWF, lo studio che ha monitorato quasi 21mila popolazioni di oltre 4mila specie di vertebrati tra il 1970 e il 2016 mostra anche che le popolazioni di fauna selvatica situate negli habitat di acqua dolce hanno subito un calo dell’84%, ovvero il calo medio della popolazione più netto tra tutti i bioma, equivalente al 4% all’anno dal 1970.
I risultati vanno in ‘controtendenza’ rispetto a quanto auspicato dall’Agenda 2030: questa considerevole perdita di biodiversità non può che minare al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, soprattutto in soli 10 anni. In quest’ottica, il quadro fornito dal Living Planet Index (LPI) non lascia spazio a interpretazioni: senza ulteriori sforzi per contrastare la perdita e il degrado dell’habitat, la biodiversità globale continuerà a diminuire. Come agire quindi? Una soluzione arriva dal documento Piegare la curva della biodiversità terrestre richiede una strategia integrata, scritto dal WWF in collaborazione con oltre 40 ONG e istituzioni accademiche e pubblicato su Nature: “Stabilizzare e invertire la perdita della natura – si legge nello studio – provocata dalla distruzione degli habitat naturali da parte degli esseri umani, sarà possibile solo adottando sforzi di conservazione più audaci e ambiziosi e apportando cambiamenti trasformativi al modo in cui produciamo e consumiamo il cibo. Tra i cambiamenti necessari: rendere la produzione e il commercio alimentare più efficienti ed ecologicamente sostenibili, ridurre gli sprechi e favorire diete più sane e rispettose dell’ambiente”.
Se tutto ciò fosse messo in atto, si alleggerirebbero le pressioni a livello globale sugli habitat della fauna selvatica, invertendo così i trend di perdita di biodiversità. “Nella migliore delle ipotesi – ha affermato David Leclère, autore principale dell’articolo e ricercatore presso l’International Institute of Applied System Analysis – queste perdite impiegherebbero decenni per invertire la rotta e sono probabili ulteriori perdite irreversibili di biodiversità, mettendo a rischio la miriade di servizi ecosistemici da cui le persone dipendono”. Dimostrazioni di cambiamento responsabile sono già avvenute: il WWF spiega come per alcuni animali – con opportune campagne e operazioni – siano arrivate svolte positive, come nei casi della tartaruga caretta nel Simangaliso Wetland Park del Sudafrica, lo squalo pinna nera del reef in Australia occidentale o il castoro europeo in Polonia, o alcune specie di tigri e panda, che sono aumentate nel loro numero globale.
“Il Living Planet Report 2020 – ha affermato Marco Lambertini, Direttore Generale del WWF Internazionale – sottolinea come la crescente distruzione della natura da parte dell’umanità stia avendo impatti catastrofici non solo sulle popolazioni di fauna selvatica, ma anche sulla salute umana e su tutti gli aspetti della nostra vita. Non possiamo ignorare questi segnali: il grave calo delle popolazioni di specie selvatiche ci indica che la natura si sta deteriorando e che il nostro pianeta ci lancia segnali di allarme rosso sul funzionamento dei sistemi naturali. Dai pesci degli oceani e dei fiumi alle api, fondamentali per la nostra produzione agricola, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone”.
Per supportare la causa è possibile firmare la petizione del WWF su panda.org/pandemics.