Migranti, la corte di giustizia UE condanna Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca
I tre paesi non avrebbero provveduto al ricollocamento dei richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia istituito nel 2015. La violazione è stata accertata dalla Corte di Giustizia Europea nella giornata di giovedì 2 aprile.

La Corte di giustizia UE ha accolto i ricorsi per inadempimento presentati dalla Commissione europea contro tre Stati membri: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. I Paesi del blocco di Visegrad, infatti, non si sarebbero conformati al meccanismo temporaneo di ricollocazione di richiedenti asilo adottato dal 2015. Un rifiuto che ha quindi portato le tre nazioni a venir meno agli obblighi definiti dal diritto dell’Unione. Il passaggio successivo prevede che i tre stati si conformino alla sentenza, ma, nel caso in cui non si adattassero, la Commissione potrà proporre un altro ricorso chiedendo delle sanzioni pecuniarie. Sì, perché non c’è nazionalismo che tenga: si tratta di obblighi derivanti dall’essere membri dell’Unione europea. E devono essere rispettati.

Come accennato, al centro della bufera figurerebbero i ricollocamento di migranti dall’Italia e dalla Grecia. In questi ultimi due stati, infatti, cinque anni fa si verificò un sensibile aumento di arrivo di richiedenti asilo: per far fronte a questa situazione, tutti gli stati membri dell’Unione Europea avrebbero dovuto attivare un meccanismo di ricollocamento occupandosi dei circa 120mila extracomunitari. Ogni paese, nell’ambito del processo previsto, avrebbe dovuto ammettere una quota di migranti, stabilita secondo la capacità di assorbimento nella propria economia. Ecco, questo procedimento non è stato attuato.

Secondo Polonia e Ungheria, il loro rifiuto è stato dovuto a motivi di sicurezza interna, mentre la Repubblica Ceca ha fin da subito manifestato dissenso circa il malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione. Ma non ci sono giustificazioni: “”Gli stati membri – ha ufficializzato la corte – non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna né il presunto malfunzionamento del meccanismo di ricollocamento per sottrarsi all’esecuzione di tale meccanismo”. Questa operazione era tesa ad alleviare la situazione della nostra penisola e del paese ellenico, ma l’obbligo non è stato mai accolto e portato a termine da Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Una mancata collaborazione che è stata prima messa in luce dalla Commissione UE e ora certificata dai giudici di Lussemburgo.
L’Ungheria, inoltre, è nuovamente al centro di polemiche nazionali e non: di recente il parlamento ha dato pieni poteri al premier Orbán per combattere il Coronavirus. La motivazione ufficiale di questa mossa? Dare libertà totale di agire al politico nella lotta all’emergenza Covid-19. La novità ha suscitato scalpore internazionale e, secondo l’opposizione, rischia di sconfinare in una nuova dittatura.


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