In tutto il mondo si contano numerose organizzazioni e individui, di ogni età, sesso o etnia, che lottano per un obiettivo comune: la salvezza del nostro pianeta. Una causa non solo nobile, ma essenziale per il presente e il futuro. Di chiunque. Ma chi si batte a difesa di uno dei bene più preziosi, la salvaguardia dell’ecosistema, non è tutelato a dovere. Non solo: soprattutto negli ultimi anni, gli ambientalisti hanno dovuto far fronte a minacce e intimidazioni (spesso per ragioni economiche o politiche) che, nel peggiore dei casi, hanno portato alla morte. E non parliamo di casi isolati. Gli ultimi dati forniscono una panoramica drammatica: secondo l’organizzazione internazionale non profit basata a Londra, la ‘Global Witness’ – attiva dal 1993 e impegnata a indagare sul legame tra controllo delle risorse naturali, conflitti e corruzione -, nel 2019 sono stati commessi almeno 212 omicidi di attivisti. Un record. Si tratta praticamente di 4 vittime a settimana, con le stime a ribasso. È questo quanto emerso dal rapporto – redatto dalla realtà in questione – Defending tomorrow, che ha preso in considerazione coloro che lottavano per porre sotto i riflettori la salvaguardia dell’ambiente, nella maggior parte dei casi nel proprio paese.
Dallo studio, in merito alla serie di vittime, è emerso anche il settore più critico, ossia l’estrazione mineraria, e il paese con più omicidi, la Colombia. In quest’ultimo stato e nelle Filippine, infatti, si registrano oltre la metà delle uccisioni (rispettivamente 64 e 43 vittime), mentre a livello globale le più colpite sono state le popolazioni indigene, il 40% del totale. “L’America Latina – viene spiegato in una nota di ASvis – resta il continente più colpito dalla lenta strage fin dall’inizio della raccolta di queste statistiche, nel 2012, e solo nella regione amazzonica sono stati uccisi 33 attivisti”. Un dato che colpisce, inoltre, è che dal 2015 un terzo dei casi di omicidio ha riguardato le comunità locali, colpendo soggetti poveri e vulnerabili che rischiano maggiormente “di essere investiti – viene aggiunto – dalle catastrofiche conseguenze di cicloni, alluvioni, innalzamento dei mari e siccità, fenomeni estremi spesso riconducibili al cambiamento climatico”.
In Asia, invece, si contano numerosi attacchi agli attivisti impegnati nel settore agroindustriale, l’85% del totale, di cui il 90% ancora nelle Filippine.
In Africa lo studio non riesce a fornire dati attendibili: nel 2019 sono stati 7, secondo il rapporto, gli ambientalisti uccisi, ma il monitoraggio delle casistiche in questo continente risulta complesso. Il numero, con ogni probabilità, è di gran lunga maggiore. Maggior chiarezza, invece, in Europa, che risulta l’area meno pericolosa con due vittime lo scorso anno, entrambe di nazionalità rumena. In Romania, infatti, si trova la maggior parte delle foreste vergini, ricche di faggi. Dietro questi omicidi vi sarebbe il patrimonio arboreo nazionale che – secondo Greenpeace – è sempre più oggetto di disboscamento illegale. Il sindacato forestale rumeno alimenta questi sospetti, rendendo noto che negli ultimi mesi quattro guardiaparchi sono stati uccisi, probabilmente a causa della loro attività di contrasto alla eco-criminalità. Non solo: sono pervenute ben 650 intimidazioni di vario al corpo forestale.
La situazione globale è, di anno in anno, sempre più insostenibile: i rischi, per coloro che alzano la voce a favore di una giusta causa, sono troppi. In quest’ottica, l’organizzazione Global Witness ha lanciato un appello online porre sotto i riflettori questa emergenza. L’obbiettivo dell’iniziativa, auspicando che le casistiche del 2019 diminuiscano, è “proteggere i difensori della Terra e dell’ambiente e amplificare la loro voce”.