Una scuola con un progetto didattico integralmente pensato in chiave sostenibile: questa la novità presentata venerdì scorso a Milano presso l’Istituto Marcelline Tommaseo nel contesto dell’appuntamento “La sostenibilità raccontata dentro ‘Le città invisibili’ di Italo Calvino”. Nel rispetto dell’Agenda2030 dello Sviluppo Sostenibile e dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, infatti, l’istituto del capoluogo lombardo ha progettato un nuovo modello scolastico. Un’iniziativa collegata alla futura nascita della Sustainable Development School, che avrà lo scopo di formare le future generazioni affinché sappiano interpretare ciò che è necessario compiere per il bene dell’umanità e possano scoprire nella vita personale e lavorativa come essere protagonisti del cambiamento. “Nel desiderio di preparare al futuro le nuove generazioni – si legge nel sito ufficiale della Sustainable Development School – vediamo nella sostenibilità il paradigma culturale da scegliere tutti insieme per affrontare la complessità della realtà in modo attivo e responsabile”.
Durante l’appuntamento di presentazione sono state annunciate le linee fondamentali della scuola, con un parterre di ospiti d’eccezione che hanno impreziosito la serata con le loro testimonianze. Alcuni nomi? Anna Scavuzzo (vice-sindaco di Milano), Giulia D’Agata (Asvis), Valentina Pellegrini (Fondazione Ernesto Pellegrini), Elena Ricci (Università Statale di Milano), Adelaide Corbetta (The Circle Italia), Laura Cavalli (Fondazione Eni Mattei – SDSN Italia), Giusy Versace (atleta paralimpica) e Madre Marimena Pedone (suore Marcelline).
È intervenuto anche Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, presente al posto di Michelangelo Pistoletto che non ha potuto presenziare all’evento.
Ecco proposto l’intervento del direttore di Cittadellarte: “Calvino – Naldini fa riferimento all’estratto dell’opera dello scrittore italiano “Le città invisibili”, attraverso il quale si “snodano” gli interventi degli ospiti, ndr – quando scrive di questo palazzo con le stanze mi fa pensare a una casa, dal greco antico ‘oikos‘. Ogni casa è collegata da porte, ma le stanze, senza porta, sarebbero delle scatole chiuse, non potrebbero essere stanze. La porta è un oggetto concreto ma allo stesso tempo è anche un vuoto, perché è un qualcosa che manca e permette di passarci attraverso. È un buco, un foro. Il vuoto, come ogni cosa in realtà, può essere anche positivo, proprio perché ti permette di ‘passare’, puoi occuparlo. Questo è l’aspetto che attrae di più nel mondo governato dalla fisica: infatti, se tutto è pieno non c’è spazio per nulla. Il vuoto, quindi, attrae e attira. Lo stesso vuoto, però, può anche rivelarsi un problema: lo puoi sentire dentro come una mancanza o lo puoi vedere nella società come uno strappo del tessuto che ci unisce. A questo proposito, un grande vuoto si è sentito da quando la modernità ha raggiunto livelli di avanzamento così elevati come negli ultimi due secoli, da quando il sapere è divenuto talmente vasto da non poter essere nemmeno contenuto in un’enciclopedia, come fu il sogno illuminista.
È stato necessario, quindi, fare in modo che per ogni campo ci fosse qualcuno esperto, lo specialista.
Così – continua il direttore – abbiamo inscatolato il sapere. In questo modo, però, si è creato un vuoto tra le persone e gli ‘esperti’. Questo vuoto è diventato più problematico da quando ci si è accorti che qualcuno rimaneva da una parte limitata del sapere, quella opposta agli specialisti. E nel tempo, è diventato un grosso problema per la nostra società. Perché? Noi, in quanto esseri umani, tendiamo ad empatizzare con chi ci sta vicino. Più cresce la distanza, più aumenta la difficoltà nel comprendere l’altro e, di conseguenza, diventa più facile arrecargli danno. Con l’aumento di questa distanza tra noi e gli altri, infatti, era inevitabile per la nostra natura che qualcosa andasse storto. Ecco allora un vuoto che non attrae, ma respinge. Allora abbiamo cominciato a preoccuparci di questo vuoto. Ma “pre-occupare” significa cominciare a occupare; quel vuoto, allora, cominciamo ad affrontarlo per prima cosa, con la preoccupazione che ne abbiamo. Poi la domanda diventa: ‘Come possiamo occupare un vuoto?’. Questo è già successo nella storia: uno dei luoghi più belli delle città antiche nel Mediterraneo era proprio il foro. Si trattava di uno spazio vuoto, dove non c’erano case, ma solo uno spazio dove incontrarsi, dove preoccuparsi di occupare. E cosa facevano le persone in questi fori? Si incontravano e discutevano tra loro di cose che riguardavano la vita collettiva… questo lo chiamiamo Forum! Da questa riflessione, a Cittadellarte, ci siamo chiesti: ‘Perché non organizziamo anche noi un forum? Perché non cominciamo a occupare il vuoto sociale invitando le persone intorno a noi a dedicare un po’ di tempo a questa occupazione?’
Il primo forum di una lunga serie – prosegue Naldini – lo organizzammo a Cuba, grazie agli Ambasciatori del Terzo Paradiso (il progetto guida di Cittadellarte) a L’Avana. Per l’occasione invitammo a partecipare cento persone, ognuna delle quali venne in rappresentanza della propria organizzazione: alcune di queste sono molto istituzionali come la FAO, le Nazioni Unite o l’Unicef; altre legate alla gestione della vita pubblica come i ministeri o le autorità locali; altre ancora sono collettivi di quartiere, associazioni senza fini di lucro e organizzazioni le più varie. Per tre giorni ci incontrammo tutti in un teatro e discutemmo. Ci siamo chiesti cosa dovessimo e potessimo fare di rilevante, partendo dai principi del Terzo Paradiso, per il contesto in cui queste organizzazioni operano, indagando su possibili iniziative e i progetti sui quali lavorare, prendendo come sfondo di riferimento i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (a loro volta esito di un processo partecipativo collettivo). Da quei tre giorni nacquero storie e sogni, originati dai bi-sogni che ciascuno portava nel forum e condivideva con gli altri. Quanto emerso dal forum, poi, venne trasmesso da ciascuno nelle proprie organizzazioni, andando così a diffondervi le idee, le proposte, le decisioni emerse da questo lavoro collettivo. Per i dodici mesi dell’anno successivo, queste organizzazioni si sono cimentate con il compito più arduo: realizzare azioni coerenti con i proponimenti del forum; questa fase del processo la chiamiamo il Cantiere”.
Naldini ha concluso con un pensiero: “Termino il mio intervento con un insegnamento avuto da una grande maestra, poiché siamo in una scuola, e io penso che l’apprendimento sia ubiquo, perché lo portiamo dentro di noi ovunque andiamo; penso che i Forum e i cantieri siano delle vere aule aperte. Comunque, dicevo di quella maestra, all’epoca aveva 7 anni, è mia figlia Ginevra. Un giorno, a bruciapelo, le chiesi quale fosse per lei la cosa più importante della vita. Mi rispose: ‘Imparare cose nuove’. Da quel momento ho preso quella risposta come un programma e, da allora, ho continuato a pre-occuparmi di imparare cose nuove”.