Prendendo in prestito alcuni ragionamenti di Yona Friedman, artista/architetto e urbanista visionario scomparso nel 2020, possiamo definire sia la città che la scuola ‘utopie realizzate’, ovvero sogni immaginati, proiettati in avanti, quindi progettati e costruiti passo a passo da un’umanità da tempo estinta. Sogni/ utopie che sono divenute per noi reali abitudini, parte fondamentale del nostro vivere comune: dunque utopie realizzate. Ma chi ha sognato queste utopie? Attraverso l’istituzione della città-scuola la primitiva umanità è riuscita a darsi stabilità sociale ed economica, creando un’organizzazione civile di riferimento, un corpus non solo di leggi ma di significati morali, intellettuali e spirituali riconoscibili ai più. Città e scuola hanno di fatto trasformato il pensiero e il corpo dell’umanità, che via via ha selezionato quanto era necessario per la coesistenza di gruppi numerosi su uno spazio di terra comune. Né la città né la scuola sono, dunque, sempre esistite nella pur breve storia antropica, ma sono state sognate da quel gruppo umano che ha immaginato di fermarsi in un luogo e di coesistere.
Studenti coinvolti nel progetto Esploratori d’Arcipelago.
Foto di Francesco Ferraro Titin.
Anche là dove oggi si è scelto di fare scuola in montagna o in un bosco, rimangono implicite le routine della città, come l’ingresso a scuola, lo scandire del tempo o il recupero a fine turno dei genitori. La scuola è, in effetti, il DNA della città e all’interno della sua parte invariabile possiamo rintracciare le informazioni fondamentali, il corredo culturale per rifare la città. Per questo la scuola è stata, nel tempo, anche strumentalizzata e forzata a instradare la formazione dei ‘cittadini’ a una ideologia politico-economica totalitaria. La scuola determina la città, anche quando questa sembra distante. Dove non c’è scuola la città si scioglie e si dilegua, si sposta altrove, in un’altra scuola, in un’altra città. Questa breve premessa del binomio città/scuola per dire che se si immagina e si propone una nuova idea di città, necessariamente si lavora per una nuova idea di scuola. Immaginare una città-arcipelago che si allarga al verde, che si estende ai fiumi e alle colline, che rende complementari le forze e le imprese prima isolate di un territorio, porta a ripensare inevitabilmente i confine della scuola di quel territorio, facendo uscire il suo perimetro d’azione fuori dalle mura delle aule. Liberare la città dai suoi confini pregressi presuppone liberare la scuola dai suoi perimetri convenzionali.
Studenti coinvolti nel progetto Esploratori d’Arcipelago.
Foto di Francesco Ferraro Titin.
L’Ufficio Ambienti d’Apprendimento e formazione di Cittadellarte, in collaborazione con Associazionedidee, ha avviato nel 2021 la sperimentazione di una scuola parentale, uno spazio civico d’apprendimento denominato Open School del Terzo Paradiso. Non si tratta di uno spazio nato con il solo intento didattico, ma di un prototipo dove il ‘fare scuola’ è interpretato nel suo senso etimologico di ridare una forma alla scuola, che sia organizzata e tuttavia non convenzionale. Ma se scuola e città sono un binomio, avverare un nuovo ambiente d’apprendimento non è possibile senza l’aiuto di tutte quelle realtà che agiscono manifestando una vocazione comunitaria ed educativa. Tante sono le realtà che hanno già avviato un percorso di rigenerazione, manca però un percorso di sintonizzazione, cioè di sintonia, che le metta a sistema in un processo di pianificazione territoriale. Se dunque l’apparato didattico e quello civico sono inscindibili, c’è un terzo elemento che li connette che è l’apparato spirituale, ovvero la tensione che l’essere umano ha nel produrre una ‘super natura’, un mondo virtuale proiettato in avanti, dove l’utopia si situa e realizza. Su questo piano di immaginazione, a cui spesso inconsapevolmente diamo nome di futuro, si inseriscono le possibilità più svariate e creative che bambini e bambine di oggi manifestano a scuola. Nel presente della scuola c’è il futuro della città.
Tornando al binomio città/scuola, o sarebbe meglio a questo punto ribaltarlo in scuola/città, chi frequenta le aule scolastiche con quotidiano impegno sa che la scuola riflette come uno specchio la società, fatta da generazioni dopo generazioni di studenti. Lo specchio scolastico ci restituisce, infatti, tutti i contrasti, le pulsioni, i desideri che animano e muovono la società contemporanea e talvolta prova a scioglierli in una sintesi, un sistema convenzionale di norme e forme che possa trovare l’approvazione della maggioranza dei cittadini. La formazione e l’istruzione sono azioni anche drastiche e non sempre attente alle sensibilità individuali perché più attente al quadro generale nel quale inserire le persone, instradando un’idea di civiltà, di educazione civica, a volte una specifica ideologia.
Prima immagine: Joseph Beuys disegna alla lavagna alla Düsseldorf Art Academy, 1961-1975.
Seconda immagine: Michelangelo Pistoletto traccia il Terzo Paradiso sullo specchio. Foto di Juan Sandoval, 2010.
La consapevolezza del fatto creativo dentro la scuola è il discrimine tra un’istituzione che rischia di insterilire il pensiero complesso che le nuove generazioni portano con sé e una che lo organizza. Gli effetti dell’isterilimento sono evidenti quando il pensiero si fa passivo e si ritira dal contraddittorio, fino a chiudersi nelle stanze private di casa, fenomeno questo evidente nei casi di hikikomori, persone che scelgono di limitare la vita sociale ricorrendo a livelli estremi di isolamento. Se la scuola è uno spazio di creazione, ecco il laboratorio politico più radicale che possa esserci, ovvero il laboratorio della ‘polis’, cioè della città nel suo binomio classico. Se l’invenzione della società ha avuto lo scopo utilitaristico di facilitare la sopravvivenza, quello della scuola ha avuto lo scopo di tramandare il comportamento, non naturale, ma inventato dagli esseri umani. Come bilanciare quindi la relazione tra le diverse aspirazioni naturali di ciascun individuo e quelle impersonali e artificiali della collettività (che in sé non ha volontà né scopo propri)? Solo la costruzione di luoghi di comunità fluidi e connessi, dove l’espressione autonoma di ogni persona sia valorizzata all’interno di un semplice quadro organizzativo in cui l’esercizio del dialogo sia quotidiano e il percorso comunitario possa innervare la città, può aiutare. Abbiamo la responsabilità di portare la scuola in ogni ambiente, ogni volta che ci sediamo al tavolo con qualcuno e superiamo la soglia della convenzione, ogni volta in cui si inizia un dialogo e i maestri si alternano, ecco che lì si sta facendo scuola, si sta facendo la polis e rifondando una città ricca di differenze creatrici, in cui ‘io e te’ facciamo il ‘noi’.