Questo lavoro fa parte di una serie di opere che si articolano sul tema di una frase che ho scritto ne L’uomo nero, 1970. La frase è la seguente: “La luce non sa di esistere o meglio soffre se non trova un corpo su cui posarsi e quindi riconoscersi”.
Il problema è quello dell’energia che cerca continuamente i mezzi per avere la tangibilità della propria esistenza e la conoscenza della propria immagine.
L’arte risponde a questa necessità organica o direi quasi biologica della natura universale di inventare o di usare qualsivoglia tecnica per conoscere ciò che esiste fino alla verifica della verifica stessa.
L’arte presume una continua serie di allontanamenti, di distacchi o meglio di arretramenti di un corpo rispetto a sé stesso di modo che l’immagine, l’azione o il frammento che questo corpo lascia davanti a sé, possa essere elemento di osservazione e di riconoscimento.
Lo sviluppo delle tecniche, in genere, pone gli elementi utili per questo riconoscimento; ma queste tecniche e questi elementi sono di per sé ciechi. È l’arte che li raccoglie e li usa dandogli la propria vista. Parlando di arte figurativa, l’artista si sente come l’occhio di quel corpo che è la società.
I metodi per porre la propria immagine davanti a sé sono innumerevoli e risalgono ai primordi, cioè alla primitiva visione della propria immagine nello stagno d’acqua. La macchina fotografica è una riproduzione del sistema occhio-cervello-memoria. Infatti non è soltanto la fotografia l’oggetto che riproduce la natura, dandocene un’immagine piatta, ma è la macchina fotografica stessa un oggetto che riproduce la natura, perché ricostruisce il funzionamento di una parte dell’organismo umano.
A me il sistema fotografico serve proprio a mettere il mio occhio e una parte del mio stesso cervello dietro a un occhio e a una parte di cervello per cercare di risolvere le possibilità di conoscenza che in questa operazione posso individuare. non bisogna equivocare tra l’uso della fotografia che ne può fare un artista e quello che ne fa un fotografo in genere. Il fotografo vede, sceglie e ricorda con la macchina fotografica, come se la macchina fosse ormai incorporata nel suo normale sistema vitale. Egli non compie la sua azione allontanandosene, ma avvicinandosene. La relazione tra l’intervento compiuto in altri tempi dal pittore che riproduceva direttamente le immagini e l’intervento del fotografo che finisce per fornire risultati molto simili, crea effettivamente l’equivoco. Bisogna invece tenere presente che il fotografo sta facendo oggi quello che il pittore faceva ieri, quando ancora la pittura era lo strumento che offriva la maggiore possibilità di distacco utile al fine della conoscenza.
Sono molti i mezzi che l‘artista oggi può usare anche se meno vicini alla raffigurazione: per esempio, egli potrebbe usare l’automobile per rappresentare l’estensione del fenomeno motorio dell’uomo, anziché del fenomeno ottico. Un problema a questo proposito potrebbe per esempio essere posto in questi termini: è l’uomo che usa l’automobile per muoversi o è l’automobile che usa l’uomo per muoversi? Naturalmente l’automobilista, come abbiamo già detto per il fotografo, è incorporato nella macchina e non si pone assolutamente il quesito, l’artista sì. Infatti io come artista ho concentrato tutto il mio lavoro proprio sulla fenomenologia e la struttura organica dei fatti e non soltanto sul loro aspetto formale. Io tendo costantemente a porre l’uomo intero, inteso nelle sue azioni e nei suoi strumenti, in una luce che rifletta i fenomeni in cui egli stesso è strumento.
Il contadino tratta di otto pannelli che dividono e nello stesso tempo collegano otto azioni di riproduzione fotografica ad otto diversi tipi di intervento fisico sulla fotografia.
La scelta del contadino che tiene in mano la vanga ha la sua ragione: egli rappresenta un fenomeno antico le cui tracce sono tuttora evidenti, anche se innumerevoli nuovi avvenimenti hanno cambiato le culture. Cioè il contadino è il residuo di una cultura che vede nella vanga l’estensione del braccio e della mano, come il pittore vedeva nel quadro l’estensione del proprio occhio, ma oggi la civiltà offre il trattore e la macchina fotografica. Il mio intervento si centra sulla mano che tiene la vanga perché quello è il punto d’incontro tra il corpo dell’uomo, la sua azione e il suo strumento.
Un coltello impugnato dalla mia mano, come estensione di violenza, rimane infisso sull’immagine della mano che impugnava la vanga. Questa stessa azione diventa ricordo-fotografia nel pannello seguente su cui la mia mano, tenendo un pennello, compie una vera e propria cancellazione della mano precedente apponendo pennellate di pittura, che viene a sua volta riprodotta. La serie degli interventi si sussegue sia nel momento della ripresa fotografica che durante l‘ingrandimento e la stampa. Nell’ultima fotografia l’intervento della bruciatura, sempre nel luogo dov’era la mano, elimina sia l’oggetto che il ricordo, lasciando solo frammenti di una difficile testimonianza.
In questa parabola di immagini la cosa che possiamo fisicamente constatare è l’indebolimento sistematico delle capacità memorizzative del procedimento fotografico. Ogni riproduzione di un nuovo avvenimento porta con sé le riproduzioni di quelli precedenti. Cosi possiamo vedere il lento allontanarsi e distruggersi delle immagini meno recenti seguite da quelle più recenti. E le azioni che da un lato sembrano assommarsi finiscono per esibire una chiara e continua sottrazione.
Quindi in questo lavoro il concetto di arretramento corrispondente alla mia opera di indagine può essere verificato dal pubblico come un allontanamento continuo e inesorabile di ogni immagine rispetto alla successiva. Questo lavoro è anche esemplificativo rispetto alla più vasta operazione che avevo iniziato nel 1966 con la mostra nel mio studio, che avevo intitolato Gli oggetti in meno. In questa occasione avevo teorizzato il concetto che ogni mio lavoro di arte deve essere inteso come sottrazione, cioè come azione esternata, come energia ormai espressa, che va a diminuire le probabilità che quella stessa azione si ripresenti.
Io non intendo una mia opera come aggiunta di nuove immagini a quelle preesistenti, ma come il passaggio di una immagine attraverso lo stato conscio della memoria che la trattiene nei suoi limiti e nei limiti degli strumenti di memorizzazione eventualmente fabbricati. Ad esempio: il contadino riprodotto su un catalogo, mentre sembra aumentare le sue possibilità memorizzative con l’intervento della moltiplicazione e della divulgazione (come una lente di ingrandimento), in effetti non può che continuare il processo di allontanamento già compiuto in ogni altro intervento riproduttivo, all’interno dell‘opera stessa.