L’Indonesia e la Malesia forniscono l’86% dell’olio di palma a livello mondiale. Tra il 1990 e il 2015, l’Indonesia viene privata di 24 milioni di ettari di foreste tropicali, distruggendo quelle di Sumatra e Kalimantan. L’industria dell’olio di palma, però, non si ferma e le pressioni economiche esigono la scoperta di nuovi terreni. È stato il turno della foresta pluviale in Papua, secondo una recente indagine promossa da Greenpeace, ad essere sradicata nel giro di due anni per 4 mila ettari, equivalenti, per intenderci, a metà dell’area di Parigi.
L’olio di palma è incredibilmente vantaggioso in un’ottica economica: il terreno richiesto per produrlo è ridotto, non sono necessarie alte quantità idriche o fertilizzanti e ha forte resistenza alle alte temperature. Si rivela vantaggioso, inoltre, anche in ottica industriale: è un grasso di origine vegetale insapore, non irrancidisce ed è paragonabile al burro, motivo per cui è presente in tantissimi prodotti da forno.
Se il costo per realizzarlo dà l’impressione di essere basso e conveniente è perché, spesso, si chiudono gli occhi in materia di impatto ambientale. Si sorvola, infatti, sui costi umani e ambientali di questo procedimento. Siccome le modalità di diffusione delle coltivazioni si rivelano essere sempre più massicce e costrette ai ritmi incalzanti dell’economia, le lavorazioni di palme da olio diventano esagerate e, così, trovare nuovo terreno per piantare diventa necessario. Non ci si fa scrupoli, dunque, a incendiare centinaia di ettari di foreste ogni anno per sottrarne il suolo, dimenticandosi della loro importanza nella produzione di ossigeno quotidiano. Per non parlare della distruzione di habitat naturali a numerose specie vegetali e animali e della privazione del territorio di popolazioni indigene che vi abitavano in precedenza.
Da un lato, quindi, l’evidente vantaggio rispetto ad altri oli che, oltre a contenere più grassi, hanno anche bisogno di più risorse e terreni per essere prodotti. Ma dall’altro, l’incredibile impatto ambientale necessario per non soccombere ai ritmi industriali.
Una soluzione al problema è stata proposta dall’Unione italiana per l’Olio di Palma Sostenibile, nata nel 2015 ponendosi come obiettivo l’utilizzo di olio di palma certificato RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che promuove e sostiene la coltivazione della materia nel rispetto dell’ambiente e degli ecosistemi.
I punti chiavi dell’iniziativa sono, infatti, quelli di coltivare piantagioni di origini conosciute e quindi tracciabili, che possano essere lavorate preservando e proteggendo le comunità locali e gli habitat naturali presenti al principio.
Un fatto interessante emerge, però, all’interno delle adesioni alla causa. Tra i partecipanti di questo progetto figurano, infatti, le ditte Nestlé e Unilever, nonché le stesse che, secondo l’indagine di Greenpeace, dalla deforestazione indonesiana in Papua, avrebbero tratto il proprio rifornimento di olio in maniera tutt’altro che sostenibile.
Nestlé è quella stessa ditta che, nel 2017, si era dichiarata preoccupata di come stesse agendo il proprio rifornitore Wilmar, sospettando di un suo coinvolgimento nelle azioni indonesiane poco etiche per la coltivazione dell’olio di palma e annunciando provvedimenti a riguardo.
Sfatiamo il mito, dunque, che l’olio di palma faccia male poiché la sostanza in sé non risulta essere più nociva di un altro grasso vegetale. Ciò che emerge è, piuttosto, la difficoltà nel frenare le coltivazioni intensive disumane, nonostante se ne stia parlando tanto ultimamente e vi sia un numero sempre più crescente di prodotti privi di olio di palma. Una buona soluzione potrebbe essere quella di controllarne la produzione, per renderla sostenibile e rispettosa dell’ambiente in cui agisce. Questa alternativa, però, andrebbe regolata in maniera seria e sostenuta da quante più aziende possibili.
Non eliminare quindi, ma rendere sostenibile.
Photo credits: Greenpeace.org