Quella del packaging è una questione sulla quale molte associazioni ambientaliste discutono da molto tempo. È diventata una priorità importante per tutta la società civile che, da qualche anno, sta ponendo sempre più attenzione alle tematiche della sostenibilità ambientale. Gli imballaggi possono essere considerati una vera e propria piaga per il nostro ecosistema, vista la maniera esasperata con cui, in alcuni stati, viene permesso di incelofanare anche ogni singolo ortaggio per la cosiddetta “spesa da single”, o per i piatti già pronti venduti nei supermercati. Quindi la funzione primaria per un imballo è quello della protezione di un “articolo a perdere”, ovvero che verrà consumato e che non esisterà più. Il carattere effimero di questo tipo di comportamento, che caratterizza la nostra società dall’avvio della rivoluzione industriale ed economica, si sta rivelando, ormai, non più al passo con i nostri tempi. Le priorità del ventunesimo secolo sono altre, più in linea con la natura e dirette ad una retrocessione dei cambiamenti climatici causati dall’abuso di potere che l’uomo ha esercitato nei confronti dell’ambiente.
Negli ultimi anni la bioingegneria sta sperimentando i modi più disparati per trovare soluzioni alternative alla plastica, che, secondo le statistiche del One Ocean Forum, inquina il mare ogni anno con oltre 8 milioni di tonnellate di peso. Una startup ha preso di mira il mondo del fast-food (dove il più delle volte se “food” sta a cibo, “fast” sta a spazzatura), il quale necessita, per la sua natura intrinseca, di imballi che aiutino l’atto “take-away”. Si tratta di Evoware, azienda indonesiana che ha messo in commercio la prima bioplastica commestibile da usare nell’industria alimentare. Questo particolare materiale, che ha addirittura ottenuto l’approvazione agli standard HACCP, è un polimero ottenuto dalla lavorazione delle alghe (dalla cui produzione ne gioverebbe anche l’atmosfera, visto che assorbono in maniera massiccia la CO2). I cibi da asporto potrebbero finalmente essere serviti al cliente in questi pratici imballi, che non andrebbero più a concorrere sul volume di rifiuti che ogni giorno produce un cittadino medio.
Non solo carta edibile, ma anche alternative per la più temuta plastica. Rodrigo García González, Guillaume Couche e Pierre Paslier sono tre ingegneri spagnoli che, quest’anno, hanno avviato una raccolta fondi per poter mettere in commercio un materiale che potrà dare una possibile svolta al problema dell’inquinamento da plastica: si tratta di “Ooho”. Quello che sembra l’esclamazione di un bambino stupefatto, è il nome dell’innovativa sfera edibile contenente acqua, realizzata anch’essa da una base derivata da alghe poi lavorata con un processo di gelificazione; quest’ultimo permette, a questo nuovo materiale, di poter contenere liquidi. La pallina rappresenta una piccola porzione di acqua, che può essere ingerita insieme al suo imballo, costituito da una quantità di anidride carbonica cinque volte inferiore rispetto a quella in PET e, se non lo si vuole ingerire, l’involucro è biodegradabile in 4-6 settimane. Ad oggi, la raccolta fondi ha già raggiunto quasi un milione di euro in donazioni. Il nostro modo di bere cambierà davvero?
Il rifiuto “buono” rimane comunque quello non prodotto, ben vengano le alternative a delle problematiche ancora molto sentite all’interno della società come quelle della sovra-produzione di plastica. Quello che ci si auspica è, però, un cambiamento delle abitudini dell’uomo, che parta una pratica “usa e getta” ed arrivi ad un consumo più critico ed in linea con le risorse disponibili.