Sono sempre più diffuse le pratiche rivolte all’economia circolare, soprattutto all’interno dei contesti sociali in cui l’annoso problema dello smaltimento dei rifiuti prodotti dagli esseri umani è ormai sulla bocca di tutti.
Parliamo oggi della pratica dello swapping, inglesismo che rende l’antico termine “barattare” più moderno ed accattivante. Sono arrivati da qualche anno anche in Italia gli swap party, occasioni in cui un gruppo di persone (per la stragrande maggioranza femminile) si ritrova per scambiarsi i vestiti – usati ma in buono stato – preferibilmente in una cornice glamour e spesso accompagnata da aperitivi che rendono più facilmente questa pratica un motivo di festa. Ecco come rendere una esperienza che sembra alquanto banale ed antiquata, accattivante e divertente.
Lo swap party nasce per un’esigenza prettamente economica, ma non solo nel senso monetario del termine: i danni provocati all’ambiente dal modello di consumo usa e getta sono enormi e il settore della moda ne è una delle principali cause. La trasformazione dell’industria ha permesso ad un cittadino medio di poter fruire di numerosi capi di vestiario, incentivandone il consumo spasmodico, reso possibile da una produzione a basso costo che ha implicato però una bassa qualità. Un circolo vizioso che ha alimentato la moda dello shopping compulsivo, ma anche i cassonetti dell’immondizia. L’indagine “Fashion at the Crossroad” condotta dall’associazione ambientalista Greenpeace, ha messo in evidenza che “nei paesi in cui il consumismo è predominante, la stragrande maggioranza degli abiti a fine vita viene smaltito insieme ai rifiuti domestici finendo nelle discariche o negli inceneritori. È questo, ad esempio, il destino per più dell’80 per cento degli indumenti gettati via nell’UE”. Tutt’oggi moltissimi capi presenti sul mercato sono prodotti con fibre che non è possibile riciclare.
Per i problemi ambientali sono state proposte e messe in atto le più disparate soluzioni, ma quella dell’economia circolare è forse l’unica in grado di fermare il declino delle risorse che il pianeta ci offre. Le pratiche di questo tipo di economia sono volte al ciclo della vita di un prodotto, che deve essere il più lungo possibile in modo da prevenire la produzione di rifiuti, in questo caso tessili.
Le buone abitudini che vengono messe in atto dai cittadini consumatori sono sicuramente fondamentali, non dobbiamo scordarci, però, del ruolo fondamentale dei produttori che, con il loro fabbricato, influenzano il mercato e l’economia. Greenpeace, nel suo report, ha messo in evidenza cinque categorie principali che accorpano diverse strategie, volte alla chiusura del ciclo dei prodotti a fine vita. Questo approccio di tipo olistico è rivolto al settore dell’abbigliamento, che dovrebbe migliorare il design dei prodotti per allungarne il ciclo della vita e ridurne l’impatto ambientale, proporre modelli di business alternativi, creare programmi di ritiro degli abiti usati e migliorare il design per riutilizzare e riciclare i prodotti tessili.
Da parte del produttore i cambiamenti rivolti a favorire l’economia circolare sono ancora in fase di studio, anche se sono molti i brand che si stanno muovendo in questo senso. Il consumatore, attraverso pratiche virtuose come lo scambio di vestiti e la promozione degli swap party, è il primo fautore dell’inversione di rotta che il pianeta sta aspettando da molto tempo.