Quando mi sono trasferita da Vienna a Brooklyn, le pratiche artistiche socialmente e politicamente impegnate non erano ancora state introdotte al pubblico. C’erano invece una miriade di modi per trasformare i soggiorni e le cucine delle persone in gallerie d’arte. La città era ed è vibrante. Ciò nonostante è stato immediatamente chiaro che per fare il lavoro socialmente e politicamente impegnato che mi interessa mi dovevo creare un mio contesto che fosse adatto alla creazione di progetti che ritenevo importanti, significativi e divertenti. Così, poco dopo il mio arrivo, ho fondato l’Open Source Gallery, uno spazio multifunzionale dove – per esempio – ogni dicembre i senzatetto possono stare al sicuro e avere un pasto caldo e una conversazione con le persone più disparate e di ogni fascia di reddito. L’intero quartiere attende con trepidazione di mangiare alla galleria ogni anno. Ci sono molte piattaforme nella città che supportano e ospitano artisti che avviano progetti di una certa rilevanza.
Il senso di comunità si riflette anche nel Terzo Paradiso. Tutti gli ambasciatori, infatti, condividono momenti di vita importanti mentre concepiscono e creano il ‘loro’ Terzo Paradiso. La comunità cresce rapidamente e tesse una rete di pensieri tra culture, luoghi, politiche e persone. Vivere a Brooklyn come ‘ambasciatrice’ sta stabilizzando la mia esistenza. È il pensiero di essere parte di un centro saldo, connotato da progetti che si nutrono della nozione dell’importanza del primo paradiso: la natura. La politica attuale americana spaventa. L’idea che si possa ancora negare il cambiamento climatico è incredibile e difficile da capire. Vivo in una città in cui la natura è fondamentale dal momento che è soffocata dal paradiso artificiale. L’Open Source Gallery gestisce un programma di laboratori per bambini nelle scuole in cui dissezioniamo computer e altre apparecchiature per riutilizzare in modo artistico le parti che vi troviamo ‘dentro’. Vedo questo esercizio un po’ come una metafora del secondo paradiso. In generale la vita a Brooklyn è frenetica, ma per la maggior parte molto interessante e facile da sopravvivere quando sai di avere un’intera comunità che investe in idee simili alle tue che può essere chiamata il Terzo Paradiso.
Gli Stati Uniti sono al momento in crisi. Coloro che si prospettavano un futuro radiante di libertà civili sulla scia della presidenza di Barack Obama si sono ritrovati a essere politicamente ostracizzati, ad assistere con orrore alla progressiva demolizione dei diritti civili. E seppur forte sia la resistenza, molti ideali di destra si sono infiltrati anche nei bastioni e snodi artistici più liberali come Brooklyn e Los Angeles, dove ingiurie e insulti pieni d’odio sono scarabocchiati sui muri o diretti a concittadini newyorkesi in metropolitana. Sia i recenti immigrati, che i residenti di vecchia data, temono i focolai che la xenofobia e il razzismo dell’amministrazione attuale stanno alimentando. A mano a mano che l’urgenza di tante questioni esce allo scoperto, nella confusione molte altre vengono trascurate. Mentre i funzionari delle città parlano a gran voce della loro resistenza al dipartimento responsabile di frontiere e immigrazione (ICE), le imprese edili vengono autorizzate ad effettuare l’abbattimento di interi quartieri, sfollando le famiglie e disarticolando le comunità.
In questo contesto più che mai, penso che l’arte giochi un ruolo essenziale nella politica contemporanea: affrontando importanti questioni d’attualità, ma anche mettendo in luce problemi che sono stati trascurati. Sebbene molti artisti stiano collaborando per generare un cambiamento, altri si limitano a sognare la fama nel mondo artistico, mentre alcuni pensano di allontanarsi dal paese e dai suoi problemi. Da artista, non credo nelle soluzioni a breve termine, ma piuttosto nella responsabilità di fare ciò che possiamo su base quotidiana.
Anni fa ho studiato con Michelangelo Pistoletto, che mi ha guidato in un percorso verso l’arte socialmente impegnata. Da allora ho scoperto che l’arte è un incredibile strumento di comunicazione e comprensione e ne ho fatto il mio strumento di lavoro. Ho spesso sofferto la frustrazione del vedere il dialogo nel mondo dell’arte ristagnare, coinvolgendo artisti e professionisti che interagiscono solo tra di loro. L’arte socialmente impegnata ha aperto la conversazione a coloro che ne sono spesso esclusi, creando una maggiore accessibilità piuttosto che generare un’atmosfera che intimidisce i nuovi arrivati.
(Installation Shot by Anja Matthes, The Fire Theory: ICE, 2017, curated by Omar López-Chahoud)
Attraverso la mia stessa arte, cerco di concepire progetti in cui posso fare una differenza che abbia la potenzialità di svilupparsi in qualcosa di più grande, coinvolgendo organicamente le persone nel dibattito su cosa può e dovrebbe fare l’arte e radunando comunità intorno ad essa. Un progetto che esemplifica il mio lavoro è il mio Seamstress Project (il progetto della cucitrice) al Museo Pecci (una versione di questo progetto è stata presentata anche a Cittadellarte). Nel corso di questo progetto, ho collaborato con operaie tessili che producevano gli stessi modelli giorno dopo giorno. Le cucitrici sono state portate dalla fabbrica al museo, dove è stato dato loro l’incarico di creare un’intera stanza, così come un loro negozio. L’unica restrizione era quella di usare un tessuto particolare decorato con immagini e testo che serviva anche come catalogo della mostra. Il progetto – la collaborazione e la conversazione artistica scaturita dal Seamstress Project – ha avuto un profondo impatto sia sulle operaie sia sul mio lavoro.
L’Open Source Gallery è stata fondata nel 2007 come veicolo per presentare un’esperienza artistica concettuale accessibile, ma allo stesso tempo impegnativa. Artisti provenienti da tutto il mondo lavorano a stretto contatto con i nostri vicini di casa per creare mostre incredibili nel nostro spazio – un garage convertito in un quartiere residenziale di Brooklyn. I progetti che presentiamo sono impegnati socialmente e politicamente, pongono l’inclusività prima di tutto e stimolano la comunità a non essere coinvolta solo passivamente, ma anche attivamente.
Ho contribuito a Open Source con le lezioni imparate durante la mia carriera d’artista, lasciando che l’organizzazione crescesse organicamente servendo le esigenze della comunità. La programmazione di Open Source è collettiva, ma c’è un progetto che sento particolarmente mio e a cui ho dato il mio nome: “The cHURCH OF MONIKA” (La chiesa di Monika). cHURCH è un programma che gioca con l’idea della religione come forma di espressione, ma in quanto tale spesso usata impropriamente. Ho iniziato cHURH in risposta alle centinaia di chiese che nascono continuamente dal nulla in edifici di ogni tipo e in tutta la città di New York; seguono regolamenti molto stretti ma arbitrari, e ognuna ha un suo leader che definisce le sue opinioni e le sue idee politiche. L’uso del mio stesso nome intende evidenziare come sia facile creare una nuova religione: il mio obiettivo è quello di enfatizzare la capacità di queste chiese di creare comunità, restando critica del culto della personalità e la chiusura mentale, che possono influire negativamente sulle congregazioni. Una domenica al mese “i membri della mia chiesa” si incontrano per confrontarsi in modo critico sulla religione ed esplorare il ruolo che può e dovrebbe avere l’arte all’interno delle comunità.
A Open Source, il caos e la devastazione generati dall’attuale amministrazione degli Stati Uniti ci ha aperto gli occhi. Storicamente i movimenti artistici hanno istigato il cambiamento, e in un periodo in cui il cambiamento è più che mai necessario abbiamo l’opportunità di supportare l’arte in grado di farlo. Negli scorsi anni abbiamo presentato una programmazione che mira a provocare una discussione, incoraggiare la comprensione e fungere da catalizzatore d’azione.
Nel 2016 abbiamo presentato un programma annuale di mostre e progetti di collettivi e spazi gestiti da artisti da tutto il mondo. Nella nostra esperienza, gli artisti traggono beneficio dallo scambio di idee che nasce dall’azione collettiva. Per quanto ci riguarda, questo programma voleva creare una conversazione su come artisti e creativi possono – e devono – lavorare insieme per creare qualcosa più grande di loro stessi.
Nel 2017 il nostro programma di mostre si è rivolto alla pratica sociale e si è rivelato estremamente adatto ad affrontare l’inaugurazione presidenziale di un uomo d’affari fallito e presunto aggressore sessuale, Donald Trump che tra le sue prime iniziative ha promesso di bandire i musulmani e di innalzare muri ai confini.
Nell’autunno del 2017 abbiamo esposto i lavori di un collettivo artistico di El Salvador, The Fire Theory (La teoria del fuoco). Gli artisti di The Fire Theory – Victor “Crack” Rodriguez, Melissa Guevara, Ernesto Bautista e Mauricio Kabistan – hanno lavorato con il curatore Omar Lopez-Chahoud alla presentazione di ICE, una mostra focalizzata sull’immigrazione e sul concetto del “sogno americano”. Nel corso della mostra, Rodriguez ha aperto la galleria come spazio di lavoro, interagendo con la comunità che circonda Open Source per approfondire questioni relative all’immigrazione, la migrazione e la deportazione. Guevara, Bautista e Kabistan, a cui erano stati negati i visti, sono rimasti in EL Salvador, collaborando da oltreconfine per esibire il loro lavoro in corso a Open Source. I progetti venivano aggiornati nella galleria a mano a mano che gli artisti ci lavoravano nel corso della mostra. Un progetto includeva uno scambio di lettere tra bambini di El Salvador e bambini di immigrati inseriti nel sistema scolastico newyorkese. In connessione con la mostra, abbiamo presentato un programma addizionale in collaborazione con un’organizzazione locale che aiuta gli immigrati a capire quali siano i loro diritti e a procurarsi i visti.
Nel 2018 abbiamo preso decisamente sul serio il concetto di “globale”, creando un programma di mostre concepito per raccontare storie e prospettive da tutto il mondo. Artisti di paesi come la Palestina, il Cile, l’Uganda e immigranti americani di seconda generazione hanno esplorato i temi della guerra, dello sfruttamento, dell’estetica, dell’amore e del trauma.
Nel 2020, ci focalizzeremo su questioni domestiche, reagendo al corrente contesto politico ed esplorando il concetto di “America” attraverso una mostra di artisti del Nord e Sud America, che esploreranno un piccolo frammento dell’identità americana, tra gli altri: il tlingit-aleuto Nicholas Galanin, basato in Alaska; l’equadoriano Ronny Quevedo, basato a New York; la bangladese-americana Monica Jahan Bose, la cinese-canadese Annie Wong; il boliviano Maximiliano Siñani, basato a New York; il colombiano Camilo Godoy, basato a New York.
Guadando indietro agli undici anni di Open Source, è facile vedere come i principi del movimento dell’Arte Povera e la mia introduzione alla pratica sociale abbiano influenzato l’organizzazione. Amici, famiglie e comunità sono il nutrimento dell’arte che può avere un impatto sociale e politico. Abbiamo accolto tutti: adulti e bambini, vicini di casa e turisti, artisti e osservatori, visitatori portatori di qualsiasi visione del mondo aperta al dialogo rispettoso. Attraverso tutti i nostri programmi abbiamo enfatizzato al nostro pubblico che il quotidiano è importante e che arte e vita possono essere – e di fatto spesso sono – la stessa cosa. Abbiamo incoraggiato artisti a sperimentare, ad agire e a pensare in modo critico, rifiutando sempre la nozione che l’artista debba essere un genio solitario. Nello spirito del movimento open source, che promuove lo scambio libero di conoscenze e idee, abbiamo costruito un forum in cui l’arte si interseca con la comunità e con il mondo in generale.
Crediti immagine di copertina: Installation Shot by Dario Lasagni, Francesco Simeti: Swell, 2017