Assolutamente da vedere. Assolutamente insufficiente.
Questa Biennale curata da Cecilia Alemani non possiamo accettarla senza criticare la sua rinunciataria mancanza di concretezza rispetto al che fare e al come farlo.
A scanso di equivoci: l’operazione è accurata e intellettualmente affascinante, accompagnata com’è da alcune delle voci più influenti e rilevanti nel dibattito internazionale degli ultimi decenni: in particolare Donna Haraway, Silvia Federici e Giusi Braidotti. Allora: bisogna ben riconoscere lo straordinario lavoro di ricerca della curatrice e delle sue collaboratrici e collaboratori che ci offrono la possibilità di conoscere idee, storie, opere e vite che (nel nostro caso) ignoravamo e da cui molto, moltissimo c’è da imparare. Le sezioni (capsule) di approfondimento storico sia in mostra, sia nel catalogo, sono una risorsa di sapere probabilmente vitale oggi: la “culla della strega” è un viaggio catartico che può aiutare a liberarsi di (alcuni dei numerosi) strati di mistificazione patriarcale e antropocentrica che affliggono profondamente le nostre società; la “iconologia dei recipienti” – fondata sulla teoria della sporta di Ursula K. Le Guin – offre un efficace esempio di narrazione alternativa rispetto alle idee dominanti (in questo caso sulla nascita della tecnica) potenzialmente capace di cambiare i pregiudizi culturali che continuano a “giustificare” pratiche estrattive e ideologie di conquista, alla base di molti dei problemi che oggi ci attanagliano. Queste istanze, come altre idee che abitano i mondi che questa Biennale invita a (ri)scoprire, non solo mi paiono pienamente valide, ma credo che sarebbe opportuno fossero alla base di ogni operazione culturale contemporanea impegnata ad affrontare le sfide epocali che ci troviamo davanti. Quindi, bene. Ma nelle biennali che vorrei vedere, e di cui abbiamo bisogno, secondo me, c’è ben altro. Cosa manca allora in questo latte dei sogni? Il caglio, cioè pratiche di cambiamento concreto della realtà in cui viviamo o in cui vivono gli artisti che tali pratiche esercitano insieme alle persone e alle organizzazioni con cui convivono. La società deriva dall’interazione tra queste reazioni naturali e artificiali e si sa che dal loro interagire possono sortire ottimi risultati – nella metafora squisiti formaggi – come anche esiti meno desiderabili.
Certamente, c’era da aspettarsi un simile commento da parte mia visto che dal 2000 vivo a Cittadellarte – Fondazione Pistoletto, che appunto è una scuola di queste pratiche, con la esplicita missione di contribuire fattivamente a riequilibrare gli squilibri che lacerano il tessuto sociale e il nostro rapporto col mondo. Basti pensare che già nel 2002 e 2003 realizziamo la mostra La nuova agorà: critique is not enough: “Questa mostra presenta ventisette lavori che vanno al di là della pura critica delle istituzioni sociali cercando nuove collaborazioni o nuovi modi di reagire”*. Da allora moltissimi progetti di intervento diretto nella sfera sociale sono stati realizzati in tutto il mondo e, in realtà, il sistema dell’arte ne ha preso atto e ne ha in alcuni casi persino promosso la causa: addirittura il Turner Prize premia gli Assemble nel 2015 e nomina i Cooking Sections nel 2021, la cui pratica appunto si cimenta direttamente nel cambiare le cose. Anche Documenta 14 invita progetti come quelli avviati da Rick Lowe che con Row House è uno dei (certo non solo miei) punti di riferimento per la Socially Engaged Art*. Senza scomodare Beuys o l’arte povera, basti ricordare la New Genre Public Art di Suzanne Lacy e la mostra di Mary Jane Jacob Art in Action: siamo negli anni ‘90. Insomma, sono almeno trent’anni che lo statuto dell’arte è direttamente implicato nell’affrontare direttamente le questioni sociali, senza limitarsi a muoversi a livello simbolico. Oltre ai numerosissimi progetti artistici che si sono sviluppati a tutte le latitudini (basti pensare all’Arte Util di Tania Bruguera o all’esperienza di Creative Time), dispositivi come Les Nouveaux commanditaires addirittura anticipano e agevolano evoluzioni del diritto come i Patti di Collaborazione che da Bologna porteranno nelle amministrazioni di centinaia di Comuni italiani la collaborazione creativa per i beni comuni. Ed è per me anche molto importante riconoscere il contributo molto efficace che il design per l’innovazione sociale da almeno una quindicina di anni ha apportato alla cosiddetta social practice esplorando con approccio fattivo (progettuale appunto) questo stesso terreno, anche se utilizzando concetti e lessico diversi. Insomma, in una frase: sono anni che l’arte ha superato il limite dell’autoreferenzialità o, per usare un claim del progetto Visible che rappresenta un punto di riferimento essenziale in questo ambito, lascia il proprio campo e diventa visibile come parte di qualcos’altro*.
Cooking the world, by Subodh Gupta “, Galleria Continua, Cipriani a Belmond Hotel.
Invece, la stessa Alemani spiega che “L’arte lavora nel dominio del metaforico e del simbolico e ha la forza di mostrarci il mondo in cui viviamo con occhi e lenti diverse. La potenza dell’arte non è necessariamente di cambiare il mondo, ma di darci gli strumenti per essere noi a cambiare il mondo. Non mi illudo che un video sui disastri delle miniere in India cambi qualcosa però è un elemento di riflessione importante. Questo percorso fornisce stimoli e intuizioni che ci possono sollecitare e mostrarci una prospettiva completamente nuova e diversa, da cui agire…”*
Negli anni ‘70 in Colombia si sviluppa un decennio di attività documentaristiche di denuncia sociale, si è parlato a proposito di alcuni lavori di quel contesto di “pornomiseria”*, termine con cui si evidenzia l’ambiguità di un’attività di produzione critica essenzialmente opportunistica rispetto alla povertà di cui si occupa. In questa biennale mi è parso di incontrare un atteggiamento nei confronti della miseria della modernità occidentale capitalista patriarcale antropocentrica antropocenica per certi versi analogo. Il fugace richiamo a una “prospettiva da cui agire” sembra troppo evanescente per poter davvero fungere da motore immobile di un’operazione tanto complessa e ricca di intelligenza come questa Biennale di Venezia.
Si rimane sempre, tra i Giardini e l’Arsenale, piuttosto all’interno di uno spazio dedicato e limitato al movimento del turbare nelle sue tipiche forme del disturbare, del perturbare, del conturbare e (virtualmente) masturbare. Intendiamoci: poiché si tratta oggi prevalentemente di pulsioni afferenti ai bacini di significato del postumano e del queer, che ben vengano! Come si diceva all’inizio di questo testo, si tratta di istanze fondamentali, ma vorremmo vederle accompagnate dalle “cronache dal fronte”, per così dire, dove le pratiche delle trasformazioni sociali sono in atto da anni, dove le comunità sperimentano e sviluppano strumenti di cambiamento sociale con impatti diretti e concreti sulla vita delle persone.
In conclusione, Leonora Carrington apre un vaso di Pandora di storie e immagini che pescano abbondantemente nel surrealismo (come non pensare a Hieronymus Bosch oltre che al milieu dada cui le capsule attingono) emancipatore di cui certamente c’è certamente molto bisogno, ma l’immaginazione al potere non basta, l’abbiamo imparato, come non basta il potere all’immaginazione: serve anche una buona dose di pratiche, metodi, prototipi e i loro effettivi risultati. Che peraltro sono già qui, nelle nostre città, nell’occidente come nel global south.
Forse meno affascinanti a una prima disanima, apparentemente (ma solo apparentemente) meno intellettualmente stimolanti, di loro però c’è un vero, urgente, bruciante bisogno. Il lavoro sul simbolico e sull’immaginario che fa questa biennale manca del suo correlato pragmatico sul piano delle azioni, delle risposte e delle soluzioni che ci sono già, anche nella Laguna. Immaginario sociale e pratiche socialmente impegnate possono operare l’arco voltaico della cui energia abbiamo bisogno. E a mio personale parere, l’uno senza le altre non basta, né viceversa. Serve un caglio ai sogni, e sono le pratiche. L’uno senza le altre non basta. It’s not enough.