Dall’automazione all’emancipazione, riflessioni sulla società degli autori e degli automi
Siamo schiavi della tecnica? O la tecnica ad avere bisogno dell'essere umano? Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, in riferimento alle considerazioni sul tema rilasciate da Maurizio Ferraris in un'intervista, mette in luce il suo punto di vista, discordante rispetto a quello del filosofo e accademico. "Il fatto (evidente) che la tecnica abbia bisogno di noi - così Naldini in un estratto del suo testo che vi proponiamo - non dimostra affatto che noi non ne siamo schiavi. Al contrario: è proprio quando un dominatore ha bisogno di qualcuno che tende a renderlo schiavo".

Maurizio Ferraris, nell’intervista a Cinzia Sciuto su Micromega+ del 16 luglio 2021, segnalata da un tweet di Ugo Morelli, fa un’affermazione che ci pare errata, quando dice “Questa idea che siamo o stiamo diventando schiavi della tecnica è completamente sbagliata: non siamo noi ad avere bisogno della tecnica, è la tecnica ad avere bisogno di noi”.

Innanzitutto, non si capisce dove starebbe la incoerenza tra la schiavitù e il bisogno di chi in schiavitù rende qualcuno: forse che i coloni inglesi non avevano bisogno degli africani che rapivano alle loro vite per assoggettarli in orribile schiavitù nelle piantagioni di caffè?

Il fatto (evidente) che la tecnica abbia bisogno di noi non dimostra affatto che noi non ne siamo schiavi. Al contrario: è proprio quando un dominatore ha bisogno di qualcuno che tende a renderlo schiavo.

Al di là di questa défaillance, nella peraltro interessante intervista, Ferraris elabora vari argomenti che ci convincono e anzi appassionano, ma anche altri che invece non convincono affatto e appunto ci paiono fondamentalmente sbagliati.

L’argomentazione di fondo di Ferraris richiama (e questo non rappresenta certo il problema) la lettura di Galimberti su Gehlen, Marx e Freud, in Psiche e Techne, “Neppure il sospetto che la libertà si dà proprio nell’alienazione, nell’estrinsecarsi dell’azione… Quando un’azione approda nel mondo (Welt) che, a differenza di ciò che è l’ambiente (Um-welt) per l’animale, non è organizzato in funzione della vita dell’uomo, produce, quando è azione riuscita, quelle condizioni d’esistenza che sono gli <oggetti utili a>”.

La tecnica (in questa fondamentale interpretazione) è tuttavia ancora pienamente fisiologica alla sfera (naturale) dell’umano il quale, per sopravvivere alla propria inadeguatezza rispetto all’ambiente, si esprime attraverso azioni tecnicamente poietiche.

Questa lettura, si sa, ben si attaglia alla nostra condizione dalla preistoria fino a oltre la rivoluzione industriale, indubbiamente un arco significativo nella vita dell’anthropos sul pianeta Terra. Ma quanto essa è ancora attuale e proponibile nell’Antropocene, nel capitalocene (non diciamo poi nello chtulucene, ovviamente) e soprattutto nell’epoca del capitalismo della sorveglianza?

Si può davvero pensare di essere noi i padroni quando (mi si consenta la trivialità) sulla spiaggia agostana accarezziamo un device con il pollice e scrolliamo compulsivamente pagine Instagram? Per essere più esplicito: quando compriamo online ad esempio This life di Martin Hägglund (in ossequio all’illuminante richiamo di Ferraris nella stessa intervista alla mortalità come vera strada verso la umanità) il fatto economico che consumiamo quell’opera vale assai meno del fatto informativo che quel consumo costituisce, cioè che noi siamo disposti ad acquistare quell’opera. Quest’informazione che di per sé singolarmente è inutile, irrilevante e priva di valore, nell’epoca della tecnologia dei big data e dunque del capitalismo della sorveglianza diventa estratto della miniera della risorsa più di valore al mondo. Più del petrolio e delle stesse materie rare che fanno funzionare i devices con qui produciamo queste briciole di dati.

Alcuni tra i più brillanti laureati delle macchine da formazione statunitensi (Cambridge in testa) sono impiegati full time e molto ben retribuiti per farci fare un altro scroll mentre – per restare nella circostanza su evocata – ci si annebbia la mente sulla sdraio. E perché? Forse perché così possiamo consumare e fare aumentare le vendite della Penguin Random House e dunque la sua propensione a investire in pubblicità sui canali presso i quali abbiamo compiuto l’acquisto? Ma è da anni che il plusvalore non è più quello che produciamo producendo (marxianamente), piuttosto è ciò che produciamo servendo la tecnica. Sono le briciole dei dati geolocalizzati, taggati, profilati, il cui valore è mille volte più alto di ogni prodotto consumabile dal consumatore anni ’80 che qualcuno sembra avere come riferimento, se mai è poi davvero esistito al di fuori dei rapporti della McKinsey e dei suoi pari.

Ecco perché noi serviamo la tecnica. Definirci schiavi o servi è una questione di enfasi retorica.

Il punto è lo stesso. Ed è proprio quello che Ferraris sembra volere contestare.

Da questa aporia deriva poi la debolezza delle tesi sull’automazione come emancipazione.

Tuttavia il pregio più significativo dell’intervento, a nostro personale sentimento, è proprio il tentativo di superare la dicotomia automazione/emancipazione, prospettiva che ci appassiona oltre che convincerci, ed è probabilmente per questo che abbiamo voluto scrivere questo commento, pur consapevoli della evidente sproporzione tra noi e Ferraris in campo filosofico. Siamo attratti dall’idea che la strada da percorrere non sia né il compimento integrale dell’automazione (del lavoro come degli altri aspetti della nostra vita), né il suo opposto, rappresentato dalla completa emancipazione dall’automazione (tecnologica ma anche fisiologica, le funzioni automatiche della vita psichica sono infatti essenziali e pervasive, ma non è questo il luogo per approfondire l’argomento). La sfida di quest’epoca antropocenica e insostenibile sta proprio nella pratica di un dinamico e quasi funambolico equilibrio tra le ragioni e le possibilità offerta dalla tecnica (e dunque dall’automazione) con le ragioni e le opportunità insite nell’emancipazione dall’assoggettamento che la tecnica comporta in misura sempre più profonda e capillare.

L’automa e l’autore non siano dunque più due fieri e feroci combattenti, disposti esclusivamente ad accettare la morte dell’avversario. Invece, che siano alleati! Che si riconoscano fratelli e affini, in una forma di kinship con noi stessi che la modernità occidentale ci aveva impedito e che ora, con il tragico crollo della visione del mondo che essa ha sotteso per secoli, possiamo praticare.

Automi e autori insieme potremo ritrovare posto su questo pianeta senza farcene espellere con un colpo di tosse e uno sputo come il malanno che siamo stati fino a questo punto. Come procedere in questo vasto programma? Cittadellarte e la sua scuola dell’Accademia Unidee è impegnata nel laboratorio di questa ricerca. Dagli anni ’90. Oggi con ancora maggiore convinzione e nella vivace collaborazione con centinaia di ricercatori e practitioners di campi e contesti assai diversi.

 

Paolo Naldini, Direttore Cittadellarte, 15 agosto 2021