“Le stanze della moda sostenibile” – Marina Spadafora presenta Fashion Revolution
Chi fa i nostri vestiti? "Il nostro obiettivo è sensibilizzare i consumatori ad acquisti consapevoli: vogliamo far capire che ogni euro o dollaro che spendiamo determina il mondo che vogliamo costruire". La country coordinator italiana di Fashion Revolution ha messo in luce le azioni del movimento internazionale.

In tema di moda sostenibile non si può non citare Fashion Revolution. Si tratta di un movimento globale attivo tutto l’anno, che celebra la moda come fonte di ispirazione positiva, generando consapevolezza sul suo impatto negativo nei confronti dell’ambiente e della società. Quali sono la vision e la mission di Fashion Revolution? Riuscire a diffondere un’industria della moda in grado di valorizzare le persone, l’ambiente, la creatività e il profitto in ugual misura, con l’ambizione di portare le persone, il mercato e le organizzazioni a lavorare assieme per catalizzare un cambiamento radicale nelle modalità di approvvigionamento, produzione e consumo dei prodotti tessili e relative materie prime necessarie. La volontà del movimento, inoltre, è poter arrivare a essere certi del fatto che i vestiti che indossiamo tutti i giorni vengano creati in modo sano, pulito ed etico.

Marina Spadafora, country coordinator italiana, ha rappresentato il movimento intervenendo alla tavola rotonda della mostra evento “Le stanze della moda sostenibile”, andata in scena sabato 14 ottobre a Cittadellarte: “Fashion Revolution – ha esordito – è nata a Londra nel 2013, fondato da Carry Sommers e Orsola de Castro. Il nostro obiettivo è sensibilizzare i consumatori ad acquisti consapevoli: vogliamo far capire che ogni euro o dollaro che spendiamo determina il mondo che vogliamo costruire. Risulta quindi fondamentale avere più consapevolezza quando mettiamo mano al portafogli per acquistare un capo. A questo proposito, è significativo l’hashtag che utilizziamo per nostra campagna: ‘#Whomadeyourclothes’ (chi ha fatto i tuoi vestiti?). Cerchiamo, infatti, di comunicare e far riflettere su chi lavora dietro a un indumento. Un esempio? Se una maglietta ha un costo eccessivamente contenuto, è chiaro che per produrre quella t-shirt qualcuno ha subito un danno e sarebbe meglio evitarne l’acquisto.

Fashion Revolution – prosegue – è anche un movimento politico. Siamo riusciti, infatti, a far passare delle leggi sostenibili. Un esempio di operazione significativa risale a due anni fa, quando ogni country coordinator scrisse al governo del proprio paese affinché fosse istituita una specifica legge che obbligasse le aziende che producono nelle zone a rischio (ad esempio in Bangladesh) a creare un fondo monetario. Del denaro che – in caso di tragedia simile a quella del crollo del Rana Plaza – potesse essere utilizzato per sostenere le famiglie colpite da tragedie sul lavoro o per rinnovare le industrie fatiscenti rendendole più sicure. Come Fashion Revolution, ho scelto due esempi virtuosi significativi, Cangiari – era presente alla tavola rotonda il presidente Vincenzo Linarello – e Matteo Ward, con la sua startup Wrad“.

(Abbiamo trattato gli interventi di Linarello e Ward in altri articoli, visionabili qui e qui).

Photo credit: Damiano Andreotti