La nostra iniziativa Arte dell’equilibrio/Pandemopraxia si sviluppa attraverso nuove strade. Sulla scia dell’iniziativa editoriale proposta sulle pagine virtuali del nostro Journal, Emanuele Bottigella (responsabile ufficio architettura – n.o.v.a.civitas Fondazione Pistoletto) si è interrogato sul futuro post pandemia, domandandosi dove e come abiteremo e utilizzeremo gli spazi per vivere e lavorare, in relazione con l’ambiente, la sostenibilità e la mobilità delle persone. Contestualizzando e concentrando gli obiettivi dell’Arte dell’equilibrio sul suo settore di competenza, il nostro collega ha intervistato Carlo Ratti, noto architetto e ingegnere, che dirige il Senseable City Lab al MIT di Boston ed è tra i partner fondatori dello studio Carlo Ratti Associati (Torino e New York).
Vi proponiamo il loro dialogo, tra architettura, sostenibilità e trasporti.
Carlo Ratti.
Come stanno mutando le distribuzioni interne delle abitazioni e/o dei luoghi di lavoro?
Stanno mutando molto, in ragione dei cambiamenti occorsi nelle nostre vite. Forse dovremmo iniziare a parlare di un nuovo ‘Existenzminimum’, cioè ragionare su quali siano i nuovi standard minimi dell’abitare al tempo di Covid-19.
Si tratta di un concetto che risale al secolo scorso, e alla promessa della giovane Repubblica di Weimar, sancita addirittura in costituzione, di fornire a tutti i cittadini un’abitazione dotata di sufficiente spazio e aria pulita, nonché accesso al verde e ai trasporti pubblici. In breve, un ‘alloggio sano’. Quali potrebbero essere i parametri del nuovo Existenzminimum al tempo del Covid-19? Certamente nuovi spazi per lavorare da casa o per collegarsi in videoconferenza senza le fastidiose intrusioni di bipedi o quadrupedi mezzi nudi. Ma anche accesso all’aria libera (quanto ho apprezzato la mia terrazza di Boston nei mesi del lockdown!) e maggior attenzione alla natura e alla pulizia. Possiamo partire da qui per immaginare la casa di domani. Un approccio del genere si estende anche al bisogno di spazi di lavoro più flessibili e sicuri.
Come semplificherebbe i trasporti in futuro?
Distinguerei due fasi. Nel breve termine, o perlomeno finché continuerà l’attuale ‘convivenza forzata’ con il virus, il distanziamento sociale rimarrà necessario. Questo significa che per qualche tempo i mezzi di trasporto pubblico continueranno ad operare a capacità ridotta. D’altronde, le automobili non sono una vera alternativa: se tutti ci muoviamo in auto, nessuno si muove più. La micromobilità rappresenta invece un’alternativa più interessante, in grado di abbinare sostenibilità e scala individuale. Pensiamo agli scooter o monopattini elettrici o alle biciclette condivise: tutti questi mezzi ci permettono sia di ridurre l’inquinamento relativo, sia di viaggiare evitando di stare a stretto contatto con altre persone.
Nel lungo periodo, credo che la maggiore flessibilità che abbiamo guadagnato dopo il Covid-19 ci permetterà un uso migliore delle infrastrutture. Un modo per gestire bene la città non è poi così diverso dall’approccio che abbiamo seguito nei mesi scorsi per tenere sotto controllo la pandemia. Il mantra che sentivamo ripetere a ogni ora del giorno e della notte negli USA, “flattening the curve”, voleva dire ridurre i contagi per non superare la capacità del sistema ospedaliero. In modo analogo, dobbiamo pensare a ridurre i picchi nei flussi urbani per evitare di mandare la città in sovraccarico. Questa è proprio una delle nuove sfide di domani.
La progettazione sostenibile può contribuire ad evitare il ripetersi di pandemie in futuro?
Le pandemie sono strettamente legate alla storia urbana. Le città sono per loro natura congestionate e quindi terreno fertile per la diffusione dei virus. Il Covid-19 ha molti antecedenti. Per esempio, a metà del Trecento, la peste falcidiò il 60 per cento della popolazione di Venezia. Ciò non ci ha impedito, nei secoli successivi, di continuare ad affollare le sue bellissime calli e a pigiarci gli uni contro gli altri nei suoi teatri: in tempi più o meno lunghi, le città sono sempre risorte.
Come progettisti e ricercatori, tuttavia, credo che dopo il Covid-19 possiamo agire su diversi fronti. Ne citerei due.
Da un lato, sappiamo che la mortalità da Covid-19 è stata più alta nelle aree più inquinate, come dimostrato dalla mia collega di Harvard Francesca Domenici. Diventa quindi ancora più urgente costruire città con maggior attenzione all’ambiente e alle ragioni della sostenibilità.
Dall’altro lato, possiamo immaginare di mettere a punto sensori e sistemi di raccolta dati che ci aiutino ad avere una visione più chiara delle condizioni sanitarie delle nostre città. Con il nostro laboratorio al MIT, per esempio, negli ultimi anni abbiamo lavorato al progetto Underworlds, per monitorare la presenza di virus e batteri nelle acque fognarie. Proprio da questo progetto è nata la start-up BioBot, che oggi sta giocando un ruolo fondamentale nel monitoraggio del Covid-19 in 300 città americane.