Quarantuno ore a Singapore.
Mi invita Walter Spano, Mucciaccia e Partners, tramite Mario Pieroni, di RAM, maestro d’orchestra, ambasciatore Rebirth. Mario l’ho incontrato l’ultima volta a fine luglio, era in riunione con Michelangelo. Mi hanno detto che a settembre Mario sarebbe andato a Singapore per organizzare la realizzazione di un’installazione permanente del Terzo Paradiso nella sede della National Technogical University.
Sapevano benissimo che avrei detto, ok, ci devo andare anch’io… non tanto per l’installazione, rispetto a cui Mario ha perfettamente chiaro come procedere. Quanto piuttosto per la prospettiva di una partnership con un’importante università asiatica.
E ora sono qui, a Singapore, stato indipendente da 52 anni. Città più cara al mondo ma anche con la qualità della vita più alta (almeno per chi se la può permettere). Scopro che la NTU è un colosso: è la più importante università non solo di Singapore, ma probabilmente dell’intera Asia, secondo varie graduatorie. Ci accoglie Walter, brillante esponente di quella world class che abita simultaneamente in più continenti e per cui andare da New York a Hong Kong è come per gli altri spostarsi da Torino a Milano. Ci racconta di sé e di Singapore, intanto che l’auto ci porta all’hotel, dove Mario e io faremo colazione e cadremo stremati nel letto per quasi tre ore. Quando ci viene a riprendere Walter ci porta all’Università, la National Technological University, il partner locale (ma globale) di questo progetto. Mentre scorrono gli alberi che furono fatti venire dall’Africa in quanto capaci di abbassare la temperatura sotto di sé di diversi gradi, Valter ci traccia il quadro preciso della grande performance (la definizione è mia, intendo dire che si fa finta che vada tutto bene, una gigantesca fiction collettiva) in cui viviamo da quando la finanza è uscita fuori controllo, diventando circa 10 volte più grande dell’economia, ma soprattutto da quando si sono creati dei debiti giganteschi, in capo a banche e stati nazionali. E da quando i derivati finanziari si sono moltiplicati “fuori libro”, cioè senza chiara contabilità: e quindi dove sono? In mano a chi sono?
Arriviamo alla NTU nel contrasto tra la previsione di un’ineluttabile esplosione della bolla finanziaria e il paesaggio intonso e perfetto di questi forse 15 chilometri di strada senza una cartaccia, né una foglia per terra, automobili lente e a distanza di sicurezza, tutte nuove, stranamente; la mia non la farebbero circolare con tutti i bolli e gli acciacchi che si porta pure con un certo orgoglio da pulmino di strada.
Arriviamo così alla sede della School of Art Media and Design. Edifici moderni e perfetti anche loro. Ci accoglie Andrea Nanetti, professore associato e Associate Chair – Research. Ha i capelli ricci lunghi e cammina dondolando con eleganza. Racconta alcuni passaggi della sua vita e carriera. Si è occupato di architettura e impresa, prima di arrivare qui. Andrea lavora all’Accademia Design and Media. La sua ricerca ha molti punti di contatto con la nostra filosofia, dall’artivazione ai Forum. E l’intera vision dell’Università è in sintonia con il Terzo Paradiso: scienza e tecnologia, che cosa possono fare per il pianeta e l’umanità? Andrea ci spiega la NTU.
Ci racconta, Andrea, della sua struttura e della sua storia. Negli ultimi dieci anni l’Università (nata come l’unica università cinese non in territorio cinese, ma oramai del tutto singaporeana) ha ricevuto investimenti per 20 miliardi di dollari di Singapore. Circa 13 miliardi di euro. Più o meno come il mio stipendio annuale. Mio e quello di altri 200 mila come me. Se ci mettiamo insieme, noi duecentomila e uno, ce la facciamo a metterla su un’università come la NTU, in un anno. Purché in quell’anno non spendiamo neppure un euro. La Lega, invece, da sola, ci metterebbe 277 anni ad accumularli, se usasse i rimborsi elettorali a tranche di 47 milioni all’anno. Ma forse tra 277 anni troveranno altri modi. E poi chissà se serviranno ancora le università. E le Leghe. E i rimborsi elettorali.
Tornando a noi, siamo invitati a collaborare con l’Accademia di Design e Media.
Così usciamo. C’è un pulmino che ci aspetta. Fuori fa caldissimo, umido. Ma nel pulmino – come dappertutto in realtà, purché non sia all’aperto – c’è l’aria condizionata. Solo che il pulmino è su misura per gli asians. Pieroni, Walter Spano e io ci facciamo spazio a craniate contro il tettuccio. E abbassando la testa vediamo – mentre viaggiamo dal lato sbagliato della strada (ma lo fanno tutti, qui, ex colonia britannica) – vediamo le residenze dei docenti e degli allievi, e i building dei diversi dipartimenti. Ci vivono 35 mila persone qui, in questo compound universitario. Ma naturalmente è tutto perfettamente pulito e organizzato; siamo a Singapore baby, che cosa ti aspettavi? Questo è un paese isola, sganciato prima dai british, e poi mollato dal giorno alla notte dalla Malesia, sorella maggiore (allora maggiore, ora bisogna vedere in che senso maggiore…). Così negli anni ’50 ci fu un famoso discorso di Lee Kuan Yew, Padre della Patria. Non avevano nulla. Paludi e oceano. Ora sono una delle potenze economiche, finanziarie e pure militari (tre cose che si accompagnano spesso con agio, in effetti). Etica, autoritarismo, serietà, lavoro, i comunisti back to China, finanza e fiscalità e poi chissà, dissenso anche no, grazie, lo dice chiaro il mio tassista, un indiano di una sessantina di anni, lavora come tassista da 28, prima era imbarcato su mercantili, ora faccio una digressione su di lui, se volete passate al paragrafo successivo dove riprendo a raccontare della collaborazione con NTU: mi siedo davanti, vicino a lui, mi deve portare all’aeroporto, mi basta dirgli “and so, do you live well here?” e parte come un fiume, praticamente riesco a dire ancora qualche cosa interrompendolo e facendomi ascoltare solo se gli chiedo cose molto personali, tipo quando gli domando perché ha deciso di diventare cristiano da indi che era (perché appunto quando aveva trent’anni ha deciso che non aveva senso pregare le statue; perché sono fatte dagli uomini).
Che senso ha, mi chiede, e stavo per dirglielo io, che altro ché, certo che ha senso, molto più che pregare i sogni e le favole che ci siamo inventati, almeno le statue son lì, in mezzo a noi, e ce ne sono alcune di una bellezza che ci può stare che ti venga voglia di parlarci, c’è chi parla con i gatti, con i morti, con i tassisti indiani per le strade di Singapore, perché non si può parlare con le statue? Ma mica ci riesco, lui è un parlatore professionista, sono 28 anni che lo fa, si è creato questo mondo, un taxi-teatro, l’opposto di un maxi-teatro, ma sempre teatro; e noi siamo pubblico, comparse, fantasmi. Lui è lì, sulla scena; il palco sta tutto qui dentro il taxi, la luce della ribalta colpisce lo spazio dietro il volante e illumina i suoi capelli e i baffi bianchi e paffuti, la pelle scura, arriveremo in tempo, e non ti vedrò mai più, spero solo che lascerai andare tua figlia in Nuova Zelanda, vecchio, deve fare i suoi errori come tu i tuoi, e io i miei, statue o non statue, e Singapore con questa democrazia autoritaria è diventata una svizzera asiatica, ma più ricca, e meno liberale.
La Malesia e l’Indonesia le stanno addosso, lei deve pur proteggersi. Anche Walter me ne parla, ammirato e disincantato che non è chiaro capire che cosa pensi davvero, a meno di accettare che pensi cose contraddittorie, cosa che facciamo tutti, in effetti, è proprio una cosa strutturale che ci portiamo dietro. Forse tra 277 anni non sarà più così. Ma eravamo rimasti nel pulmino, lasciamo stare il taxi, che tanto viene dopo, quando mi porterà all’aeroporto per ripartire. Ora siamo ancora in pieno sopralluogo. Ed è così che, casually, viene fuori l’herb garden. È Suzanneh a dire and then there is also a herb garden, here in the compound.
A herb garden, I ask. Please, can we see that?
Così si apre un capitolo pazzesco, e incontriamo lui, il vecchio cinese che cura il cancro (al quarto stadio) con erbe officinali che solo lui conosce. Lo sapevo che c’era, ma pensavo fosse solo nei film di Spielberg. Invece è lì. Ha creato questo Community Herb Garden. La gente ci va come volontaria. È una cosa enorme, per essere praticamente uno squatting divenuto a causa del suo successo un valuable asset per l’università. Ci vengono medici e ricercatori da tutto il mondo. Persino dalla odiata e amata America. Ci sono articoli e fotografie di visite dappertutto. E poi le prove. Lui ha le prove. E me le mostra. Sono referti medici. Nomi e cognomi, diagnosi, esami. Sono scritti in inglese ma potrebbe anche essere cinese: che cosa ne so io dei tumori e dei linfomi di quarto grado e di quegli esami? La mia ingenuità mi fa credergli immediatamente e senza riserve. L’ignoranza e la magia, si sa, sono vecchie compagne di viaggio. E poi ripenso ai racconti di Rossana Becarelli, eminente medico e direttore sanitario, nonché esimia Ambasciatrice del Terzo Paradiso, e mi dico che c’è tanta saggezza in quell’ignoranza, almeno quanta ignoranza nella saggezza della medicina occidentale. Così mi chiedo se non sia un altro segno questo: una delle più avanzate università scientifiche (e tecnologiche) del mondo mantiene e coltiva al proprio interno un posto come questo! E io sono qui a parlare del Terzo Paradiso, l’unione armonica tra natura e artificio, tra l’intelligenza della natura e quella dell’uomo.
È ora di andare! Ci riempiono di antizanzare. Un cappello da raccoglitore di riso vietnamita in testa e via, nell’orto officinale cinese. Decine, centinaia di piante. I loro nomi scientifici in latino sono seguiti dagli splendidi scarabocchi ideogrammatici. Ci spiegano che questa serve per l’aritmia, questa per il diabete, questa per la tosse persistente, questa per l’ipertensione e certo, certo ci sono anche le due grandi drugs, best selling products: quella che fa dimagrire e quella che fa durare di più l’erezione. Come potevano mancare! Ce ne sono di più appropriate per l’installazione del Terzo Paradiso. Per esempio una di colore rosso intenso: si usa per curare le ferite. Si rimarginano velocemente e profondamente. Andrea e Walter approfondiranno nei prossimi giorni tutti gli aspetti tecnici, botanici e colturali, e di manutenzione, e impianto… ci manderanno una lista da cui Michelangelo e noi potremo scegliere, se saranno almeno due. E poi queste piante non devono avere radici profonde! Perché Andrea ha già pensato dove si potrebbe collocare l’opera. E pare abbia avuto l’ok. È niente di meno che sul tetto verde dell’edificio dell’Accademia, il più iconico e fotografato dell’Università. Ci si può camminare, salendo dal piano stradale fino alla cima, il quinto piano. L’installazione sarebbe massimamente visibile.
Tre cose della visita documento con queste fotografie:
1. spazi e attrezzature per lo sport
2. spazi e modello didattico: alcune nuove aule (ancora pochissime) sono progettate secondo un modello circolare e diffuso della distribuzione dei processi di produzione e scambio della conoscenza. In parole semplici vuol dire che non c’è più la cattedra da una parte e i banchi dall’altra, ma tavoli circolari sparsi a riempire lo spazio, alle pareti grandi schermi su cui si opera dai tavoli, e il docente si presume (visto che non c’è una cattedra) che o vaghi per la classe oppure prenda posto a un tavolo o a un altro o passi dall’uno all’altro. Stesso modello lo vidi a Melbourne. E in alcuni rave all’aperto, dove il DJ scompare e si danza distribuendosi in tutto lo spazio vagamente in cerchio.
3. E poi la mensa. Ne ho viste diverse, generalmente tristi e con cibi poco rassicuranti, tanto meno per me che mi approvvigiono prevalentemente da Let Eat Bi. Alla NTU invece c’è di tutto. Più di venti ristoranti. Cucina di tradizioni diverse, cibi freschi, grande scelta per vegetariani…
Così finisce la visita all’Università. A tavola.
E poi un paio d’ore in città. Prima però, con Pieroni e Walter Spano dobbiamo passare alla galleria Mucciaccia and Partners, dove si prendono le misure per una mostra di Michelangelo, ingranaggio essenziale di questo meccanismo. Lungo la strada edifici bandiera.
Come l’iconico (e personalmente bellissimo, l’ordine del disordine mi è sembrato) complesso disegnato da Zaha Hadid.
Ma è un’altra l’immagine che rappresenta la mia idea (superficiale e lacunosa) di questo paese. Mi aspetta in uno dei luoghi più turistici della città, mi dicono che vi passerebbero milioni di persone ogni anno: è il rainforest dome. All’interno di un immenso edificio di vetro e acciaio, è stato creato un microclima (aria condizionata!) con la foresta pluviale. Vera! Si sale prima con l’ascensore e poi a piedi a un’altezza vertiginosa. Saranno cinquanta metri o più. Il sentiero si snoda sospeso dentro e fuori una struttura coperta di vegetazione lussureggiante. Lo spettacolo è mozzafiato. E c’è da lasciarsi rapire.
E mi ha rapito quest’immagine: sospesi a un’altezza impossibile dal suolo, gli abitanti di questo paese camminano, ordinatamente e sicuri, non sembra incombere nessun pericolo su di loro, non ci sono ladri o rapinatori, seguono il percorso e godono lo spettacolo preparato per loro: la natura domata, incantata in una pretesa armonia con questo edificio e il suo apparato artificiale ipertecnologico, un’armonia tra le piante e gli umani, la stessa che si dice esista all’interno dei gruppi sociali degli umani, delle loro istituzioni, del governo e della polizia. Resto con un senso di inquietudine, un’apprensione sotto pelle, sono come un cane che sente il terremoto, quando ancora gli umani sono indaffarati, persi e beati nell’illusione che tutto va bene. Il cane non sa se ha sentito davvero qualcosa, e cosa poi. O se si tratti di un errore. Resta lì come gli altri, e dove potrebbe andare? Se deve arrivare, il terremoto, prenderà anche lui. Intanto si guarda intorno cercando un segno. E poi lo distrae un odore, un movimento, un desiderio.