Quando passato, presente e futuro s’incontrano in un’unica dimensione: un dialogo in cui lassi temporali si intrecciano continuamente, tra frammenti di ricordi e sguardi del domani, con al centro Michelangelo Pistoletto. Il maestro biellese ha ripercorso la sua vita, specchiandosi con la figlia Armona, in un’indagine profonda della sua figura di padre, oltre che di artista. Una conversazione intima costellata di aneddoti e riflessioni, che è molto più di una semplice intervista. I confronti con i cronisti di testate giornalistiche di ogni parte del mondo sono all’ordine del giorno per Pistoletto, ma cosa accade quando è la tua stessa figlia a intervistarti? L’artista ha trovato un interlocutore differente, che ha fatto emergere un lato nascosto al pubblico, con domande mai poste finora. Rilievo fondamentale in questo incontro tra Michelangelo e Armona, è anche il rapporto con Ettore Olivero, padre di Pistoletto: tre protagonisti per altrettante generazioni, in un’inedita trinamica familiare.
Per te l’arte non deve limitarsi a essere forma di creatività o espressione estetica, ma si deve porre come strumento per ispirare e produrre una trasformazione virtuosa della società. Cosa penserebbe il nonno Ettore di questa tua visione?
Credo che la apprezzerebbe per la sua corrispondenza con la realtà. È una questione generazionale: io mi trovo tra il padre e la figlia, quindi c’è un rimando che mette in relazione il mio lavoro – che è basato sulla specularità – in un rapporto intergenerazionale. È come quando siamo davanti a uno specchio, nel quale vediamo quello che esiste nello spazio e nel tempo, ma contemporaneamente di fronte a noi vediamo tutto ciò ribaltato dietro alle nostre spalle, dove troviamo la memoria di ciò che è esistito, compreso il processo biologico della procreazione. C’è, quindi, il viaggio del pensiero e della realtà procreativa. Questo mi sembra un punto importante come base, che poi si trasmette attraverso il passaggio cromosomico, intellettuale e culturale dell’umano.
Ho fatto questa premessa per evidenziare, ad esempio, il collegamento con la mostra ‘Padre e Figlio’, che è proprio la concentrazione e l’estensione di questa fenomenologia intergenerazionale. Mio padre avrebbe voluto sviluppare una sua attività artistica in modo da avere un riconoscimento personale, di se stesso e verso se stesso e, contemporaneamente, dall’esterno. Per arrivare a questo riconoscimento c’è molto da fare ed è il lavoro il motore essenziale perché questo avvenga. Il riconoscimento, da parte di mio padre nei miei confronti, stava nel vedere me stesso come promessa di una continuazione della sua arte, che avrebbe potuto, nel tempo, farlo riconoscere e accertare. Lui non poteva immaginare su cosa mi sarei impegnato, ma qui nasce il fenomeno riflessivo: io so che lui avrebbe desiderato realizzare – senza sapere cosa sarebbe stato – quello che ho fatto io, perché quello che ho creato è un riconoscimento che protrae nel tempo le possibilità di riconoscimento suo, anche oltre alla sua stessa vita e persona. Il figlio, dunque, diventa proiezione di un desiderio paterno. Quindi, non posso sapere cosa avrebbe pensato, ma posso mettere in evidenza, da parte mia, la coscienza di questo suo desiderio; questo è quindi passato da mio padre a me, e ora passa da me a te che m’intervisti. Si tratta sempre della proiezione di un futuro in cui si continua ad esistere attraverso una prospettiva generazionale.
Se Cittadellarte fosse stata creata dal nonno, credi che avresti lavorato con lui come io* con te? O avresti cercato di intraprendere un tuo percorso professionale e personale?
Credo che Cittadellarte, in qualche maniera, fosse già prevedibile ai tempi in cui io non avevo capacità di agire e creare. Proprio perché, per esempio, era già embrionalmente esistente. Lo dimostra il fatto che Cittadellarte nasce a Biella, la città che ha dato i natali a mia madre e dove lei ha conosciuto mio padre, il quale stava lavorando a delle opere commissionate da Ermenegildo Zegna a Trivero. Quindi, la mia scelta ‘casuale’ di aprire questo spazio di Cittadellarte a Biella, avviene per un processo di casualità che non sono definite in senso assoluto, ma nella relatività dello sviluppo degli avvenimenti. La realtà si forma attraverso una combinazione che assume un senso. Quindi Cittadellarte è un luogo che io ho ereditato nella biellesità della mia famiglia e dei rapporti reali del lavoro artistico fatto da mio padre in questo luogo. Sono relazioni che si connettono con le dinamiche familiari, incluse quelle della famiglia Zegna: oggi, a Cittadellarte, abbiamo un rapporto generazionale prima con quelli che sono stati i figli e ora con i nipoti di Ermenegildo, così come tu, Armona, ti trovi a essere in stretta relazione tra quelli che sono stati i rapporti tra tuo nonno, tuo padre e la famiglia Zegna.
Armona, Michelangelo e Maria Pistoletto. Foto: Nanda Lanfranco.
Hai avuto tre figlie femmine*. Ti sarebbe piaciuto avere anche un figlio maschio?
A riguardo non ho mai avuto preferenze tra maschile e femminile. La cosa curiosa è che un giorno, quando Maria era incinta, passeggiando nel lungomare di Corniglia ci siamo chiesti che nome dare al nascituro o nascitura. Seduti in una spiaggia pietrosa, poi, abbiamo elencato nomi, ma curiosamente neanche uno maschile, tutti femminili! Riflettendo su un eventuale nome di una figlia, avendo io un sasso in mano, ho pensato al nome Pietra. Quando poi Maria è andata dal medico abbiamo saputo che sarebbero stati due i bambini o bambine; è venuto fuori subito un altro nome che avevo in mente da tempo, ovvero quello di un villaggio nel comune dove era nato mio padre, chiamato Armona. Abbiamo pensato al nome di due femmine, che poi sono arrivate.
Secondo me, il genere umano è femminile e ha bisogno del maschio per il principio della dualità e la relativa procreazione. Il moto procreativo è femminile: ognuno di noi ha l’ombelico, un ‘simbolo’ che ci ricorda che un cordone ombelicale ha tenuto insieme la madre e il figlio, dalla gestazione alla nascita. Quindi non c’è nulla di più evidente di questo simbolo, che mette in relazione i figli e le figlie con la figura materna. Il sesso maschile è necessario per le funzioni biologiche e culturali che creano la famiglia. Tornando alla domanda, posso dire che abbiamo avuto anche dei figli maschi, proprio perché c’è stata la scelta pratica e culturale da parte di voi figlie che avete portato nella famiglia i vostri compagni.
È stato tuo desiderio che il mio terzo figlio avesse come nome ‘Michelangelo’ – il figlio di Armona si chiama Eugenio Michelangelo, ndr -. Che valore ha, per te, che il secondo nome di tuo nipote Eugenio sia proprio ‘Michelangelo’?
È un fatto che a me piace molto. Io, riferendomi a lui, dico a volte ‘è-un-genio Michelangelo’, perché penso che il nome Eugenio abbia a che fare con la genialità. Credo molto nella genialità umana e spero che, attraverso questa, lui riesca ad avere dei risultati, che sono quelli che un padre si aspetta da un figlio e anche da un nipote. So che è un gioco di parole, ma, per me, il suo nome ha questo valore, oltre a quello etimologico di ‘ben nato’. Un altro esempio di nomi significativi è il figlio di Pietra, Ettore, che è anche il nome di mio padre. In generale, però non bisogna pensare che un figlio o un nipote possano essere già visti in maniera privilegiata: io, come avo, non favorisco nessuno dei nipoti. In qualche maniera, il nome che si unisce al cognome porta avanti il concetto di famiglia.
I miei figli – i tuoi nipoti – sono cresciuti e vivono a Biella. Secondo te, cosa può dare la nostra città al loro futuro?
Più che ipotizzare cosa può dare questa città a loro, penso a cosa possono offrire loro al futuro di Biella. La nostra provincia non ha niente di diverso da tutti gli altri luoghi, spazi e territori del mondo. Non è detto che una piccola città valga poco o che una metropoli valga molto. Per me, l’importante è il luogo dove avvengono delle cose. È in contesti differenti che si esprime la genialità delle persone, il che non significa solo avere grandi idee, ma anche sapere convivere con il territorio di riferimento. Questa ‘genialità della convivenza’ forma i villaggi, i paesi e la città. Mi auguro che loro sappiano mettere a frutto questa capacità di creare, che ereditano anche come spirito di famiglia.
Potendo tornare indietro nel tempo, cambieresti qualcosa nel rapporto familiare (come padre) con noi figlie?
Non so se avrei dovuto essere più ‘maestro’ nell’insegnare, per esempio, il disegno, la pittura e il chiaroscuro, ovvero ciò che io avevo appreso da mio padre. Cristina, un giorno, mi ha fatto questa osservazione: lei non ha imparato da me l’arte del disegno, perché non gliel’ho insegnata. La stessa Cristina, però, ha vissuto con me e Maria momenti di creazione straordinari. Le ho insegnato la creazione che avviene al seguito della storia antica o anche nel recente passato, che è quella di un’attività di interconnessione tra arte e società: questo è il mio modo di sviluppare, di spiegare la mia visione e la sua possibile applicazione, che non è soltanto fare un ritratto a matita, ma connettere la fotografia e lo specchio. Quindi lavorare sul rapporto interpersonale, non solo soggettivo di saper far bene una cosa, ma saperla fare insieme. Pietra, invece, attraverso il concetto dell’abito, ha sviluppato quello che ha imparato dal mio modus operandi artistico. E tu, con l’architettura e il design, hai sviluppato uno studio che è l’emanazione diretta della creazione artistica.
Io ho sempre pensato che l’arte visiva, la musica e la letteratura avessero bisogno di unirsi con l’architettura, perché quest’ultima unisce tutte le necessità ideali e immaginarie in una realtà pratica. È importante, inoltre, che sia attuata una difesa rispetto alla natura, che ci offre molto, ma ci mette anche in grande disagio. C’è sempre stato bisogno di ‘usare bene’ la natura e di difendersi dalla stessa. L’architettura per me è un elemento straordinario, che unisce la pratica all’espressione creativa e del pensiero.
Maria, Ginevra (figlia di Armona e Paolo Naldini), Armona e Michelangelo Pistoletto. Foto: Nanda Lanfranco.
Qual è il contributo più importante che ritieni di aver dato all’arte? E alla nostra famiglia?
Penso di avere portato all’arte un buon utilizzo di quello che è stata l’arte moderna, che ha dato all’artista una libertà e un’autonomia che non ha mai avuto nel tempo passato. Queste mi hanno portato ad assumere, nel tempo, sempre più responsabilità. Responsabilità strettamente legata proprio alla mia libertà artistica. C’è quindi una dualità di elementi che possono creare un buon equilibrio e che la società può sviluppare: l’arte ha la capacità di porre le basi per un equilibrio sociale.
Per quanto concerne i miei familiari, forse non parlo abbastanza di questi temi con loro. Non voglio imporre un metodo che per me è stato utile per arrivare a delle realizzazioni che sto cercando di estendere nella società come forma di progresso. A questo proposito, però, credo che non ci sia sempre bisogno di esplicitare tutto, molto deve essere inteso, capito e poi realizzato secondo le capacità di ognuno, che sono proprie delle persone e della famiglia stessa.
Quali pregi e difetti credi che io abbia preso da te? E tu da tuo padre?
Più che pregi e difetti, io vedo delle specificità individuali che non sono dei pregi – rispetto a me – nei tuoi confronti, ma delle deviazioni. Ciò che considero come un pregio e non un difetto sono, oltre alle collaborazioni, anche le deviazioni: queste sono la dinamica che rende possibile il progredire di ciò che sembra debba avere una compattezza, ma che non può esistere senza una deviazione continua al suo interno. Si tratta di avere una comprensione condivisa compartecipata, mettendo anche l’inatteso dentro ciò che è già formato. Come nel Terzo Paradiso, anche nel rapporto con la famiglia cerco l’equilibrio. Nella creazione, ad esempio, mettendo insieme elementi contrapposti o differenti, abbiamo la possibilità di creare il mostro o la virtù con lo stesso processo. Noi dobbiamo prendere il mostro e metterlo in uno dei due cerchi del simbolo trinamico e porre la virtù nel cerchio opposto per trovare l’equilibrio nel cerchio centrale. Noi avremo sempre il positivo e il negativo, ma è mettendo questi due opposti insieme che possiamo trovare energia nuova. Dobbiamo prendere mostro e virtù e metterli in due cerchi diversi e collegandoli armoniosamente trovare equilibrio tra questi. Qual è quindi il mio pregio? Trovare l’equilibrio (ride, ndr)! Il difetto, invece, è cadere nelle contraddizioni, non così equilibrate, originate dalle tensioni quotidiane.
Qual è il più bel ricordo della tua vita con me? C’è un aneddoto significativo che non dimenticherai mai?
Fin da quando eri bambina, in certe situazioni di incontro con altre persone, tu sei sempre stata di una compostezza incredibile, molto silenziosa e attenta. Mai un atto di deconcentrazione. Ho visto ogni volta questa tua capacità di esprimere il silenzio al massimo livello. Di solito c’è impazienza di voler fare qualcos’altro, ma tu hai costantemente dimostrato un aplomb non comune.
Qual è il frangente che ti ha emozionato di più nella vita di artista e padre?
Un momento specifico non c’è, perché secondo me ogni frangente della mia vita è stato unico. Non c’è un piano lineare dal quale emergono particolari istanti: il mio piano è una frequenza di onde alte e basse che si susseguono, non una linea piatta. Ho sempre cercato, sia nel lavoro sia nella famiglia, di essere da una parte normale, dall’altra anormale. Per me la normalità sta in una continua alterazione della normalità stessa. L’arte è di per sé sia emozione che ragione. È un gioco continuo. Io non ho mai la sensazione di dover dipendere da nessuno, né dentro alla famiglia né fuori, ma allo stesso tempo dipendo da tutto e da tutti.
La mamma è il tuo braccio destro (oltre che vicepresidente della nostra Fondazione), mio marito Paolo è direttore di Cittadellarte: in che modo vita privata e lavorativa trovano l’equilibrio del Terzo Paradiso?
Ritengo ci sia una grande intesa su un progetto che è quello che ci unisce, sul quale si sta lavorando. Questo progetto, secondo me, non può esistere senza una fiducia reciproca su qualcosa che non siamo ancora, ma che stiamo per essere continuamente. Cittadellarte, a questo proposito, è un’opera che fa diventare famiglia non solo le persone consanguinee, ma anche quelle che, in qualche maniera, comprendono che le cose saranno come noi stiamo cercando di farle essere. Questa è la famiglia e un esempio di quanto detto finora sono gli ambasciatori Rebirth/Terzo Paradiso. I sistemi o i metodi per far crescere questa convivenza si sviluppano con metodi ad hoc: in questo processo è l’arte il motore centrale.