Il 5 dicembre sono passati esattamente un anno, un mese e un giorno da quello che la gente si ostina a chiamare, erroneamente, ‘conflitto civile in Etiopia’, privandolo del suo vero termine: genocidio. È un genocidio che, come la storia ci insegna, non si sta combattendo né a livello politico, né a livello diplomatico e tanto meno a livello militare; è un genocidio che usa come campo di battaglia il popolo tigrino. Ora, chi siamo noi tigrini? E soprattutto, perché il PM Abiy Ahmed etiope ha lanciato un ordine militare contro una regione dell’Etiopia? Abiy Ahmed Ali ha dichiarato ufficialmente e pubblicamente guerra alla regione del Tigray il 4 novembre 2020. Questa sua azione è stata giustificata asserendo che le elezioni regionali, tenute in Tigray, fossero del tutto anticostituzionali e illegali. Ricordando che Abiy Ahmed è stato colui che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver stipulato un trattato di pace con il paese confinante, l’Eritrea, vorrei discostarmi dall’ambito politico e concentrarmi piuttosto, su quello civile. Da quando sono nata, ho sentito parlare di conflitti, di guerre, di stupri, di violenze, come tutti voi del resto; ma, onestamente, vi siete mai soffermati a pensare come potessero sentirsi le persone implicate direttamente? Beh, io no. Mi capitava spesso di sentire al telegiornale notizie come “ragazza violentata a 13 anni…” oppure “barcone proveniente dalla Libia affondato con centinaia di profughi a bordo…” o ancora “ragazzino preso a botte dai suoi coetanei…” e non provare assolutamente niente, perché ormai quelle erano semplici parole decorative che mi tenevano compagnia durante i pasti davanti alla televisione. Sono sicura che dirvi che migliaia di persone stanno morendo di fame, o che migliaia di bambini si trovano senza genitori, o ancora che altri hanno perso delle parti del loro corpo a causa degli attacchi arei cui è soggetto il Tigray non susciterà chissà quale reazione in voi. Quante volte si sente al telegiornale “Ogni 60 secondi in Africa un bambino muore”; sarà che sono ancora giovane e devo ancora sviluppare la mia coscienza, però non ci credo che ogni volta che vedete quel tipo di annuncio vi mettete a piangere e correte a donare i soldi all’associazione che si occupa della causa in questione.
Quando il dramma è “lontano” da noi
Quindi, ammesso che ormai siamo delle persone che sono abituate a vivere nella violenza e che non si stupiscono di certo per un’insulsa sfumatura d’odio, voglio provare ad attirare la vostra attenzione nel seguente modo: da quando è iniziato il conflitto migliaia di donne sono state stuprate. Sì, perché purtroppo, in un paese civilizzato e studiato, lo stupro è usato come arma da guerra. Ma non parliamo di uno stupro fisico, bensì morale, etico, che oltre a farti male fisicamente ti lacera l’intera anima, spingendoti quindi all’alienazione di te stessa, come donna, come mamma, come persona, come tigrina. Solo Amnesty International ha raccolto in tre mesi (tra marzo e giugno) le testimonianze di 63 donne sopravvissute alle violenze sessuali; le vittime hanno rivelato le torture, anche per settimane, all’interno di basi militari e secondo l’organizzazione non governativa, gli aggressori farebbero parte delle Forze nazionali difesa dell’Etiopia, delle Forze di difesa dell’Eritrea, della forza speciale della polizia regionale dell’Amhara e della milizia di etnia Amhara denominata Fano. Per mettere in pratica quello che stavo dicendo prima, ovvero attirare la vostra attenzione, lasciate che vi riporti un paio di episodi.
Monalisa
Monalisa è una ragazza più o meno della mia età, 18 anni se non erro. Il suo episodio è diventato ormai un caso mondiale. Tutti ne parlano e per noi è diventata una martire femminista, è un soldato che non ha combattuto in campo, ma che ha fatto molto di più rispetto a quello che avrebbe fatto se si fosse ridotta alla guerra. Monalisa, viveva con suo nonno nei pressi di Mekelle, capoluogo del Tigray, quando dei soldati eritrei hanno fatto irruzione nella sua abitazione. Una volta entrati, si sono presentati dicendo che se suo nonno non l’avesse stuprata li avrebbero uccisi entrambi. I due hanno opposto resistenza e così il nonno ha perso la vita e la ragazza un braccio ed una gamba.
L’angoscia di chi subisce violenza
Verso giugno del 2020 inizia a girare sui social l’intervista ad una donna tigrina. Era una donna fortemente credente che aveva fatto la scelta di condurre la sua vita preservando la purezza, rimanendo vergine. Le immagini dell’intervista riprendevano però una donna ormai anziana, le cui parole sono state agghiaccianti: ella ha affermato di essere stata violentata da un gruppo di forze armate eritree. Piangendo, rivedendosi passare quelle oscene immagini davanti, ha affermato: “Mi hanno stuprata più volte, a turno e dopo aver finito mi hanno fatto la pipì in bocca. Io non riesco più ad accettare il mio corpo, io stavo solo aspettando di passar a miglior vita, non ho mai fatto del male a nessuno, non capisco perché debba subire tutto ciò”. L’intervista prosegue con la telecamera puntata sul viso ormai ridotto a rughe e lacrime della donna. Vi prego di porre l’attenzione su quello che ha detto la donna, ossia “non ho mai fatto del male a nessuno”, come se si volesse giustificare. Quante volte abbiamo sentito dire “la colpa non è mai delle vittime”? E lo abbiamo dato per scontato. Quante volte sentendo notizie di donne che non hanno voluto sporgere denuncia abbiamo pensato “ma perché? Che ci vuole? Vai in caserma e fai un nome”. Non è così facile. Purtroppo, la vittima è coinvolta direttamente in quell’atto osceno e a posteriori non riesce più a distinguere se sia lei la vittima o l’artefice, o meglio, lo riconosce, ma per essa entrambe le figure sono sporche equamente dello stesso sangue. In merito a quest’ultima questione, ci terrei infatti a prendere pochi secondi da dedicare alle donne (anche in merito giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre scorso). In primis, io sono qui per esplicitare la voce di tutte quelle donne il cui grido non è stato sentito da nessuno. Ma in secondo luogo, voglio sottolineare che questo non è un caso esclusivamente riguardante il terzo mondo, bensì è una questione sociale, dunque mondiale: se nasci donna devi attenerti alle regole, se nasci donna e hai degli impulsi sessuali non sei degna di essere denominata tale, se nasci donna devi attenerti alle decisioni dell’uomo, se nasci donna fai attenzione all’uomo che è sempre un passo avanti a te. Non è mai il contrario: si dice “educa tuo figlio”, non è mai “denuncia tuo marito”, non è mai “prenditi la tua libertà e fai ciò che ami”. Spero vivamente che la prossima volta che leggerete un articolo sul giornale penserete a me e cercherete di mettervi nei panni della persona colpita, perché solo così ci possiamo attivare in senso pratico, ossia quando ci sentiamo presi in causa personalmente.
Lo stupro e l’odio
L’ultima donna di cui vi vorrei parlare è una alla quale Alem stessa si è dedicata con una installazione. La sua vicenda tocca tutti noi tigrini, dal primo all’ultimo, poiché la cosa che più ci accomuna è l’utero tigrino da cui siamo usciti. La donna in questione è stata anch’essa vittima di stupro da parte di una gang di forze armate. Questo episodio però rivela l’odio ed l’ignoranza che si celano dietro ad ogni singola divisa eritrea, etiope ed amhara. Dopo essere stata stuprata, la donna ha raccontato che dei militari le hanno inserito all’interno dei suoi genitali dei pezzi di ferro, chiodi e altro ancora, affermando le seguenti parole: “Il nostro problema sta nel tuo utero, nel tuo feto. Nessuna donna tigrina dovrebbe essere in grado di dare vita ad un bambino tigrino”.
La conclusione
Voglio chiudere questo mio piccolo intervento dedicando una parola a tutti quei bambini che nasceranno da questi stupri. Perché tutti pensiamo alle donne che hanno sofferto (giustamente) per le violenze fisiche che hanno subito, a quelle mentali e alle malattie, ma nessuno volge mai uno sguardo all’avvenire: cosa dirà una mamma un domani a suo figlio che le chiede “ma dov’è babbo? Chi è mio padre? perché non è mai con noi?”. La madre cosa dovrebbe rispondere? “Hai 19 padri”?, “Non lo so, ero sotto l’effetto di sostanze quando ti ho concepito”? Capite bene che è una situazione che non lascia un ampio margine di scelta. Quindi sono qui per affermare quello che ho detto sin dall’inizio: i nostri militari, i nostri soldati e i nostri generali sono le singole persone che hanno subito sulla loro pelle tutte queste atrocità; sono tutte le donne che sono state violentate, tutte le bambine che hanno perso i loro padri, tutte le mamme che hanno visto la decapitazione dei loro figli davanti ai loro occhi. Questo per me è il Tigray.
Alem Teklu e Gloria Teshale