La galleria pareva avere assunto un ruolo differente. La messinscena degli elementi presentati era forse più adatta ad uno spettacolo che ad una mostra. Questo non è stato detto esplicitamente e forse non è necessario che sia, per ora, perfettamente capito. Gli oggetti parevano opere, ma avrebbero potuto essere strumenti. O non essere né l’una né l’altra cosa. Essi si componevano nello spazio, senza diventare ambiente e senza essere dichiaratamente macchina scenica. Alle ore 21 il pubblico è venuto alla ribalta.
Io ero già lì che scalpellavo il piano di un tavolo per ricavarne un incavo, come un grande piatto. Dall’altra pane un tavolaccio dava alla galleria l’impressione di essere il laboratorio di un vetraio. Così pure le opere, formate da specchi incorniciati, erano appese e appoggiate con fìnta casualità in giro sui muri. Alcuni anelli di ferro infissi negli stessi muri sostituivano la presenza di qualsiasi altro oggetto, lasciando ancora all’ambiente l’idea di un laboratorio non ben definito. Non descrivo ora tutti gli elementi presenti in scena e tanto meno le diverse fasi che si sono susseguite durante il mese di mostra. Sarebbe troppo lungo e soddisferebbe soltanto la curiosità di chi rivolge lo sguardo verso l’oggetto o l’avvenimento, lasciandosi sfuggire invece ciò che unisce gli oggetti ai fatti. Il mio discorso era artigianale. Girava attorno all’arte come una cornice. Se l’arte è lo specchio della vita io sono lo specchiaio.
Sono diventato prestigiatore: dentro ad uno specchio tagliato in due sono apparsi tanti specchi quanti sono i numeri possibili, fino all’infinito. Quando il pubblico entrava in scena la recita del vernissage era già iniziata. L‘artista era tornato artigiano per raccontare la storia di un vero dio che si riprende il posto lasciato per troppo tempo ad un falegname putativo.
In questa storia Egli dividendo se stesso crea ora non più uno ma due figli, come due parti di uno stesso specchio. Ognuna con la stessa capacità di specchiare. E alla signora del pubblico che mi ha detto: “Se ammetti che c’è Dio, tu dici ‘c’è Dio?’ e rispondi ‘ci sono!’ tu ammetti che c’è Dio. Allora chi ti da questi doni? il dono di creare, chi te lo da?”, io ho risposto “Ma io ho detto: ci sono!” Quando la signora aveva preso la parola pareva che l’incantesimo di una favola si fosse rotto, così la risposta venne fuori da un’asciutta realtà. Stranamente la realtà era rappresentata dal pubblico, come da ciò che sta davanti allo specchio. Ma il pubblico era venuto per buttare tutto nella finzione, e così il sogno è ripreso.
Io ho levato la tromba e da essa invece del suono sono uscite le parole, rimaste fisse sul muro: “È l’ora del giudizio”. Il terrore non si è letto sul volto degli spettatori, perché questi si aspettano ben altre trombe per un ben altro giudizio. Ma per tranquillizzarli, comunque, ho spiegato semplicemente che era ora di mettere giudizio. E da bravi bambini tutti hanno fatto una risatina che significava anche “Ah, meno male”. Così è iniziata l’ora del giudizio.