Come vestirai?
“Buy less, choose well, make it last” (Compra meno, scegli meglio, fallo durare).
Non sprechiamo questa crisi. Se è vero il detto che non tutti i mali vengono per nuocere, allora può essere che la pandemia che ha spietatamente circumnavigato il globo, terrorizzato tutti i governi e piegato l’economia mondiale ci possa avere lasciato anche una eredità positiva. Di sicuro, l’insegnamento che possiamo tutti trarne è che il mondo, per come lo abbiamo sempre conosciuto, è molto più fragile e piccolo di quello che potevamo immaginare. In pochissimo tempo ogni paradigma che davamo per scontato e che quotidianamente adottavamo è stato completamente stravolto, e ci siamo resi conto di come l’essere umano sia in grado di adattarsi quasi a tutto, anche a quello che, soltanto pochi mesi fa, non avremmo creduto possibile. La parziale privazione delle libertà personali, la chiusura di tutte le attività commerciali, il distanziamento sociale, la obbligatoria copertura del volto, l’impossibilità di accedere a luoghi se non facendo una ordinata coda rimarranno incise nella nostra memoria a lungo, ed è impensabile che tutto quello che abbiamo affrontato non abbia lasciato un segno indelebile nella nostra anima sradicando certezze assodate, dogmi indiscutibili e abitudini consolidate.
E anche tutto il nostro settore, il fashion system, con la ripartenza che gradualmente diventerà operativa di paese in paese, dovrà necessariamente fare i conti con un mercato che è stato radicalmente trasformato da questa esperienza e, mai come adesso, gli addetti ai lavori si guardano intorno smarriti, per cercare adeguate risposte ad interrogativi che non era mai stato necessario porsi in precedenza.
Probabilmente il mercato riprenderà il suo ritmo naturalmente, anche se lo farà in maniera graduale, non impulsiva.
Ci siamo tutti accorti che, durante il lockdown, abbiamo probabilmente riempito gli armadi di più prodotti di quanto fosse necessario e che, molti di essi, avremmo anche potuto anche non acquistarli. Pertanto è del tutto ragionevole immaginarsi che i clienti (‘consumatori’ è una parola che diventerà presto desueta per l’obsolescenza di un archetipo oramai percepito come volgare) ritornino a esperire la shopping experience con un approccio nuovo, in maniera diversa, più attenta, basata su una selezione più consapevole, su una riflessione più profonda e, mi immagino, con la pretesa di un maggior protagonismo nella scelta del prodotto, con la richiesta di un coinvolgimento più immersivo, di quanto lo fosse in precedenza, e con il desiderio di scegliere un prodotto comprendendo tutto quello che si cela dietro le luccicanti facciate dei punti vendita più belli del mondo.
Non è un processo del tutto nuovo, ma il Covid-19 lo ha certamente accelerato e massivamente diffuso, come ha fatto con il lavoro a distanza e le vendite online.
Disintossicati, per legge, dal consumismo compulsivo torneremo, probabilmente, in negozio con occhi diversi e pretenderemo di più di prima: più competenza da parte di chi ci assiste, più valore intrinseco percepibile del prodotto, più rispetto e velocità qualora ci si debba rivolgere ad un servizio di assistenza post-vendita e, certamente, più credibilità da parte del brand.
In parole povere, o ricche per chi ama la sintesi, esigeremo di avvertire una vera e propria cultura aziendale.
I brand dovranno fare i conti con un mondo nuovo, e la cultura, una nuova cultura del lavoro, dovrà diventare centrale per garantire loro di non scomparire dal radar di un mercato più esigente di qualità immateriali.
Gli acquisti saranno certamente più consapevoli per la generalizzata diminuzione dei redditi e la consapevolezza generata da una situazione mai affrontata prima che ha reso l’umanità più frangibile. I brand che hanno una forte identità e una gloriosa storia e che rappresentano dei forti valori in tema etico, ambientale e sociale saranno quelli che, garantendo stabilità e certezza, oltre che attenzione al nostro pianeta, probabilmente verranno meno penalizzati dalle scelte di acquisto del prossimo futuro.
Sarà sicuramente per tutti indispensabile rimettere al centro dell’attenzione la qualità con cui si realizza il prodotto e la serietà del servizio che si garantisce al cliente; il bene più prezioso che i brand dovranno tutelare sarà la creatività su cui la moda stessa fonda, intesa, estensivamente, come valore intrinseco dei beni che vengono realizzati.
La tecnologia e le vendite online potranno rappresentare una grande opportunità per i brand che sapranno adeguatamente coglierla, e se è vero che l’ e-commerce non eliminerà i negozi fisici, certamente ci imporrà un ripensamento delle modalità di distribuzione massiva attualmente generalizzate. I punti vendita saranno probabilmente di meno, ma dovranno essere rivoluzionati per diventare centri di amplificazione della cultura del brand, diventando i principali ambasciatori dei suoi valori e potranno trasformarsi in veri e propri consulenti per il cliente.
Chi sarà semplicemente alternativo all’online, senza offrire un valore aggiunto alla possibilità di ricevere un pacco con tre click, avrà un futuro precario.
Anche per quanto riguarda la vendita all’ingrosso è in atto un cambiamento epocale.
Il Covid-19 ha accelerato, anche in questo ambito, una trasformazione che era già sommessamente in atto, e ha imposto un distanziamento sociale completamente antitetico alle modalità che conoscevamo e che hanno regolato il settore fin dalla sua nascita. La corsa alla realizzazione di showroom digitali è un fenomeno che imporrà un cambiamento radicale a questo mondo. Presentando le collezioni su piattaforme digitali con video e immagini a trecentosessanta gradi, si consentirà agli addetti ai lavori di gestire con maggiore calma e scientificità l’attività di acquisto e alle aziende di evitare costosi viaggi al costante inseguimento della fashion week di turno.
Questi nuovi strumenti non potranno non portare ad un ripensamento del concetto di fashion week che, per forza centrifuga, cesserà di essere così centrale a meno che modifichi la propria vocazione accogliendo non più solo un pubblico di addetti ai lavori, ma aggiungendo un posto a tavola per dare spazio al consumatore finale, con la conseguente traslazione stagionale che renderà il ‘vedi ora compra ora’ see now buy now, un concetto non fallimentare ma trainante.
Di concerto, gli show diventeranno più celebrativi e abbineranno attualità (i prodotti stagionali) con la storia (il cosiddetto heritage) promuovendo valori, non solo prodotti, o prodotti con un valore, necessariamente superando la funzionalità delle dinamiche commerciali precedentemente tipiche del settore.
Gli spettatori di questi nuovi show saranno quindi gli stessi clienti che, in passato, non avevano libero accesso a questa tipologia di eventi, pensati e dedicati solo ai giornalisti e ai professionisti del settore. Questo potrà creare un nuovo legame tra il pubblico ed il brand che dovrà e potrà stabilirsi solo grazie ad una empatia con il gusto, certamente, ma anche con i valori aziendali che il brand deciderà di rappresentare e di condividere.
Sulla scia di questa rivoluzione paradigmatica, la necessità di una cultura produttiva basata sull’efficienza e sull’etica (e non sulla sclerotica presentazione di collezioni) solleciterà un cambiamento in direzione di una gestione più razionale delle tempistiche di gestione del settore, con il conseguente risparmio di risorse precedentemente dissipate nella alternanza tra tempi di vuota e tempi di piena operatività artigianale e industriale, mettendo in discussione, in un processo che era già gradualmente in atto, la stagionalità, ennesimo ex dogma intoccabile della nostra filiera.
L’accorciamento, poi, di quella catena che era rappresentata dai canonici passaggi cliente-negozio-agente-brand-licenziatario-produttore-faconista e che, attraverso la vendita online e l’atteggiamento centralista e acquisitivo dei brand più importanti, diventerà, immediatamente o gradualmente, un rapporto diretto tra il cliente ed il brand.
È un processo, probabilmente, irreversibile.
Questo meccanismo porterà, o dovrebbe portare, la catena del valore a diventare beneficio del cliente, attraverso un incremento del valore intrinseco del bene e della sua qualità percepibile, e del brand, suddiviso, più o meno equamente a seconda dei decision-maker, tra l’azionista e i sui collaboratori, generando, per chi sarà veramente virtuoso, anche un visibile miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori coinvolti nel processo produttivo, generalmente i più deboli, come in quello gestionale e in quello distributivo.
Quella del futuro sarà l’economia nella quale il cliente viene posto al centro della attenzione del brand, che, governando tutta la profondità della sua area di business, dovrà imparare a considerare il cliente il suo asset variabile più importante e strategico. Per questa ragione dovrà assicurarsi di costruire con lui un rapporto sempre più leale e fedele.
A questo tsunami potranno resistere solo i rivenditori che hanno sempre fatto ricerca e tendenza e che gestiscono la loro attività con cultura, passione, competenza, sensibilità, gusto, esperienza e professionalità; elementi non sostituibili, per lo meno nell’immediato, da un algoritmo e spesso trascurati nello sviluppo massimalista delle catene distributive del mordi e fuggi, che potrebbero essere quelle che usciranno più livide dagli epocali cambiamenti in atto.
Chi vivrà, vedrà. Se dovessi quindi immaginarmi come ci vestiremo in un prossimo futuro, direi che lo faremo con maggiore libertà, con molta più attenzione di prima e con una crescente consapevolezza; sono certo che queste scelte, che ciascuno di noi potrà rendere più o meno incisive, più o meno rapide, ci faranno decidere quando, come e dove acquistare.
Il nostro ruolo, in un’economia centrata sul cliente, è giustappunto centrale.
Non dimentichiamocelo.
Giorgio Ravasio, Country Manager di Vivienne Westwood