Che decisione prenderai?
D’improvviso in un mondo nuovo.
Precipitati o ascesi?
Ci siamo ritrovati una mattina, col nostro vecchio corpo, in uno scenario sconosciuto. Roba da fantascienza, pensavo. Ma non è un film. L’imperatore invisibile e piccolissimo del nuovo mondo porta una corona. Si è già preso centinaia di migliaia di corpi e ha stabilito d’imperio un nuovo paradigma. Ricordo che alla Biennale di Venezia del 2017, una gran parte delle installazioni nei padiglioni nazionali dava l’idea di un trasloco di massa. Le opere ambientali – come cantieri aperti con buchi nei muri (Brasile), colonne cascanti (Gran Bretagna), padiglione sventrato, tetto rotto e sacco a pelo (Canada), muri abbattuti (Israele) – sembravano presagire una migrazione collettiva verso altri universi o meglio la smobilitazione di un immenso sistema socioeconomico. Poi, all’ultima Biennale del 2019, il Padiglione Israeliano è stato trasformato in un ospedale vero e proprio (‘Field Hospital X’) per la cura dei traumi da abuso con tanto di triage e aree terapeutiche. L’estetica della sanità, che si è presa il palcoscenico della nostra vita (per ovvi motivi), era già presente in quell’opera di Aya Ben Ron per l’avvento del nuovo Ospedale-Mondo.
Ecco che il virus, insinuandosi ovunque, ha fermato il nostro vecchio caro tran tran. Ci ha confinati in casa obbligandoci a ripensare al rapporto tra noi e tutto ciò che è vivente. E abbiamo visto dalla finestra nuove cartoline esistenziali: gli animali che si fanno coraggio e si mostrano in città, i delfini nei porti, gli alberi che fioriscono comunque e il sole che sorge ancora più bello. Noi, invece, confinati al fondo delle nostre angosce, come specie, come comunità e come individui, ci siamo rifugiati all’ombra del senso di colpa e della ‘preoccupazione’ oppure in una nuova e diversa prospettiva. L’instabilità e il crollo di ogni certezza del vecchio modo di vivere e concepire le relazioni hanno creato terremoti interiori e disorientamento. I morti portati dall’esercito a bruciare senza commiato, gli anziani falcidiati nelle loro residenze ‘protette’, i medici e gli infermieri che hanno buttato all’aria le loro vite… una grande immensa sofferenza si è abbattuta sul mondo e su alcuni più che su altri. Dunque occorre attivare l’antidoto. Antidoto che ciascuno di noi, con l’arte e l’impegno sociale, sta mettendo a punto da tempo. Perché – come scrive Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte – bisogna passare dalla cura degli effetti alla cura delle cause. E così, per quanto mi riguarda, ho cominciato una riflessione su spazio vitale e priorità. Ho azzerato rivendicazioni, ingiustizie subite e rancori. Ho deciso che l’unica via fosse l’ascolto, l’accoglienza dell’anima e la dissoluzione dell’ego.
Il Covid-19 è una malattia, ma è anche una metafora della malattia: effetto delle fratture psichiche che abbiamo messo tra noi e il mondo, tra noi e noi stessi. E così, in questa enorme oscurità, si è manifestata l’opportunità di creare concretamente una nuova realtà sul senso dell’esistenza in questa nostra avanzata epoca storica. L’opportunità di ripensare al ruolo dell’uomo, dell’arte e del mercato e di tutte le azioni compiute sino ad ora. Nell’epoca del distanziamento sociale è venuto il tempo di curare le relazioni, le relazioni malate, e sentirci – fuor di retorica – parte indispensabile di un unico organismo.
Naturalmente, una cascata di pensieri occupa molto del mio tempo. Nel Terzo Paradiso ho ritrovato – dopo una lunga assenza – la chiave di volta. Ho superato i rovi dell’imperfezione umana sui quali ho inciampato, on the road, per incontrare il simbolo che preesiste all’umano stesso.
Come ho trascorso il mio tempo? Ho preso innanzitutto le misure: le nuove misure del mio ingombro nel mondo e nella casa. La comunità di riferimento è diventata esclusivamente quella famigliare e il suolo calpestabile quello domestico. Ebbene mi ci sono tuffata simulando un ufficio, un tempio, una palestra, una biblioteca, un ristorante, un bar e una spiaggia, tutto dentro casa. L’estensione dello spazio libero si è riassunta tra le pareti, le finestre e lo schermo del MacBook. Ho chiesto ai miei studenti Naba, con i quali ho continuato a fare lezione da remoto, di proseguire il lavoro iniziato fisicamente in aula. Al principio del corso chiedevo loro di performare un atto quotidiano in aula davanti a tutti per poi scriverne. Ho suggerito allora di offrire ciascuno in dono alla classe un aspetto di sé. L’esperimento introiettivo di scambio e incontro è riuscito perfettamente. Nella nuova condizione da remoto ho chiesto la medesima cosa, ovvero filmare un atto quotidiano nell’attuale realtà mutata. Studenti italiani e cinesi si stanno raccontando. Ne è venuto un diario visivo e scritto che si trasformerà in un film collettivo, come una lunga e continua azione che si estende nel girato tra corpo e corpo e tra pensiero e pensiero. Intanto abbiamo studiato un modo di rimanere quotidianamente in contatto al di là delle lezioni. Ne è nata una pagina Instagram – chiamata stati_costretti – sulla quale sono state caricate immagini e scritti diaristici ogni giorno, si è trattato di “un diario pubblico di persone distanti” (come scritto a presentazione della loro pagina nel social network, ndr).
Passata la ‘Fase 1’, siamo entrati spaesati nello step successivo. Le ondate di angoscia e sgomento sono ancora del tutto presenti. Ciò che appare chiaro è che, se si riprendesse lo stile di vita predatorio e avido che caratterizza la società contemporanea, ci indirizzeremmo ancora più velocemente all’autodistruzione. L’arte ha oggi più che mai la responsabilità di riorientare le coscienze, di mostrare punti di vista alternativi e imprevisti e di scoperchiare l’infezione collettiva che ha generato le infezioni individuali fisiche. Utilizzando la metafora della malattia sociale intendo riferirmi a disuguaglianze, povertà, inquinamento, deforestazione, monoculture, allevamenti intensivi, petrolio, sfruttamento, falsa finanza, migrazioni forzate, guerra, diritti negati ecc.
Non possiamo più permetterci di scherzare e di non essere completamente presenti a noi stessi. Non c’è più tempo per ballare mentre il Titanic affonda, ciascuno si prenda le proprie responsabilità a partire da se stesso, dalla prossimità dei rapporti più intimi e da un processo di illuminazione e disarmo interiore. Occorre smettere di mentire, di mentirsi e rifugiarsi in un ego fasullo e ingannevole. Basta sentirsi figli del potente di turno. Occorre generare la propria potenza creativa e fondersi con gli altri esseri viventi. Farò di me un capolavoro! Cercherò la mia appartenenza all’universo, mi sentirò legata a te che leggi e a tutti voi che non conosco, e aprirò gli occhi e il cuore per sentire, o meglio per vivere, l’interdipendenza che mi lega a tutte le cose.