Quale lingua parlerai?
Credo che la lingua sia uno degli aspetti sociali che più rapidamente muta e che spesso, attraverso lo slang, crei una frattura generazionale. Per questo motivo, provare ad immaginare un prossimo futuro in cui tutti torneremo ad assaporare quella che sarà una nuova normalità mi riesce difficile. Basta ripercorrere gli ultimi dodici mesi per vedere come siano mutati toni e idee: dal colorato arcobaleno della speranza ai toni smunti della disillusione al grigio opaco della stanchezza e della frustrazione. Per assurdo, le parole chiave di questo periodo per me rappresentano il verde, il bocciolo di una nuova epoca pronta a sbocciare. “Lockdown”, “droplet”, “cluster”, così come gli italianissimi “paziente zero”, “congiunti”, “Dpcm”… e la lista potrebbe continuare per righe e righe.
Termini più o meno comprensibili che però hanno infranto le differenze di età entrando nel linguaggio quotidiano di una popolazione completamente livellata, dove non hanno più avuto importanza status sociale, attività, sfera affettiva, credo, colore o fede politica né qualsiasi altro elemento di distinzione. Tutti sono sottoposti alle stesse regole, tutti si trovano a fare i conti con loro stessi. E non solo in Italia. Questo mi fa immaginare che il linguaggio con cui ci confronteremo sarà più universale, con i popoli uniti da una stessa esperienza, da stati d’animo condivisi, da voglia di riscatto e di ritorno alla quotidianità comuni ad ogni latitudine. Tutti noi ci siamo confrontati con la semplicità dei piccoli gesti quotidiani, spesso diventati l’unico passatempo rimasto (penso ad esempio alla moda del pane fatto in casa). Tutti abbiamo rimesso piede nella nostra comunità, non potendo uscire dai confini del paesello, della provincia, della regione. Tutti abbiamo fatto i conti con dei budget più bassi, dati da chiusure forzate, carenza di lavoro, impennata della crisi economica. Tutti, in fin dei conti, abbiamo imparato ad essere un po’ più empatici perché, semplicemente, abbiamo infine portato nella realtà il famoso motto che, parafrasando, ci ricorda che prima di giudicare dovremmo provare a camminare nelle scarpe di un’altra persona.
Non è andato tutto bene, ma penso che dietro all’angolo ci attenda una lingua che parla di creatività, di rinascita, com’è sempre dopo una grande crisi. Una lingua che metta in gioco tutto il corpo, sinestetica, che comunica attraverso postura, suoni, immagini, odori, consistenze e sapori. Una lingua che avrà imparato ad utilizzare toni più tenui perché siamo ormai tutti stanchi di chi urla e fomenta rabbia e disperazione nei social. Una lingua che riconoscerà il valore di ogni singola persona perché ora sappiamo che non possiamo più dare per scontato nulla, men che meno l’aria che respiriamo e che ancora ci vediamo costretti a filtrare. Una lingua che riconosce il valore dei piccoli gesti come un abbraccio o una più formale stretta di mano. Un lingua in grado di far sentire molte più voci perché credo che uno dei grandi retaggi di questo periodo storico sia stata la possibilità di ascoltare i pareri più disparati, di fare affidamento sul nostro senso critico, di obbligarci a ragionare e sognare, non avendo altro da fare. Un giorno non saremmo più subissati da virologi, esperti, comitati tecnico-scientifici e si creerà all’improvviso un vuoto che avrà bisogno di essere colmato da qualcuno che abbia qualcosa da dire, da condividere. Parleremo la lingua del cuore e delle emozioni? Sarebbe bello. Di sicuro, dopo questa esperienza, le narrazioni surreali ci sembreranno un po’ meno impossibili perché, semplicemente, abbiamo vissuto un’esperienza che fino a 13 mesi fa avremmo definito tale.