Perché una scuola?
Eravamo a New York, invitati alla prima Alternative Art School Fair, organizzata da Pioneer Arts a Brooklyn nel Novembre 2016: e lì, senza aspettarcelo davvero, ce lo siamo trovato davanti pienamente dischiuso: voglio dire, quel fenomeno che in questi anni abbiamo visto gradualmente affacciarsi con sempre maggior convinzione; la convergenza tra pratiche artistiche socialmente impegnate e la istituzione di esperimenti pedagogici radicali. La domanda ormai non è più se, ma perché molti soggetti e collettivi artistici decidono che la forma più rilevante di organizzazione della propria pratica sia quella di una scuola?
Naturalmente l’uso del termine “scuola” va inteso con molta circospezione: non immaginiamoci la ripetizione del paradigma repressivo dell’ammaestramento, che tutti conosciamo e spesso non riusciamo a superare, quel modo di fare che tende a dominare le istituzioni scolastiche dall’inizio dei tempi, che si vede subito quando entri in un’aula che magari ti dicono “qui facciamo scuola innovativa” e poi c’è una cattedra da una parte e i banchi dall’altra! la stessa cosa che si trova nelle chiese, nei comizi politici e nelle discoteche coi dj maestri di cerimonia.
Qui, invece, si tratta di gente che conosce lo spirito profondo e sofferente di Ivan Illich che parlava di descolarizzare la società, gente che ha amato i tentativi disperati di Paulo Freire di imparare a buttar fuori l’oppressione, che ha partecipato direttamente a Occupy Wall Street e a tutti i suoi figli fino a Macao di Milano, che ha contribuito magari alla Popular University of Social Movements (PUSM) di Sousa Santos durante il World Social Forum… lì a Redhook c’erano due ragazze che hanno aperto uno spazio a Black Mountain College, quello di Cage, Merce Cunningham, Buckminster Fuller, eccetera e lavorano sull’idea di free university dove ogni giorno si va al tazebao e si scrive che cosa vuoi insegnare o che cosa vuoi imparare; c’era un gruppo di artisti e/o attivisti che facevano corsi di sopravvivenza, ti insegnano a costruirti un rifugio e a cibarti delle erbe spontanee, ti preparano al collasso totale in modo che tu possa sopravvivere e portare i tuoi geni divergenti oltre la crisi… e noi, che veniamo da Biella, ma veniamo da Cittadellarte, eravamo non dico solo a nostro agio, ma perfettamente nel posto giusto: la gente ci conosceva e veniva a parlarci, sapeva di quello che facciamo dal 2000… cioè? una scuola!
Dove vengono attivisti da tutto il mondo: oggi nei circoli alla moda li chiamano change makers o place makers… e ne parlano usando espressioni come innovazione sociale, impatto sociale, inclusione sociale… bene! Era ora! Perché a Biella, nel complesso di archeologia industriale che l’artista Michelangelo Pistoletto ha acquisito negli anni ’90 , queste cose si fanno proprio come programma ufficiale da vent’anni. La nostra terminologia è un po’ meno cool: parliamo di trasformazione sociale responsabile, per esempio; di artivatori di processi di trasformazione sociale; di demopraxia e di ominiteismo… parliamo di “politiche dell’affinità”, termini che intendono la teatralità, la performance, la collaborazione e allo stesso tempo l’antagonismo come possibili forme di dialogo e di negoziazione.
Ma perché Cittadellarte si trova nell’occhio del ciclone di questo passaggio educational? È la nostra storia. Negli anni ’90 Michelangelo Pistoletto, il nostro fondatore, insegnava Scultura all’Accademia di Vienna; di fronte a una ennesima generazione di artisti pronti a spaccare il mondo e presumibilmente destinati a fallire come artisti e riciclarsi con un senso di sconfitta come insegnanti, progettisti sociali o in altri mestieri del tutto scollegati dalle loro ambizioni, l’insegnante ignorante, ma poi non troppo, decise che nessuno di loro avrebbe fallito.
Come fare? Non era così scontato: il sistema dell’arte era basato proprio su questa massa di falliti su cui i vincenti emergono. Inoltre, guardandosi intorno, la globalizzazione della finanza a scapito del valore intrinseco delle persone e delle cose stava prendendo piede nella fanfara modernista degli economisti e dei presunti intellettuali che salutavano Blair e quel mondo come una forma shining di messianismo, lasciando presagire tempi duri (la guerra in ex Jugoslavia, per lo meno, non poteva permettere tante facili illusioni…) se non addirittura il tracollo; ma solo le cassandre si ostinavano a annunciare quello che poi è avvenuto, mentre a Davos la pletora di lacchè del potere continuavano a cantare le lodi del mondo globale. Come fare allora a mantenere la promessa per cui nessuno avrebbe fallito? L’idea fu aggirare la strettoia del sistema dell’arte e arrivare alla società passando per ogni interstizio e anfratto, per quello che Homi K. Bhabha e altri avrebbero predicato come l’in-between.
Proporre l’arte in tutti i mo(n)di, dalla produzione alla filiera agroalimentare, dall’architettura alla moda, dall’urbanistica alla politica, un programma neo-bauhausiano.Così, nasce Cittadellarte. Erano gli anni ’90 e la prima cosa che si fece fu… una scuola! Un convivio, con pretese di rigenerazione universale, basato sul bene più prezioso che la modernità sembra adorare: l’autonomia. E per quel consesso di artisti, curatori, pensatori, architetti etc… che fondarono Cittadellarte, l’autonomia dell’artista moderno non poteva evitare di portarsi dietro l’altra faccia della medaglia: la responsabilità. Se sei autodefinito, infatti, chi ti obbliga a seguire modi di pensiero e di comportamento imposti? Non ti sei liberato da questi condizionamenti? Allora, adesso che sei libero, il tuo gesto infinitamente personale, assolutamente soggettivo, è ascrivibile solamente e interamente a teSu questa base si decide che alla domanda di Merz (cha fare?) si risponde con una scuola in cui coltivare (cultura) domande e praticare esperienze di possibili risposte. Questa è Cittadellarte.
Ne nasce, nel 2000, un format che oggi è ubiquo: la residenza d’artista per gruppi che interagiscono col territorio. Passano da questo ambiente situato in un complesso ex industriale di Biella, migliaia di artisti e attivisti, da ogni angolo o megalopoli del mondo. La loro mission è tornarsene a casa (dovunque sia e qualunque cosa sia) e attivare luoghi e organi per contribuire a come casa (quel luogo) può cambiare grazie all’azione condivisa, singolare e collettiva, degli abitanti (cittadini legittimati o no, umani o no, riconosciuti o no).
Io, mi trovo a unirmi a questa intrapresa proprio al suo germinare, nel 2000 appunto, alla prima edizione della scuola che prende il nome di Università delle Idee. Nella piccola città di Biella, aggredita da una crisi economica strutturale che sconquassa i suoi più profondi dogmi, attraverso questa scuola lavoriamo con decine e decine di constituencies, cioè di organi che compongono il corpo sociale; facciamo di Biella, questa località aggrappata alle Prealpi insicura tra Torino e Milano e in ansia per lo svanire di una prosperità ormai data per scontata, una palestra di innovazione sociale: partite di calcio tra imprenditori e operai legati da cinque metri di tessuto a due a due, che corrono per il campo come in un film di Herzog e poi si abbracciano avendo capito per la prima davvero quello che hanno sempre saputo, ma mai nessuno ha saputo dire; picnic nei parcheggi pubblici che il Comune privatizza sottraendo sovranità ai cittadini, al demos che sta a guardare mentre i fini intellettuali al governo nazionale sentenziano che di “cultura non si mangia” e quelli responsabili delle comunità locali svuotano i centri storici facendo fare supermercati nelle periferie dove si costruiscono finti centri storici; performance in cui si inscenano matrimoni annunciati tra palestinesi e israeliani che ricevono dalle disperate famiglie dall’altra parte del Mediterraneo lettere accorate o disperate per dissuaderli o maledirli per sempre e loro ti guardano come per chiederti hai capito adesso che cos’è l’odio? corsi di fotografia e di auto-rappresentazione nelle fabbriche tessili che portano attraverso i muri, con una mostra di fotografie scattate dalle operaie nell’ambito di un workshop di sei mesi, “la prima cosa a cui pensi quando ti svegli o l’ultima a cui pensi quando vai a dormire”… in quindici anni probabilmente non c’è associazione e organizzazione del tessuto sociale locale che non venga coinvolta in queste pratiche, dall’ospedale al sindacato, dalla comunità dei pakistani all’associazione delle auto storiche, dai partigiani ai migranti, dai piccoli agricoltori alle scuole parentali, dai grandi gruppi industriali agli assessorati del Comune, dai giovani artisti ai gruppi di mutuo aiuto delle famiglie con malati mentali… allora, due domande bisogna farsi adesso: qual è stato l’impatto di tutte queste pratiche? E poi: perché cambiare?
Non ho una risposta chiara e convincente a queste due domande.
La sto cercando. E ogni giorno che incontro un amministratore o un referente di un’associazione o di un nuovo progetto, questo è quello che chiedo loro, quando, senza voler sembrare, li interrogo per capire se hanno preso le decisioni che hanno preso anche in relazione alle esperienze che abbiamo fatto insieme. Conoscevi il progetto della Silent University (che abbiamo premiato a Cittadellarte col visible award, in collaborazione con Fondazione Zegna) e che abbiamo presentato in mostre e incontri qui a Cittadellarte, quando hai deciso di fare dei programmi di formazione con i migranti la cui accoglienza gestisci nel tuo centro? Avevi lavorato per caso con Diego Bonetto, quell’artista australiano che nel 2004 fece quell’app con cui si potevano riconoscere le erbe spontanee commestibili, visto che adesso tu fai dei corsi in cui insegni questa pratica? Avevi incontrato Richard Stallman, uno dei fondatori del movimento del free software, quando lo portammo a Biella e gli facemmo fare delle lezioni all’Istituto Tecnico, tu che adesso mi racconti che hai fondato un’associazione sul software libero? A volte dicono di sì, esplicitamente, dichiarando proprio che da lì ebbero l’ispirazione, ed è una gioia profonda e strana per me. Altre volte non si ricordano nemmeno dei progetti che abbiamo fatto insieme.
In ogni caso, una parte di me mi dice che alla fine non importa trovare la risposta. Quello che importa è continuare a fare queste domande: Perché imparare? Perché sapere? Quando avviene che si impara, esattamente? E poi, a che cosa serve davvero imparare? Che cosa succede quando qualcuno ti insegna qualcosa? Chi impara e chi insegna davvero? Quando fai qualcosa, perché o per chi la fai? Che cosa c’è dietro alle cose che vediamo o compriamo? Dietro alle istituzioni e alle organizzazioni? Che cosa è il potere? Dov’è e come si distribuisce? Come si esercita? Che cos’è il denaro? Serve? Dove nasce e dove vive? La critica, serve? è sufficiente? è necessaria? che cosa altro serve, oltre alla critica?
Così ci si chiede se quello che stai facendo è giusto; se ha senso; se non sia arrivato il momento di cambiare. Nel 2013 ci siamo chiesti questa domanda in modo molto profondo a proposito della nostra scuola: l’Università delle Idee è ancora rilevante, col suo modello di “collective and educational artist residence for social practice” (cioè di un’esperienza di residenza collettiva e formativa in cui si pratica l’arte implicata nel cambiamento sociale)? Fu un lungo percorso in cui con Juan E. Sandoval, artista, alunno Unidee 2000 (e da allora responsabile dell’Ufficio Arte di Cittadellarte che cura mostre e progetti nello spazio pubblico), ci confrontammo con decine di artisti e attivisti (come Stealth. Unlimited-Ana Džokić e Marc Neelen e Jeanne Van Heeswijk che invitammo nel 2013 e nel 2014 a sperimentare il ruolo di visiting curator della residenza); studiammo modelli ed esperienze dal Brasile (Capacete) alla Palestina (Campus in Camps) alla Thailandia (the Land) a San Pietroburgo (School of Engaged Art), anche grazie alla risorsa del progetto visible piattaforma di ricerca che abbiamo attivato dal 2009.
Non è che mi chiesi questa cosa così, senza motivo; è che mi rendevo conto di tre cose: primo, erano nati un sacco di altri posti in cui si faceva questo che facevamo noi, quindi forse non era più così urgente che lo facessimo anche noi. Secondo, i partecipanti spesso non sapevano come altrimenti vivere, cioè: non avevano possibilità di lavorare e vivere da nessuna parte perché non trovavano lavoro né come artisti né altrimenti, quindi molti si buttavano in un tourbillon di residenze perché almeno non dovevano pagarsi vitto e alloggio. La loro condizione mi pareva sempre meno un’opportunità e sempre più una contraddizione, che senso aveva, mi chiedevo, una situazione del genere? E poi, terzo e ultimo punto, forse quello per me decisivo, fu che mi dissi: ma questi artisti che viaggiano in continuo e ogni mese o due cambiano posto in cui vivere, alla fine, non appartengono a nessun posto; non c’è un luogo dove loro possano contribuire davvero e profondamente a quello che quel luogo diventa; e quindi quei luoghi perdono un tesoro inestimabile! Forse è anche per quello che poi i luoghi non cambiano o cambiano in peggio: mancando questi ragazzi, manca la linfa pura del cambiamento. Così, capii che anche Unidee doveva cambiare.
Decidemmo di lasciare agli altri di occuparsi della (possibile) necessità di fornire ai giovani artisti l’opportunità di fare esperienze diverse, e ci concentrammo su come poter offrire loro e ai loro luoghi di vera residenza, la possibilità di appartenersi reciprocamente nella speranza di innescare processi di vita in cui le persone danno e prendono dai luoghi e dalle collettività; e viceversa. Così, ristrutturammo Unidee, sperimentammo nel 2014 un formato composto da 11 moduli seminariali settimanali condotti da mentori diversi e diretti a diversi partecipanti e lanciammo il programma che quest’anno giunge al suo terzo anno con la direzione di Cecilia Guida dal 2015 (curatrice e alumna unidee 2009), che ha sviluppato il format dei moduli sperimentandone varie declinazioni, combinando mentori e ospiti internazionali, allargando la rete di partner (istituzioni, accademie, università e non solo) e articolando un piano di ricerca triennale.
Il format basato su moduli settimanali costituisce un periodo brevissimo ma l’intensità (e la qualità del programma che Cecilia Guida e le sue collaboratrici hanno portato) è tale che i partecipanti si rigenerano nelle loro pratiche senza abbandonarle e possono così allontanarsi da esse solo per quella settimana; in questo modo permettiamo agli artisti e ai progettisti di cambiamento sociale (o innovazione sociale) di proseguire nella loro formazione professionale articolando un percorsi di studi che può essere equivalente a un diploma triennale (se un allievo segue tutti i corsi che costituiscono l’ordinamento accademico) oppure di crearsi il proprio percorso personale, scegliendo gli insegnamenti; naturalmente non riceverà un diploma di laurea riconosciuto, ma un attestato rilasciato dalla nostra Accademia. Inoltre, questa formula gli permetterà di coltivare la possibilità di incontri e contatti inesplorati, ma anche (se sceglierà di frequentare solo alcuni corsi per brevi periodi) di mantenere saldi e vivi i rapporti con i progetti in cui siano impegnati localmente, che si tratti di Calcutta o di Bari, di Philadelphia o di Gallarate, di Douala o di Johannesburgh.
Per dare sostegno a queste determinazioni (o confutarne la fondatezza), nel 2014, invitammo un gruppo di artisti, curatori, studiosi a partecipare a un workshop di tre giorni, in cui raccontammo loro questi dilemmi: ne uscì una pubblicazione di grande ispirazione, che costituisce una bozza di programma per i prossimi anni; si intitola SOCIALLY ENGAGED ART PRACTICES AND EDUCATION IN CONTEMPORARY DISCOURSE. Si può liberamente scaricare online dal nostro sito, e due saggi in esso contenuti sono ripresentati in questa pubblicazione: “The Educational Turn: A tentative history and taxonomy of artist-founded educa-tion projects”, di Ian Alden Russell, curatore e formatore allora residente a Istanbul e Professore Associato di Arte Contemporanea e Pratica Curatoriale all’Università di Koç, in Turchia e “Some questions towards a discussion on university crises and their alternatives“, di Federica Martini, curatrice e ricercatrice, Head of Master programmes al Master in Arte nella Public Sphere di ECAV, École Cantonal d’Art du Valais, Svizzera.
Nel primo, Ian Russell ci dà un’approfondita disanima dei principali (non esaurientemente, certo, ma in modo piuttosto estensivo) progetti educativi la cui base affonda nella pratica e nella visione artistica. È per me un testo essenziale, imprescindibile per chi, come me, non ha studiato la materia e desidera avere una cognizione almeno generale del panorama in cui ci muoviamo.
Il secondo, di Federica Martini, ci proietta direttamente nel pieno della questione che Cittadellarte sente come essenziale alla propria esistenza: perché fare scuola? Perché andare a scuola? Che cosa imparare? Con quale fine facciamo queste due cose? Quali conseguenze? Quali rapporti tra cambiamento sociale e educazione? È la scuola il dispositivo più idoneo per conseguire i risultati che ci proponiamo?
Nel 2015, sperimentammo questa formula e ne fummo così entusiasti che decidemmo di proseguire e lanciare il nuovo programma. Capimmo anche che sarebbe stato importante che, oltre alla biblioteca che avevamo creato sul tema “Arte e Piattaforme educative”, proseguissimo nel percorso di ricerca e laboratorio avviato col Workshop del 2014, attraverso altri dispositivi: decidemmo così di incaricare uno dei mentori dei moduli Unidee del 2015, Silvia Franceschini, curatrice indipendente che Cecilia conosceva come membro del board curatoriale della Biennale di Kiev, di proseguire nella ricerca e progettare insieme a noi un’estesa indagine sui più interessanti esperimenti in corso: ne è scaturita una mostra che viviamo come una forma di nuova biblioteca, un luogo di studio e immersione, di viaggio anche, dove gli stimoli e le suggestioni si respirano e inspirano per molte vie, dalla vista all’audio, dalla lettura alla postura, dalla relazione con lo spazio architettonico alla realizzazione di installazioni da abitare.
E adesso, finalmente, questo percorso iniziato nel 2014 arriva a una nuova pubblicazione, con interviste e testi ad altri soggetti e approfondimenti diversi, punti di vista, traiettorie, risorse di intelligenza e di pensiero che alimentano quella voglia di imparare che sembra essere uno dei tratti più profondi di una spiritualità immensa che vivifica l’animale come il vegetale e il minerale, il digitale e il sociale, il divenire e l’esserci.
Eravamo a New York, pochi mesi fa, dicevo all’inizio di questo scritto, dove la convergenza tra pratiche artistiche e ambienti educativi si fece evidenza potente; e adesso sto volando verso l’Australia dove condurrò il Rebirth Forum di Melbourne del 2017 (insieme a Independent School Victoria e la piattaforma L.I.L.A. della Graduate School of Education di Harvard, Cambridge, Ma) con una cinquantina di scuole (!) che hanno risposto a un invito in cui chiedevamo loro se volevano partecipare a un evento di confronto e progettazione collaborativa di un ambiente e percorso di formazione da articolare nella regione di Victoria nei prossimi 12 mesi, secondo il programma (che abbiamo in questi anni messo a punto con Michelangelo e con le 100 e più Ambasciate del Progetto Rebirth) di una diffusa attività di ricerca, sperimentazione, apprendimento e trasmissione delle “pratiche con cui essere Demos”. Ancora una volta una scuola! La chiamo Scuola di Demopraxia, e tutto questo che ho raccontato è uno dei suoi principali filoni di ispirazione.
E proprio in questi mesi abbiamo messo in cantiere il primo corso di diploma accademico riconosciuto dal Ministero (la domanda è in questo momento all’esame delle commissioni nazionali) dedicato alla Progettazione dell’Innovazione Sociale, Social Innovation Design: con questo corso cerchiamo di intervenire nell’ultimo anello di una catena (de)formativa che porta le nuove generazioni a perdere ogni speranza e effettiva possibilità di innescare cambiamenti nel segno della responsabilità di una posizione di creazione autonoma; la congiunzione tra la potenza creatrice dell’arte e del potenziale trasformativo dell’organizzazione dei sistemi, della politica, della produzione, della distribuzione.
Al di là dell’ironia della sorte che mi ha portato dal fuggire le scuole quand’ero studente a fondarne, rifondarne e frequentarne in continuazione adesso che sono adulto, penso che non sia facile sottrarsi alla potenza di questa ricorrente manifestazione della urgenza di un rapporto con la realtà empirica, ma anche sociale, politica e finanche spirituale fondato sull’ascolto e sul desiderio, come è la scuola; proprio questa infatti, forse meglio e più di ogni altro dispositivo, ha saputo rappresentare nella nostra storia lontana e contemporanea, la congiunzione tra quello che è (e come esso sia, e perché così sia) e quello che potrebbe essere e che sarà.
Paolo Naldini, 27 aprile 2017, a 10 mila metri di altitudine tra l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti.