Intervista a Raymundo Sesma #1 – La storia dell’artista tra formazione, teatro, viaggi e incontri
Pubblichiamo la prima puntata di un'intervista a tutto tondo a Raymundo Sesma, realizzata dall'ambasciatrice Rebirth/Terzo Paradiso Marcela López Enríquez e dall’architetto e curatore Fortunato D’Amico. Un dialogo - che vi proponiamo in doppia lingua (italiano e spagnolo) - da cui emergono il pensiero, le contaminazioni con altre figure chiave della sua vita e l'identità artistica di Sesma.

Raymundo Sesma: qual è il suo passato? E la sua formazione? Quali viaggi e incontri hanno contaminato e dato forma alla sua ricerca artistica? Marcela López Enríquez, ambasciatrice Rebirth/Terzo Paradiso, e Fortunato D’Amico, architetto e curatore, propongono una ricca e profonda intervista all’artista, dando voce al suo passato, al suo presente e al suo futuro. Ecco il primo ‘episodio’ in lingua italiana e spagnola del loro confronto.

Marcela López: Siamo assieme a Fortunato D’Amico, architetto e storico dell’arte e ci siamo incontrati per conversare con l’artista Raymundo Sesma e cercare di descrivere in modo biografico il suo viaggio, il suo pensiero e la metamorfosi delle sue creazioni. Raccontaci, Sesma, a che punto della tua vita hai deciso di fare l’artista?
Raymundo Sesma: Credo che ci siano diversi fattori, diciamo casuali, che l’hanno determinato. Uno di loro è stato sicuramente mio padre al quale ero fortemente legato. Era un chimico farmaceutico e il rapporto professionale che aveva all’epoca con diversi laboratori, determinò in qualche modo che i suoi rappresentanti gli dessero due libri come regalo promozionale. Uno di questi era legato alla vita e all’opera dell’architetto Walter Gropius, e parlava — ricordo — del rapporto tra arte, l’architettura e il design. Così già da allora (avevo circa 15 anni) divenni consapevole dell’importanza dell’arte per ogni società che aspira a un futuro. In quel libro si afferma che le città, in quanto spazio sociale, rappresentano sculture in cui è consentito entrare. Questo commento ci dà l’idea, come percezione, dell’importanza dell’arte in quanto spazio urbano. Il secondo libro trattava della vita e delle opere dell’architetto Frank Lloyd Wright, di come fu influenzato dalla cultura precolombiana e giapponese e di come l’assimilò per metterla in pratica. Questi argomenti hanno davvero segnato il mio destino in quanto hanno aperto una porta enorme in termini di pensiero, nozione dell’arte e dell’architettura. In quel periodo studiavo al liceo ed ebbi l’opportunità di sperimentare il teatro, formando un gruppo, in cui sviluppavamo opere diverse da una prospettiva contemporanea, in relazione al linguaggio e all’estetica legati alla storia. L’esperienza del teatro, dal suo punto di vista multidisciplinare, mi ha influenzato molto, poiché attraverso di esso si sperimentano la musica, l’architettura, la letteratura e qualcosa di essenziale: il senso spaziale. La multidisciplinarità è un atteggiamento che mi ha perseguitato o accompagnato per tutta la vita. Penso di essermi espresso in senso dialettico in diversi periodi e più recentemente nel progetto Advento, nato nel 1993.

Marcela López: Nos encontramos con Fortunato D’Amico, arquitecto e historiador del arte y nos reunimos para tener una charla con el artista Raymundo Sesma e intentar describir de una manera biográfica su recorrido, pensamiento y metamorfosis de su obra. Cuéntanos Sesma ¿en qué momento de tu vida decides ser un artista?
Raymundo Sesma: Yo creo que existen distintos factores, digamos casuales, que lo han determinado. Uno de ellos seguramente fue mi padre con el cual estuve fuertemente ligado. Él era un químico farmacéutico y la relación profesional que tenía en ese entonces con distintos laboratorios, determinó de alguna manera que sus representantes le regalaran a manera de promoción dos libros. Uno de ellos estaba relacionado con la vida y obra del arquitecto Walter Gropius, y hablaba —recuerdo— de la relación entre el arte, la arquitectura y el diseño. Así que en ese momento (yo tendría unos 15 años) tuve conciencia de la importancia que tiene el arte para cualquier sociedad que aspira a un futuro. En este libro se menciona que las ciudades, en cuanto espacio social, representaban esculturas en las cuales estaba permitido entrar. Este comentario nos da la idea, en tanto percepción, de la importancia del arte en cuanto espacio urbano. El segundo libro trataba de la vida y obra del arquitecto Frank Lloyd Wright y de cómo fue influenciado por la cultura precolombina y japonesa, y de que manera la asimiló para llevarla a la práctica. Estos argumentos realmente marcaron mi destino ya que abrieron una puerta enorme en cuanto al pensamiento, la noción del arte y la arquitectura. Durante ese período, estudiaba la preparatoria y tuve la oportunidad de experimentar el teatro, conformando un grupo, en el cual desarrollábamos distintas obras desde una visión contemporánea, en relación al leguaje y la estética ligadas a la historia. La experiencia del teatro, desde su punto de vista multidisciplinario, me influyó mucho, ya que uno a través de este experimenta la música, la arquitectura, la literatura y algo que es esencial: el sentido espacial. La multidisciplinariedad es una actitud que me ha perseguido o acompañado toda la vida. Creo que desde un sentido dialéctico me he expresado en distintos períodos y más recientemente en el proyecto de Advento que nace en 1993.



Fortunato D’Amico: Cos’altro puoi dirci del teatro e della sua multidisciplinarietà?
RS: Il teatro insegna a pensare come gli altri, a vedere come gli altri, ad essere come gli altri. Ti racconta la storia, ti mostra l’architettura, lo spazio, la storia dell’arte e ritengo questo esercizio fondamentale nella formazione non solo dell’artista, ma del grande pubblico, penso addirittura che ogni governo dovrebbe recepirlo come disciplina obbligatoria nella didattica, perché si acquisiscono risorse per comprendere l’arte e la storia come passato e presente a 360 gradi. Il teatro in senso wagneriano (Gesamtkunstwerk) come opera in cui convergono discipline diverse.

Fortunato D’Amico: ¿Qué más nos puedes decir en cuanto al teatro y su carácter multidisciplinario?
RS: El teatro te enseña a pensar como el otro, a ver como el otro, a ser como el otro. Te habla de historia, te muestra la arquitectura, el espacio, la historia del arte y a este ejercicio lo considero fundamental en la formación no solo del artista, sino del público en general, incluso pienso que cada gobierno debería incorporarlo como una disciplina obligatoria en la educación, porque adquieres recursos para entender el arte y la historia en cuanto pasado y presente a 360°. Teatro en un sentido wagneriano (Gesamtkunstwerk) como obra en la cual convergen distintas disciplinas.

ML: In quegli anni formativi, come ti sei avvicinato al mondo dell’arte dal teatro?
RS: È stato proprio nel gruppo teatrale che conobbi un’attrice statunitense e nella necessità di diffondere lo spettacolo che avremmo rappresentato, ci trovammo a disegnare le locandine dell’evento. Io disegnai il poster e lei lo riprodusse in serigrafia. A quel tempo, Puebla non aveva un laboratorio dedicato a questa disciplina, motivo per cui rappresentava una tecnica di riproduzione innovativa. Questo mi sensibilizzò sull’importanza delle tecniche grafiche, come la serigrafia, l’incisione, la litografia, nella loro essenza di capacità espressive e poetiche. A questo proposito, Joseph Beuys affermava che «la molteplicità è sinonimo del numero di persone a cui arrivano le informazioni». Usò la serigrafia precisamente come mezzo per moltiplicare le sue idee. In qualche modo l’incontro con questa tecnica mi permise di rendermi conto delle sue possibilità e mi introdusse in un mondo in espansione e da conoscere. Fu così che incontrai Rembrandt, Goya, Toulouse Lautrec e Picasso, artisti che lavoravano con questi mezzi espressivi, non solo in termini di riproduzione, ma anche di espressione. Anche in Messico abbiamo grandi esempi come Guadalupe Posada, il Taller de Gráfica Popular e diversi artisti contemporanei. Tornando alla mia amica del gruppo teatrale, suo padre era il direttore artistico dell’Universidad de las Américas, il che mi permise di frequentare le sue lezioni e le proiezioni di film vincolati al mondo dell’arte di quel tempo. Così, per mezzo di lui conobbi l’arte cinetica, artisti latinoamericani come Soto, Carlos Cruz-Diez, Alejandro Otero, Lygia Pape e l’opera di Hélio Oiticica, Lygia Clark o, per esempio, il poeta Oswald de Andrade con il suo Manifesto antropofago (1928) sulla deglutizione del vescovo Sardinha. Un altro evento importante nella mia formazione fu la produzione delle grafiche per le Olimpiadi del 1968 in Messico, poiché nacquero grazie al legame estetico e formale tra l’arte dei nativi Huicholes e l’arte cinetica. Il Messico a quel tempo a livello grafico si proponeva come l’avanguardia nella produzione di un’identità legata a un avvenimento sportivo di rilevanza mondiale. La cosa interessante è che pur avendo svolto un lavoro come quello che venne realizzato —diffondere l’evento al mondo partendo da una sua lettura messicana al 100%—, la maggior parte dei miei connazionali non si rese conto dell’origine di quelle grafiche, né del metodo utilizzato per accedere a tali risultati. Fu solo dopo molti anni che finalmente capimmo l’importanza di tutto questo. Almeno per me è stato fondamentale. Abbiamo vissuto e viviamo colonizzati e questo evento ha aperto, per chi può rendersene conto, un percorso verso la ricerca della nostra identità basata sulle nostre radici, intendendo la tradizione come evoluzione, non come involuzione. Questa irrequietezza fu ciò che in qualche modo provocò in me il bisogno di lasciare il Messico, dapprima ottenendo una borsa di studio all’ Universidad de las Américas e successivamente un’altra del governo canadese per andare a studiare a Toronto presso il workshop professionale Open Studio dal 1977 al 1978.

ML: Durante esos años de formación ¿cómo fue que del teatro accedes al mundo del arte?
RS: Fue precisamente en el grupo de teatro que conocí a una actriz norteamericana, y en la necesidad de difundir la obra que íbamos a representar, nos vimos en la necesidad de diseñar los carteles para la difusión. Yo diseñé el cartel y ella lo realizó en serigrafía. En ese momento en Puebla no existía un taller que se dedicara a esta disciplina, por lo cual en lo personal representaba una técnica de reproducción innovadora. Esto determinó hacer conciencia de la importancia de las técnicas gráficas, como la serigrafía, el grabado, la litografía, en cuanto capacidades expresivas diferentes y poéticas distintas. Con respecto a esto Joseph Beuys decía que «la multiplicidad es sinónimo del número de personas a las cuales llega esa información». Él utilizó la serigrafía precisamente como medio multiplicador de sus ideas. De alguna manera el encuentro con esta técnica me hizo ver las posibilidades no solo de la técnica misma, sino me introdujo a un mundo en expansión y por conocer. Fue así que me encuentro con Rembrandt, Goya, Toulouse Lautrec, Picasso que produjeron y trabajaron a través de estos medios de expresión, no solo en términos de reproducción, sino de expresión. En México también tenemos grandes ejemplos como lo son Guadalupe Posada, el Taller de Gráfica Popular y varios artistas actuales. Regresando a mi amiga del grupo de teatro, su padre era el director de arte de la Universidad de las Américas. Esto me permitió asistir a sus cátedras y proyecciones de películas referentes al arte contemporáneo de ese momento. Fue así que a través de él conocí el arte cinético, a artistas latinoamericanos como Soto, Carlos Cruz-Diez, Alejandro Otero, Lygia Papey el trabajo de Hélio Oiticica, de Lygia Clark o, por ejemplo, del poeta Oswald de Andrade con su Manifiesto Antropófago (1928) sobre la deglución del obispo Sardinha. Otro evento importante en mi formación fue la producción de la gráfica de las Olimpiadas de México 68, ya que se originan gracias al vinculo a nivel estético y formal del arte huichol y el arte cinético. México en ese momento a nivel gráfico se apuntalaba como la vanguardia en el sentido de producción de una identidad relacionada con un evento deportivo a nivel mundial. Lo interesante es que a pesar de haber hecho un trabajo como el que se hizo, el de comunicar al mundo este evento desde una lectura 100% mexicana, la mayor parte de los mexicanos no hicimos conciencia, ni del origen de esa gráfica, ni del método para acceder a esos resultados. Fue después de muchos años que finalmente entendimos la importancia de todo esto. Al menos en lo personal fue fundamental. Hemos vivido y vivimos colonizados y este evento nos permitió para aquellos que lo pueden ver, un camino en la búsqueda de nuestra propia identidad basado en nuestras raíces, entendiendo tradición como evolución no como involución. Esta inquietud fue la que de alguna manera despierta en mí la necesidad de salir de México. Primero obteniendo una beca para la Universidad de las Américas y sucesivamente otra del gobierno canadiense para ir a estudiar a la ciudad de Toronto en el taller profesional Open Studio, beca que se prolongó de 1977 a 1978.

FD: Come fu la tua esperienza all’Open Studio?
RS: Lo studio era specializzato principalmente in litografia e incisione, si trattava di un laboratorio professionale, cosa molto importante poiché mi trovavo in un luogo dove lavoravano esclusivamente professionisti e non solo studenti. Questo mi permise di professionalizzarmi tecnicamente, oltre ad accedere ad una bibliografia che completava la mia curiosità per le tecniche grafiche contemporanee, un’esperienza che ritengo fondamentale in ogni formazione artistica.

FD: ¿Cuál fue tu experiencia en Open Studio?
RS: Este taller se especializaba en litografía y grabado principalmente, era un taller profesional, lo cual fue muy importante ya que me encontré en un sitio donde trabajaban exclusivamente profesionales y no solo estudiantes. Esto me permitió de alguna manera profesionalizarme técnicamente, aparte de acceder a cierta bibliografía que complementó mi curiosidad en cuanto a las técnicas gráficas contemporáneas. Una experiencia que considero fundamental en toda formación artística.

ML: Dopo il Canada ti trasferisti in Europa?
RS: Esatto. Dopo quell’esperienza mi recai a New York pensando di rimanerci per un po’. Ma allora, ricordo, vidi un charter da 250 dollari per Londra e così la settimana dopo essere arrivato da Toronto decisi di spostarmi in Europa per realizzare un sogno professionale che avevo accarezzato a lungo. Prima andai a Londra, poi a Parigi, da lì in Germania fino alla città di Kassel. Successivamente arrivai in Italia dove conobbi la storia nei musei e attraverso gli artisti e la gastronomia, senza parlare dell’architettura, le piazze, i monumenti, Leonardo da Vinci, Michelangelo e così via.
Poi, di ritorno in Germania, visitai la mostra Documenta e mi colpì trovarmi di fronte a un’esposizione che aveva poco a che fare con la pittura. Fu proprio lì, all’ingresso, che notai un personaggio molto particolare firmare alcune serigrafie e chiacchierare con il pubblico, quasi tutte persone molto giovani, il che mi sembrò interessante.
In quel momento mi resi conto che stavano vendendo manifesti e decisi, senza conoscere l’artista, di comprarne uno e avvicinarmi a lui per farmelo firmare. Quando glielo chiesi, mi domandò da dove venivo, probabilmente a causa del mio accento, per cui risposi che ero messicano e lui, sorridendo, disse: «Viva Zapata!». Dopo l’autografo andai in una libreria a cercare libri su questo personaggio, mi riferisco a Joseph Beuys.
Questo incontro casuale, durato pochi minuti, è stato essenziale nel mio processo di sviluppo intellettuale, concettuale e umano. Considero fondamentale la sua nozione di “scultura sociale”, non solo allora, ma ancora oggi. Sebbene il XX secolo sia stato fortemente influenzato da Duchamp, ritengo che il XXI secolo sarà di Joseph Beuys dal punto di visto filosofico.
Un’opera che ha particolarmente attirato la mia attenzione è stata: Rosa per la democrazia diretta.
Consiste in una provetta con all’interno una rosa rossa. Quest’opera parla essenzialmente di un processo alchemico per dar vita a una democrazia. Parla della capacità dell’arte di intervenire nella società, di influenzare gli eventi fino a modificarne la direzione. Questo nelle parole del critico d’arte Donald Kuspit, che ha anche scritto sul mio progetto Advento.
In particolare, questo lavoro è legato alle idee di Rosa Luxemburg come fonte di ispirazione. Così questo pezzo supera i limiti circoscritti dell’oggetto singolare, per appropriarsi di un sistema di relazioni come opera costruita.

ML: ¿Fue después de Canadá que te fuiste a Europa?
RS: Efectivamente. Después de esa experiencia viajé a la Ciudad de Nueva York pensando quedarme por un tiempo. Y fue entonces, recuerdo, que vi un chárter de 250 dólares a Londres y a la semana que llegué de Toronto, decidí irme a Europa y así realizar un sueño profesional anhelado por mucho tiempo. Primero viajé a Londres, después a París, de ahí a Alemania a la ciudad de Kassel. Sucesivamente, viajé a Italia encontrándome con la historia, conociendo sus museos, sus artistas, su comida, y qué decir de su arquitectura, sus plazas, monumentos, Leonardo da Vinci, Michelangelo, etcétera. Posteriormente cuando regreso a Alemania, visito la exposición de Documenta, lo cual fue en lo personal revelador encontrarme con una exposición que poco tenía que ver con la pintura. Fue ahí exactamente a la entrada de la exposición que note a un personaje muy particular firmando unas serigrafías y charlando con el público, en su mayoría un público muy joven, hecho que llamó mi atención. En ese momento vi que estaban vendiendo carteles y decidí, sin conocer al artista, comprar uno de ellos y acercarme para que me lo firmara, al pedirle si me lo podía firmar me preguntó de dónde era, seguramente por mi acento, le comenté que de México y me respondió sonriendo: ¡Viva Zapata! Después de la firma, fui al bookshop para buscar libros de este personaje, me refiero a Joseph Beuys.
Este encuentro casual que duró apenas unos minutos, fue primordial en mi proceso y desarrollo intelectual, conceptual y humano. Su concepto de “escultura social” lo considero fundamental, no solo en su momento, sino incluso actualmente. Si bien el siglo XX fue fuertemente influenciado por Duchamp, considero que el siglo XXI será Joseph Beuys en cuanto filosofía. Una obra que me llamó particularmente la atención fue: Rosa por la democracia directa. Consiste en una probeta con una rosa roja dentro. Esta obra habla esencialmente de un proceso alquímico para dar vida a una democracia. Habla de la capacidad del arte de intervenir dentro de la sociedad, de influenciar los eventos hasta el punto de modificar su dirección. Esto en palabras del crítico de arte Donald Kuspit, quien incluso ha escrito sobre mi proyecto de Advento.
En lo particular esta obra está relacionada con las ideas de Rosa Luxemburgo como fuente de inspiración. Así esta pieza va más allá de los limites circunscritos del objeto singular, para apropiarse de un sistema de relaciones como obra construida.

FD: Interessante, Sesma. I tedeschi sono sempre stati all’avanguardia e hanno un’intera tradizione e una cultura che ha influenzato il mondo. Ne sono esempi, tra gli altri, Goethe, Beethoven, Marx, Mozart e il loro espressionismo. Ma a proposito di Beuys, hai avuto modo di rivederlo?
RS: Purtroppo no, ma ho avuto modo di conoscerne la fondazione e avere accesso a diversi materiali, ho anche visitato alcune mostre che ha realizzato in Francia, New York e in Italia dove aveva una grande presenza. Uno dei suoi storici in Italia si chiama Massimo Donà ed ha scritto un libro intitolato Joseph Beuys: la vera mimesi, di Silvana Editoriale d’Arte. E che dire della collezione della signora Lucrezia De Domizio Durini, per esempio.
Donà si è laureato in filosofia con Emanuele Severino, all’Università di Venezia nel 1981, e fa parte di un gruppo che era guidato dalla gallerista Fiorella La Lumia a Milano, in cui abbiamo incontrato artisti, scrittori e filosofi, condividendo temi una volta al mese. Purtroppo Fiorella è già scomparsa, ma attraverso Donà ho potuto riaffermare i principi fondamentali della filosofia di Beuys.

FD: Qué interesante, Sesma. Los alemanes siempre han sido vanguardistas y tienen toda una tradición y una cultura que ha influenciado al mundo, qué decir de Goethe, Beethoven, Marx, Mozart, el expresionismo alemán, etcétera. Refiriéndome a Beuys, ¿tuviste oportunidad de verlo nuevamente?
RS: Desgraciadamente no, pero tuve la oportunidad de conocer su fundación y tener acceso a distintos materiales, también visité diversas exposiciones que realizó en Francia, Nueva York y en Italia donde tuvo una gran presencia. Uno de sus historiadores en Italia se llama Massimo Donà, quien escribió un libro que se titula Joseph Beuys: la vera mimesi, de Silvana Editores. Y qué decir de la colección de la señora Lucrezia De Domizio Durini, por ejemplo. Donà se graduó en filosofía con Emanuele Severino, en la Universidad de Venecia en 1981, y pertenece a un grupo que encabezaba la galerista Fiorella La Lumia en la ciudad de Milán, en el que nos reuníamos artistas, escritores y filósofos, compartiendo temas una vez al mes.
Lamentablemente, Fiorella ya murió. Pero a través de Donà he podido reafirmar los principios fundamentales de la filosofía de Beuys.

ML: Dopo il tuo viaggio in Germania, sei andato in Italia?
RS: Sì, sono andato a Milano e la prima cosa che ho fatto è stato andare in una stamperia che avevo conosciuto sui libri, che si chiamava Grafica Uno e in cui avevano lavorato grandi maestri del Novecento come Tapies, Miró, Giorgio de Chirico, Matta, ecc. Questo senza dubbio attirò la mia attenzione e chiesi di intraprendere un’esperienza in questo atelier, richiesta che venne accettata quando Giorgio Upiglio —fondatore di Grafica Uno—, vedendo il lavoro che avevo fatto in Canada, mi suggerì di lavorare con lui. Fu allora che entrai a far parte della stamperia come assistente di Upiglio —alla fine degli anni ‘70— e conobbi diversi artisti che facevano parte delle avanguardie del momento, come Wifredo Lam, Mimmo Paladino, Gio Pomodoro, Ettore Sottsass, Mario Benedetti e il critico e curatore Achille Bonito Oliva, con il quale partecipai a tre mostre, tra cui una mia personale al Palazzo Reale di Milano, per la quale scrisse il testo di presentazione del catalogo. Lì ho conobbi anche, per esempio, l’architetto Aldo Rossi e il suo teatro mondiale, Goetz, Tilson e Gillo Dorfles. Su invito di quest’ultimo, partecipai alla Biennale di Venezia del 1986. Ricordo anche che nel 1981 ebbi l’opportunità di ricevere una borsa di studio dal governo tedesco e andai a lavorare a Wolfsburg, in uno spazio condiviso con diversi artisti di vari paesi. Lì incontrai in particolare un artista giapponese che mi fece conoscere la loro cultura. Successivamente, ebbi l’opportunità di visitare il Giappone su invito della Ginza Graphic Gallery, che organizzò per me una mostra al museo di Fukuoka nel 1984, durante le celebrazioni dei 400 anni della città. Lì rimasi 3 mesi a tenere corsi, conferenze e incontrare diverse personalità dell’arte e della letteratura come il poeta Makoto Ooka e il premio Nobel per la letteratura Kenzaburo Oé, tra gli altri. Questa esperienza significò per me capire ancora di più il lavoro di Isamu Noguchi, un artista che affrontò territori diversi a livello oggettuale, scultoreo, spaziale e urbano. E, allo stesso modo, mi ricorda il lavoro di un altro architetto che ammiro molto, Frank Lloyd Wright e l’influenza che ebbe dalle culture giapponesi, in senso spaziale, e dalla cultura messicana. Ebbe anche una relazione con Diego Rivera, dimostrata dalla corrispondenza tra di loro, quando Diego stava costruendo l’Anahuacalli.

FD: A proposito, ci sono state relazioni nella tua formazione con i muralisti o con qualche artista messicano in particolare?
RS: Ti dirò, credo che la cultura precolombiana, la pittura Maya, non solo dal punto di vista pittorico, cromatico o concettuale, ma nel senso della sua estetica e della sua identità siano importanti per me, come lo erano per i muralisti nella ricerca della propria identità, attraverso la loro cultura ancestrale cercando di decolonizzare in qualche modo. Quel senso di decolonizzazione è stata una questione che mi ha turbato.
Riflettere nelle mie opere l’identità che ogni artista cerca nel profondo del suo spirito, che si raggiunge solo studiando la storia e con un atteggiamento critico. Alcuni lo capiscono e lo esercitano letteralmente e altri concettualmente; questo si esercita dalla pratica, dalla letteratura, dalla musica, dalla pittura, dall’architettura, ecc., con una visione a 360°.
Siqueiros, per esempio, mi seduce per il suo senso di multidisciplinarietà, nel suo aspetto alchemico e innovativo. Per quanto riguarda la pittura nello specifico, sono molto interessato al suo concetto di poliangolarità che si riflette in diverse delle sue opere, come il Polyforum Cultural Siqueiros, dove cercava di creare un dipinto che fosse vissuto dallo spettatore in movimento, cioè partecipativamente. Attualmente sto adattando questo aspetto del lavoro di Siqueiros al mio lavoro e sto anche andando oltre in termini di questa risorsa tecnica.
Un altro artista messicano molto importante è Rufino Tamayo. Lo conobbi in uno dei miei viaggi in Messico quando abitavo in Italia, durante una mostra di artisti nati negli anni ‘50 che si tenne al Museo del Chopo negli anni ‘80. Durante l’inaugurazione mi invitò a fargli visita nel suo studio, cosa che feci un anno dopo, perché in quel momento dovevo tornare in Italia. Quando finalmente lo visitai ed ebbi l’opportunità di parlare con lui, mi chiese se avevo esposto a Città del Messico, risposi di no e così mi organizzò una mostra personale che inaugurò in una galleria nel quartiere San Ángel. Questa galleria stava producendo un’edizione del maestro in mixografia. Tamayo mi insegnò a capire la capacità espressiva e poetica del colore, oltre alla sua capacità di sintesi nel disegno. Ad oggi credo di non aver incontrato nessun altro che domini il colore come lui. Fu un artista coerente con la propria identità culturale in senso evolutivo, trascendendo il proprio momento storico.

FD: Por cierto, ¿existe en tu formación alguna relación con los muralistas o algún artista mexicano en particular?
RS: Te diré, creo que la cultura precolombina, la pintura maya, no solo desde el punto de vista pictórico, cromático o conceptual, sino en el sentido de su estética y de su identidad son importantes para mí, como lo fueron para los muralistas en la búsqueda de su propia identidad, a través de su cultura ancestral intentando descolonizarse de alguna manera. Ese sentido de descolonización ha sido una cuestión que me ha inquietado. Reflejar en mi obra esa identidad que cada artista busca en el fondo de su espíritu que solamente se logra estudiando la historia y con una actitud crítica. Algunos la entienden y la ejercen desde lo literal y otros desde lo conceptual; esto se ejercita desde la práctica, desde la literatura, la música, la pintura, desde la arquitectura, etcétera, con una visión a 360°.
Siqueiros, por ejemplo, me seduce por su sentido de la multidisciplinariedad, en su aspecto alquímico e innovador. En cuanto la pintura en lo específico, me interesa mucho en su concepto de la poliangularidad que se refleja en distintas obras que él hizo, como el Polyforum Cultural Siqueiros, donde intentaba crear una pintura que fuera experimentada por el espectador en movimiento, quiero decir participativamente. Este aspecto de la obra de Siqueiros actualmente la sigo adaptando a mi obra e incluso yendo mas allá en cuanto este recurso técnico. Otro artista mexicano también muy importante es Rufino Tamayo, al cual conocí en uno de mis viajes de Italia a México. Durante una exposición de artistas nacidos en los 50’s que se realizó en el Museo del Chopo en los años 80’s, tuve la oportunidad de conocerlo. Y durante la inauguración él me invitó a visitarlo a su estudio, lo que hice un año después ya que tenía que regresar a Italia. Una vez que lo visité y tuve la oportunidad de hablar con él, me preguntó si había expuesto en la Ciudad de México, le dije que no y fue el momento en que él me organizó una exposición personal que inauguró en una galería en San Ángel. Esta galería estaba produciendo una edición del maestro en mixografía. Tamayo me enseñó a entender la capacidad expresiva y poética del color, así como su capacidad de síntesis en su dibujo, creo que hasta la fecha no he conocido otro artista que maneje el color como él lo hizo, es un artista que fue coherente con su propia identidad cultural en un sentido evolutivo, trascendiendo su propio momento histórico.

ML: Interessante, ma torniamo a Milano.
RS: Successivamente, in un altro viaggio in Messico, feci domanda per una borsa di studio al governo italiano sulla base del lavoro che avevo svolto in precedenza, borsa che mi fu concessa per studiare scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, con il professor Marchese e con il sostegno del FONAPAS, l’istituzione che sarebbe poi diventata il Fondo Nacional para la Cultura y las Artes. Fu un’esperienza molto importante, non solo da un punto di vista pratico, ma anche concettuale, poiché si analizzava e discuteva l’evoluzione della scultura da Brancusi in poi. Il maestro mi ha parlò anche di artisti contemporanei come Joseph Beuys e di due movimenti artistici che si stavano diffondendo in quel periodo, mi riferisco all’arte povera e alla transavanguardia, a cui ebbi modo di avvicinarmi molto poiché a quel tempo Milano era la capitale europea dell’arte come innovazione. Due pensieri antagonisti con origini diverse, c’era persino una rivalità piuttosto pronunciata.
Il design e l’architettura erano due discipline altrettanto vitali, che componevano l’atmosfera milanese dell’epoca. Risaltavano il Gruppo Memphis, Alessandro Mendini, di cui fui amico, Ettore Sottsass, Mario Botta e l’architetto e urbanista Adreas Kipar, attualmente uno dei più importanti al mondo, con il quale ho svolto alcuni progetti. Kipar promuove una nuova mobilità lenta, articolandosi come una serie di arterie verdi nel tessuto urbano, con l’obiettivo di collegare in un sistema unitario gli spazi pubblici pedonali e per il transito di biciclette, parchi urbani e viali. Senza dubbio sarebbe interessante averlo a Città del Messico. Anche Mimmo Paladino, rappresentante del movimento della transavanguardia, venne diverse volte nel mio studio e addirittura lavorai per lui. Ovviamente era interessato alle mie creazioni, tanto che mi propose di aprire un laboratorio di incisione nella sua città natale, Benevento, a circa 70 km da Napoli. Fu una decisione difficile da prendere, personalmente. Alla fine non accettai, perché volevo continuare ad apprendere e sviluppare il mio lavoro nel laboratorio di Grafica Uno, che era per me una sorta di bottega rinascimentale, dove si indagavano le tecniche contemporanee e dove c’era —come ho già spiegato— un flusso internazionale di diversi artisti, filosofi, poeti, romanzieri, che arricchirono l’esperienza.
Posso anche citare Mario Merz, che conobbi a Prato, in Toscana, grazie ad un invito ricevuto dal direttore e curatore israeliano del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Amnon Barzel.
Tutti questi incontri e viaggi mi nutrono e mi permettono di confrontarmi in qualche modo con me stesso, non solo con ciò che sta accadendo in Messico, ma con ciò che succede a livello internazionale. Vivere in Italia mi ha permesso di visitare molte mostre, biennali, fiere, che ti danno una panoramica di dove siamo e dove stiamo andando. In un’occasione a New York il curatore Julián Sugazagoitia mi chiese quando avevo lasciato il Messico ed io risposi: «Non l’ho mai lasciato». Credo che il tuo Paese, le tue radici e la tua educazione ti sviluppino come individuo e la vita ti dia gli strumenti per scoprire in te stesso ciò che non conosci. Sicuramente sono sempre stato vicino al Messico e non solo dal punto di vista artistico, ma anche dal punto di vista della sua musica, della sua letteratura e della sua cultura in generale. Mentre vivevo in Italia, ebbi l’opportunità nel laboratorio di Grafica Uno di essere l’editore di libri d’arte e proporre progetti di volumi illustrati. Dei 16 libri che pubblicai, i primi due sono stati molto importanti, poiché il primo lo feci con il maestro Jorge Luis Borges e oggi appartiene a diverse collezioni pubbliche.

ML: Qué interesante. Regresemos a Milán.
RS: Más adelante en otro viaje de regreso a México solicité una beca al gobierno italiano en base al trabajo que había realizado anteriormente, beca que se me concedió para estudiar escultura en la Academia de Bellas Artes de Brera en Milán, con el profesor Marchese, y con el apoyo de FONAPAS (institución que después sería el FONCA). Esta experiencia fue muy importante, no solo desde el punto de vista práctico, sino también conceptual, ya que se analizaba y se discutía cómo había evolucionado la escultura de Brancusi en adelante. Este profesor me hablaba también de artistas contemporáneos como Joseph Beuys y de dos movimientos artísticos que se estaban difundiendo en ese momento, me refiero al arte povera y a la transvanguardia, de los cuales estuve muy cerca ya que en ese entonces Milán era la capital europea del arte en cuanto innovación. Dos pensamientos antagónicos con orígenes distintos, incluso existía una rivalidad bastante pronunciada.
También el diseño y la arquitectura eran dos disciplinas igualmente vitales, que conformaban el ambiente de Milán del momento. Qué decir del Grupo Memphis, Alessandro Mendini, del que fui amigo, Ettore Sottsass, Mario Botta y el arquitecto y urbanista Adreas Kipar, uno de los más importantes en este momento en el mundo, con él que también he realizado proyectos. Kipar promueve una nueva movilidad lenta, articulándose como una serie de arterias verdes en el tejido urbano, con el objetivo de conectar en un sistema unitario espacios públicos peatonales y para el tránsito de bicicletas, parques urbanos y alamedas. Sin duda, alguien que sería interesante tener en la Ciudad de México. También Mimmo Paladino, representante del movimiento de la transvanguardia, estuvo en mi estudio en varias ocasiones e incluso trabajé para él. Evidentemente le interesaba mi trabajo, tanto que me ofreció montar un taller de grabado en su ciudad natal, Benevento, a unos 70 km de Nápoles. Fue una decisión difícil de tomar en lo personal. Al final no acepté, ya que quería seguir aprendiendo y desarrollando mi obra en el taller de Grafica Uno que finalmente significó para mí una especie de laboratorio y salón renacentista, donde investigábamos técnicas contemporáneas y donde existía –como he expresado– un flujo a nivel internacional de distintos artistas, filósofos, poetas, novelistas, que enriquecieron esta experiencia. También te puedo mencionar a Mario Merz al cual conocí en la ciudad de Prato, en la Toscana, gracias a una invitación que tuve del director y curador israelí del Centro para el Arte Contemporáneo Luigi Pecci, Amnon Barzel. Todos estos encuentros y viajes me nutren y me permiten de alguna manera confrontarme, no solo con lo que sucede en México, sino con lo que sucede a nivel internacional. Vivir en Italia me permitió visitar muchísimas exposiciones, bienales, ferias, que te dan una visión general de dónde estamos y hacia dónde vamos.
En una ocasión en la Ciudad de Nueva York, el curador Julián Sugazagoitia me pregunto cuándo había dejado México y le contesté: «nunca lo he dejado». Creo que tu país, tus raíces y tu educación te desarrollan como individuo y la vida te da los instrumentos para descubrir en ti aquello que desconoces. México definitivamente siempre ha estado cerca de mí y no solo desde el punto de vista artístico, sino del punto de vista de su música, su literatura y de su cultura en general. Igualmente viviendo en Italia tuve la oportunidad en el taller de Grafica Uno de ser editor de libros de arte y proponer proyectos de libros ilustrados. Precisamente de los 16 libros que he realizado los primeros dos han sido muy importantes, ya que el primero lo hice con el maestro Jorge Luis Borges y hoy en día pertenece a distintas colecciones públicas.