Come ti nutrirai?
È una domanda piuttosto complessa. Prima di tutto perché da artigiano sono un cuoco e capire come ci si nutrirà non è una risposta che dipende semplicemente da chi fa il prodotto. È il comportamento sociale che determina molto spesso le evoluzioni ed è una cosa imprescindibile dalle scelte soggettive di ogni artigiano, in quanto dettato da diverse dinamiche. La comunicazione è un grado di responsabilità molto importante su come ci si nutre a tavola, basta riportare un esempio molto banale: negli anni ’70 e ’80 l’intervento della grande distribuzione sul mercato della gastronomia ne ha determinato in modo piuttosto oggettivo e invasivo le dinamiche di scelta di alcuni prodotti. Sappiamo benissimo che il valore aggiunto di noi italiani era aver scoperto già il biologico nel ‘900: l’orto in casa lo facevamo già, i pomodori non subivano trattamenti chimici e siamo arrivati fino agli anni ’70 a mangiare in modo sano. In quegli anni, però, l’industria alimentare ha chiaramente preso il sopravvento e ci ha propinato la velocità e la facilità nel reperire ogni tipo di prodotto, ma allo stesso tempo non ci stavamo accorgendo che stavamo perdendo l’attaccamento alla terra, alle tradizioni e l’ancoraggio storico. Tutto questo ha determinato delle abitudini alimentari piuttosto sbagliate, basta ricordare che nei supermercati, oltre a trovare di tutto, sono disponibili anche dei surrogati di prodotti naturali che vengono trattati in modo industriale senza tenere conto di quanto possono essere deleteri per il nostro organismo.
Preferisco non fare nomi per non toccare in particolare nessuna realtà, ma non sono stati anni ai quali rivolgo il mio sguardo con particolare orgoglio e attenzione da italiano. Ma certo, i ritmi lavorativi, la grande espansione economica che c’era stata negli anni ’60 e ’70, il benessere che è arrivato un po’ in tutte le case italiane hanno portato questo. Lavoravano tutti, non c’era più tempo di cucinare in casa. I frigoriferi, al posto di riempirsi di cose buone, contenevano scatole di plastica, prodotti surgelati e con tracciabilità piuttosto dubbie. Quindi, da questo punto di vista, capire come ci si comporterà a tavola tra qualche anno è piuttosto difficile, non dipende semplicemente dai cuochi.
Personalmente ritengo che le piccole attività come la nostra hanno la possibilità di toccare più con mano certe realtà piccole di produzione che ci possono permettere di avere l’autenticità, l’identità e l’unicità di alcune micro-territorialità. Questo perché ci rivolgiamo a un pubblico molto ristretto, siamo un piccolo ristorante, facciamo 40 coperti, non abbiamo la necessità di dover somministrare 200 pasti al giorno. Quindi vado dall’ortolano, se ha 5 zucchine mi dà quelle 5 zucchine, prendo i pomodori e mi invento un piatto con questa verdura. La parte positiva è nell’unicità del prodotto, la parte più difficile è che rimani ancorato all’azienda in modo molto più necessario e stabile perché il principio di delega viene meno.
La comunicazione trovo che sia un aspetto fondamentale per capire come si mangerà tra qualche anno, perché chi racconta un prodotto ha la responsabilità di dare delle informazioni adeguate. I fattori che comporteranno il cambiamento a tavola sono moltissimi. Ad esempio gli artigiani dovranno essere più responsabili nello scovare le vere autenticità italiane. A questo proposito, penso che il post Covid-19 abbia fatto comprendere che cercare prodotti per la carta del ristorante proveniente dall’altra parte del mondo non è vantaggioso perché mette in moto dei dispendi di energia e delle situazioni piuttosto impattanti da un punto di vista del consumo di energia sulla natura. La responsabilità degli artigiani sarà sempre di più quella di cercare di valorizzare la reperibilità dei prodotti che impattano meno sull’essere umano. La necessità di ancorarsi alla storia, inoltre, è un aspetto che reputo fondamentale. Consideriamo che il bacino del Mediterraneo ha avuto il grandissimo vantaggio di avere una collocazione fortunata, dove la materia prima – per il microclima e per il contesto geografico – ha sempre regalato eccellenze che ci riconosce tutto il mondo. Il bisogno di ancorarsi alla storia è anche dovuto anche al fatto che alcune abitudini alimentari dei romani – citate da Marco Gavio Apicio e Archestrato di Gela – sono ancora attuali oggi.
L’ascolto responsabile della clientela trovo che sia un altro aspetto fondamentale. Avere a tavola un ospite non significa semplicemente prendersi cura di lui con la nostra proposta, perché sarebbe altrimenti un’offerta nata senza ascoltare quali sono le reali esigenze del pubblico (che sono sempre più attente e precise, perché la comunicazione negli ultimi anni sta dando delle informazioni sempre più dettagliate). Allo stesso tempo viviamo alcuni svantaggi dell’eccesso di comunicazione, che crea una sorta di ‘bulimia’ della necessità di fare proposte continuamente aggiornate e sorprendenti.
Molto spesso si parla di memoria gustativa: ciò che resta nel tempo viene determinato da una reale e oggettiva situazione di equilibrio di gusti che in un dato periodo danno la possibilità di sollecitarne uno.
Gli aspetti sono condizionati da diversi fattori: artigiani, comunicazione e ascolto responsabile, approfondimento accademico e necessità di ancorarsi alla storia. Per contrasto abbiamo poi l’aspetto ‘gola’, un fenomeno che viene determinato dal sociale; ci si abitua a determinare ciò che è buono per un comportamento collettivo. Ad esempio, se negli anni ’70 dicevano che andava di moda mangiare il salmone non è che tutti ritenevano che questo pesce fosse buono, ma è la comunicazione che a volte lo determina. Questo sicuramente è un aspetto che va a contrasto con quello che ho detto, perché l’aspetto gola è soggettivo. Questa soggettività è tra le cose più difficili da cambiare nel tempo: ciò che piace a uno oggi è probabile che non piaccia ad altri tra 50 anni.
Un pensiero va anche ai più piccoli: quando guardo i bambini mangiare a tavola mi chiedo perché abbiano un atteggiamento negativo che li porta a cercare dei cibi estremamente carichi in gusto, ma in modo forse poco adeguato. Questo aspetto mi dà qualche titubanza nel capire se la comunicazione e l’artigiano stanno facendo il lavoro giusto, perché i giovani sono il futuro cliente che avremo a tavola.
Dovremmo sempre dare importanza al momento della tavola come negli anni ’70, un frangente molto italiano in cui la famiglia si riunisce e dialoga. Non è scontato: in molti paesi si mangia davanti alla televisione, in piedi, o in fretta, perché non c’è il rito di sedersi e riunirsi a tavola. Oggi, inoltre, vedo spesso bambini che oltre a mangiare in modo disordinato si siedono a tavola con degli strumenti tecnologici che disturbano il momento del pasto e la comunicazione tra i presenti. Capisco che per i genitori, avendo ritmi molto difficili, l’unico modo per essere più tranquilli è dare lo strumento tecnologico ai bambini, ma non è questa la soluzione.
È un momento in cui il sovraccarico di comunicazione intorno alla gastronomia si è sentito. I cuochi paradossalmente sono diventati talmente interessanti dal punto di vista della visibilità che a volte questo può essere un elemento disturbante, in quanto distoglie l’attenzione da ciò che oggettivamente si dovrebbe fare, cioè cercare di somministrare un cibo sano e una proposta artigianale. L’identità italiana ha la caratteristica di avere nella microterritorialità il grande vantaggio di un popolo che è stato frammentato fino alla costituzione della prima repubblica. La microterritorialità e lo spostamento del gusto che possiamo percepire in 10 km di distanza lo vedo come un grande punto di forza. Questo è stato dovuto alla frammentazione dell’Italia in tutti questi anni.
Quindi in termini di responsabilità da parte del cuoco ritengo che sia doveroso cercare di comprendere perché cuciniamo certe cose allo stesso modo da diversi anni e capire perché certi gusti si sono ancorati nel territorio. Da qui cercare di dare un’evoluzione sana alle abitudini alimentari che avevamo prima, quindi l’utilizzo di meno grassi, di cotture meno invasive, di una materia prima che non sia stata ‘pompata’ nella produzione per arrivare sul mercato più velocemente.
L’eccessiva comunicazione ha inoltre reso spettacolare questo lavoro. Spesso leggo, purtroppo, che la vanità ha il sopravvento sul gusto, quindi si parla di più del professionista piuttosto che, ad esempio, di eccellenti zucchine, peperoni o melanzane. Io cerco di stare un po’ fuori dalla spettacolarizzazione fine a se stessa, ma comunque la televisione ha messo in luce un lavoro che prima era guardato con molto meno interesse. In TV negli ultimi anni si è parlato molto di cucina e di gastronomia quindi paradossalmente i cuochi sono diventati quasi delle star; penso che questo sarà un aspetto che nel tempo verrà ridimensionato a un equilibrio più naturale. Non è un aspetto che guardo con interesse perché visiono pochissimo la televisione e non seguo molto i social, in quanto non ritengo siano dei canali di comunicazione che danno informazioni adeguate.
Va citato anche Brillat-Savarin, grande politico gastronomico francese, che nel suo libro Fisiologia del gusto scrisse “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”. Nella frase di questo testo di circa 300 anni fa c’è moltissimo: la cultura di un popolo, l’ancoraggio storico di cui ho parlato prima, la cultura del sociale. E io penso che la cultura di un popolo la si determini anche a tavola.
Personalmente cerco di utilizzare in modo responsabile la materia prima di cui conosco la provenienza: il gusto deve arrivare dai produttori che hanno lavorato con un senso di responsabilità molto importante. Il piccolo artigiano si può adoperare per cercare di fare del ‘buono fatto bene’, invece i brand possono essere pericolosi, perché la standardizzazione di un gusto significa necessità di avere la stessa materia prima spalmata su moltissimi coperti facendo disperdere l’autenticità di pochissimi prodotti.
I fattori determinanti sono quindi molteplici: la comunicazione, la responsabilità dell’artigiano e dell’ospite, che deve avere capacità di ascolto. Trovo che la moderazione a tavola sia fondamentale.
Io personalmente cerco di finire un pasto con un po’ di appetito. Questo mi permette di godere del cibo con un po’ più di attenzione: con calma ascolto quello che sto mangiando e non esercito il piacere egoistico della gola in modo non misurato, ma anzi rispetto l’organismo che ha la possibilità di assorbire le calorie in un certo modo.
Penso che la responsabilità sia di tutti noi e in tutti questi aspetti che ho citato: un po’ più di silenzio, di ascolto, di moderazione, cercare di capire da dove nasciamo, da dove veniamo servono a ricondurci alla frase che citavo in precedenza: dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei.