Las Terrazas è un esperimento unico a Cuba; una comunità fortemente autonoma, mille persone, nelle montagne di Artemisa, dove Osmany Cienfuegos, revolucionario, amico del Che, fratello del famoso e amatissimo Cienfuegos, architetto, ex ministro delle costruzioni e stretto collaboratore di Fidel, ha realizzato dal 68, qualcosa di insieme meraviglioso e contradditorio, di illuminato e nello stesso tempo in qualche modo impositivo. Ha 86 anni, ora, dice che deve assolutamente scrivere il suo pensiero, Omar Gonzales che ci ha portati da lui è pronto a raccogliere le sue memorie, ma Osmany dice che non vuole una biografia, piuttosto un’intervista; solo che le domande le fa lui, quelle che nessuno gli ha fatto mai. Indica dei fogli dattiloscritti sul tavolino ingombro di libri e ogni sorta di cose, ci sono alcune righe come Isgrò. Che cosa raccontano quelle carte? Osmany parla del Congo, dove andò con Fidel, e dell’Angola, del suo lavoro come ministro. La voce nasale sembra uscirgli da un imbuto di latta. Mischi spiragli di storia con la prosa dei programmi di sviluppo sostenibile fondati sul turismo, avviati nel 1994, dopo che la Russia abbandona Cuba ad affrontare da sola il bloqueo, in una morsa strangolante, il periodo special. Qui a Las Terrazzas già dal 1968 si era iniziato un incredibile programma di riforestazione, piantati 6 milioni di alberi, con la tecnica dei terrazzamenti per resistere all’erosione del suolo; ma soprattutto il progetto prevedeva il sostentamento della comunità di campensinos locali, che vivevano del taglio controllato del bosco. Con lo sviluppo del pionieristico programma turistico del 94, l’economia si è progressivamente spostata su questo fonte: oggi il 62% della comunità di Las Terrazzas vive di turismo e il 30% dei servizi per la comunità stessa, scuole, sanità ecc…
Allora Osmany ci racconta il suo sogno, in parte realizzato, in parte rilanciato ora con nuove iniziative. Chiede a dio 5 mesi, ma coltiva progetti e una visione per anni a venire. Dice che bisogna spingere la storia, tende le braccia magre e apre le dita dalla pelle rugosa. Michelangelo siede vicino a lui e lo fa parlare, interrompendo una o due volte, con domande precise. Osmany ha il pubblico per il suo teatro, non è la prima volta. Racconta di come fossero le condizioni di vita dei campesinos, ora hanno l’acqua e l’elettricità, lavoro e servizi. Eppure chiedono di più. Chiedono cose che non hanno a che vedere con questa realtà. Qualcosa arriva, penetra fino a qui, dall’esterno, dal sistema imperialistico e consumistico. Questo non dà pace a Osmany.
Dopo più di un’ora (ma Fidel parlava per ore e ore, quanti aneddoti di invitati svenuti girano qui) Osmany fa capire che è soddisfatto, e ci chiede se vogliamo fargli delle domande. Michelangelo dice che la sua idea è che questo progetto di autonomie locali si estenda a tutta Cuba, Osmany racconta che Fidel gli chiedeva questo, ma lui gli disse, mette le mani a formare una T, time comandante, prima facciamo funzionare questo esperimento. Dice, venite, vi faccio vedere una cosa, si alza senza fatica dalla poltrona bassa e ci spostiamo di qualche metro, siamo nella stessa grande stanza che forma il piano terra di questa casa da lui stesso progettata, al fondo c’è una scala che porta al soppalco del piano sopra, esteso per mezza ampiezza della pianta. Ci sono 6 manifesti appesi al muro, ingrandimenti di prime pagine di quotidiani cubani. La revoluciòn, la riforma agraria, la riforma della casa. Legge le date dei quotidiani, avvicinandosi ai poster quasi toccandoli con la punta del naso. Certo che ci sono stati degli errori, dice, ma in meno di due anni, dice, quello che in nessuna parte del mondo si è fatto mai. Michelangelo chiede a Omar se ha raccontato a Osmany perché siamo qui, del Forum (el foro) e tutto. Omar lo rassicura e Osmany, assentendo, chiede che cosa possiamo fare qui, come attività o azione collegata al Forum.
Vediamo insieme, visitiamo il posto, dice Michelangelo. Maria menziona il Cantiere. Poi usciamo, facciamo le fotografie di prammatica, ci si saluta con abbracci. Visitiamo Las Terrazzas. Omar mi chiede che cosa si può fare insieme lì. Gli parlo dei tavoli tematici del cantiere, e qui i temi ci sono: l’agricoltura e il turismo sostenibili, tanto per cominciare. Quindi vediamo l’hotel, disegnato da Osmany stesso, alberi integrati nel complesso, la hall aperta sul bosco, quasi Mies van de Rohe. L’architetto Osmany aveva talento e coraggio. Penso all’archivio di fotografie fatte da lui stesso che ci ha mostrato, di Fidel e del Che ce ne sono decine, forse mai pubblicate: sono attaccate a collage sulle facce di un mobile, forse una cassettiera, archiviate ed esposte con un solo gesto. Omar ci spiega che questo albergo è il cuore finanziario del progetto Las Terrazzas, che si auto-sostiene con i proventi dell’industria turistica. Da dove vengono i turisti? Canada e Europa, soprattutto. I prezzi sono al livello di quelli occidentali, troppo alti per i cubani. C’è qualcosa di beffardo nella contraddizione di un esperimento di sviluppo sostenibile sostenuto dal sistema capitalistico, lo stesso la cui penetrazione inesorabile nell’immaginario collettivo di questa comunità, secondo Osmany, è il problema principale, un problema culturale. È questa la strategia per Cuba nella transizione? È governabile?
Arriviamo alle case della comunità, qualcosa di olivettiano aleggia nell’aria; sono disposte grossomodo ad anfiteatro sulle colline davanti al lago dove giocano ragazzini, il turismo qui vuol dire natura e giochi all’aperto, cavalli, canoe, la canopy, teleferica adrenalica. Vengono da tutto il mondo, canadesi ed europei in gran parte. Prima di andare via, passiamo dal tugurio, come lo chiama Osmany, un complesso di quattro case unite da una corte, bianche con le persiane rosse o blu. Sarà energeticamente autonomo, diceva Osmany. Ora non è ancora finito, ma sembra già vecchio, colature sugli intonaci, sbrecciature, sembra abbandonato. Respiro questa sensazione di un ostinato sogno sul futuro, quanto è pesante da spingere la storia. Quando Osmany ci aveva salutato sulla porta di casa, sono tornato verso di lui, era girato di schiena, gli ho detto, la lucha continua, senza voltarsi ha ripetuto quelle parole, poi mi ha guardato, mi ha visto, credo non abbia saputo decidere se la mia fosse una domanda, un commento, una speranza, un’affettuosa ironia sulla vita degli uomini. Io nemmeno.