“Il progresso ha ammassato una tale quantità di avanguardia nella prospettiva del futuro che io vedo per essa più spazio nel passato”.
Due elementi essenziali hanno caratterizzato l’avanguardia artistica della prima metà del secolo: uno è la netta rottura con la cultura tradizionale, in parallelo col progresso scientifico e con l’avvento delle tecniche industriali; l’altro è la spinta verso un futuro tutto assorbito nella luce del flusso tecnologico.
Ma non è stata soltanto l’enfatizzazione del progresso la meta dell’arte moderna, essa è arrivata fino all’autonegazione proprio per provocare competitivamente il colosso meccanico in espansione. Bisogna dire che l’arte ha tenuto bene il passo, facendosi coinvolgere e, alternativamente, sottraendosi al risucchio industriale. Ma ora il vortice non tira più come prima, molti miti hanno fatto il loro tempo e la storia sta cambiando.
Secondo me la crisi del movimento moderno dell’avanguardia riguarda esclusivamente quella corsa che si è identificata in Occidente con una serie di fasi culminanti nel più spietato consumismo alla fine degli anni cinquanta e riassunto nell’apoteosi della pop-art all’inizio degli anni sessanta.
Ora mi si domanda come posiziono il mio lavoro nel senso del tempo e della storia. È negli stessi anni che io arrivo ad usare proprio i mezzi più avanzati, offerti dall’industria e dal progresso tecnico, per mettere l’uomo letteralmente davanti a sé stesso, per mettere l’arte davanti a sé stessa, così pure la storia e la vita, e, al di là dell’enfasi sui prodotti e le immagini di consumo, comincio a guardare nello specchio lo spazio che sta dietro alle mie spalle. E comincio a guardare il tempo che nell’opera specchiante fluisce libero. Infatti, le mie azioni successive si spingono all’indietro, nello spazio vivo e nella dinamica di un tempo non più determinato dalla corsa in avanti. Il progresso ha ammassato una tale quantità di avanguardia nella prospettiva del futuro che vedo per essa più spazio nel passato.
La mia scelta di azioni libere dalla mercificabilità dello stile personale, la scelta di materiali poveri, scartati dalla logica del consumismo, per esprimere una immaginazione semplice e diretta sono stati i miei primi passi indietro.
Con lo Zoo ho sperimentato quella creatività corale e collettiva che si avvicina di più ai rituali delle tribù che non alla moderna separatezza specialistica.
Se volgersi in questo senso è fare dietro-front io dico che dopo un po’ di strada ci accorgeremo di andare in avanti.
Le stesse forze economico-industriali che ci hanno portati fin qui stanno guardandosi intorno, stanno facendo i conti con le strutture sociali e le diverse soluzioni politiche che dividono il mondo sia ideologicamente che fisicamente (senza però offrire più la certezza di sistemi infallibili).
Per me i motivi che dovrebbero far coincidere i grandi interessi sociali con quelli dell’arte sono due: primo, il numero sempre maggiore di giovani che rivelano l’esigenza d’impiegare più creativamente il proprio tempo, appena raggiunto un benessere economico essenziale; secondo, la riduzione dello spazio fisico e del tempo indispensabili al sostentamento comune, che, se equamente ripartiti, possono lasciare sempre più libero l’individuo.
Io, come artista, credo all’impiego creativo del tempo, ma anche quei lavoratori che prima concepivano la propria sicurezza esclusivamente nel lavoro pieno, nella mutua e nella pensione, capiscono ora che non si può cominciare a gestirsi creativamente all’età di 65 anni.
Mi pare che un nuovo spazio più vasto sia prevedibile per l’arte e anche una sua sempre più riconosciuta utilità. Così credo che quella che noi chiamavamo avanguardia, dandole un senso competitivo rispetto alla dinamica progressiva delle scoperte scientifiche, potrà estendersi in un sistema di espletazione della creatività individuale e corale, ovunque le esigenze della società scopriranno lo spazio in cui l’arte è immanente.