Il mio lavoro è riconosciuto in gran parte per l’uso dello specchio. I riferimenti che vengono fatti più frequentemente rispetto ai miei Quadri specchianti sono quelli del mito di Narciso e de Il grande vetro di Duchamp. Vorrei parlare di questi due riferimenti, di cui uno è più distante perché ci riporta ad un passato ancestrale, e l’altro è più vicino perché legato al passato recente.
Narciso annega buttandosi nello specchio d’acqua di uno stagno nell’atto di raggiungere la sua immagine riflessa, di cui si è perdutamente innamorato.
La leggenda di Narciso, pur mantenendo tutto il suo fascino, rappresenta per me soltanto un dato preistorico. Io credo che la prima esperienza intellettuale dell’uomo sia stata il riconoscere la propria immagine nello specchio (d’acqua), ma non credo che questa esperienza debba essere rappresentata dal mito di Narciso: non credo che l’inizio della nostra storia possa essere identificato col gesto passionale, istintivo e irrazionale dell’uomo che sacrifica la sua vita alla propria immagine. Questo mito rappresenta un uomo ancora guidato esclusivamente dall’istintualità.
Credo invece che si debba trovare l’inizio della storia risalendo al momento in cui l’uomo riconosce la propria immagine nello specchio come immagine di sé staccata da sé, come doppio, come rappresentazione di sé, cioè come segno rappresentativo di sé stesso. Quello è il momento in cui si rivela il fenomeno della razionalità.
La razionalità, ponendosi fra l’uomo e la sua immagine, dà all’uomo la propria autonomia e la capacità di far uso di quell’immagine. La razionalità si pone anche, e questo è determinante, tra l’uomo e l’irruenza primitiva del suo istinto, ancora incapace (come Narciso) di tradurre in forma espressiva il suo desiderio.
La razionalità permette all’uomo di tradurre in forma concreta l’immagine del proprio desiderio senza annegare in essa.
Dunque lo scatto mentale che produce la distinzione tra il soggetto e la sua duplicazione determina la condizione razionale che permette di trasformare l’istinto, la passionalità, l’impulso, il sentimento e l’immaginazione in creatività.
Si producono cosi i segni espressivi e comunicativi che formano l’arte e su cui si articolano i moduli evolutivi della civiltà.
Nel progredire della storia, l’arte continua ad intrecciare questo duplice filo della ragione e del sentimento realizzando l’ordito di base del tessuto sociale che s’infittisce e prende consistenza nell’uso comune di una sempre più complessa intelligenza.
Ma contemporaneamente l’arte emerge sempre sulla superficie della trama sociale per l’eccezionalità, per la singolarità dell’espressione individuale, mentre la dimensione dell’organizzazione comune ristagna nella più vasta piattaforma della razionalità.
Non esiste però la possibilità che l’espressione artistica possa emergere senza posarsi su quella base razionale, perché altrimenti l’impulso ricadrebbe nell’irruenza inconsulta e animalesca che sta sotto al livello della civiltà.
L’artista tuttavia non si distacca, non si allontana mai completamente dalla complessa rete che fa da supporto strutturale all’intera società (l’artista non è Narciso e nemmeno Pindaro), egli si esprime liberamente pur mantenendo concentrati in sé tutti gli elementi che formando la civiltà, sono sempre stati il supporto e il mezzo della sua espressione.
Perciò l’artista enuclea nell’atto creativo, anche senza renderlo evidente, l’intera condizione umana e sociale.
All’inizio del nostro secolo l’arte ha cominciato a fare i conti con le proporzioni che il prodotto dell’intelligenza aveva raggiunto. L’artista ha visto la monumentalità delle realizzazioni tecnologiche come un prodotto definitivo, come il punto d’arrivo raggiunto di una prospettiva antica, come la concretizzazione avvenuta di un sogno comune.
L’artista ha visto nella configurazione della civiltà contemporanea un’enorme massa omogenea, una mole che rappresentava la crescita automatica del meccanismo razionalistico. E qui entra nel discorso Il grande vetro di Marcel Duchamp, che lascia l’uomo di fronte a questo mondo già realizzato come davanti ad una vetrina al di là della quale è esposto, così come lo si è trovato, il gigantesco monumento della realizzazione tecnologica, il mondo, tale e quale è, dell’umanità formicolante in un continuo status quo.
Uno schermo trasparente che arresta il processo immaginativo davanti all’impossibilità di produrre ulteriori segni nella direzione tracciata dal progresso. Ultima traccia dell’arte a confine di un mondo tutto assorbito nella sua stessa natura, regolato ormai dall’istinto sovrano dell’automaticità.
Due operai, 1974.
Foto da catalogo della mostra Spiegelbilder, Hannover, 1982.
L’impossibilità di produrre un’ulteriore distinzione tra il soggetto e l’immagine, cioè di configurare una qualsiasi distanza, una diversa direzione di pensiero tra sé al di qua del vetro e sé al di là del vetro, ricrea quello stato di annegamento narcisistico che si identifica con la morte dell’arte.
Così io vedo il mito di Narciso e Il grande vetro come connotazioni limite di due diverse preistorie.
II mio lavoro inizia negli anni Cinquanta, nel clima di alienazione e di angoscia esistenziale, di malessere culturale della società tutta proiettata nel benessere materiale.
La mia ricerca in quegli anni era quella di un principio vitale per lo spirito, di una rivelazione fondamentale, di un’energia nuova, di un segno indicatore verso nuove direzioni da opporre alla chiusura della vecchia prospettiva. Cercavo di superare la barriera della mole tecnologica senza ricadere in espressioni di drammaticità impulsiva. Nel 1961, la prima tela specchiante.
La figura dipinta si stacca dal fondo diventando autonoma, mentre il fondo specchiante accoglie l’immagine dello spettatore e lo spazio che gli sta alle spalle. Nasce un rapporto di triplicazione del soggetto: io spettatore, io sulla superficie, io nel riflesso, e nasce un intreccio di relazioni tra tutti gli altri elementi, richiamato in causa dalla fenomenologia attiva del quadro.
Tutti i termini opposti fra loro, tutte le antinomie precipitano sul quadro a un solo elemento; è la concentrazione di un cosmo che riunisce il fisico al mentale, il reale all’irreale, il vero al falso, il materiale all’immateriale, l’immobilità al movimento, l’opacità alla trasparenza, l’assoluto al relativo, il massimo spazio al minimo spazio, il tempo intero all’istante, eccetera eccetera.
Questo fluire dell’esistente come tensione e liberazione dei poli opposti è provocato dal rapporto tra l’apparente omogeneità della rappresentazione e la contraddizione tra gli elementi rappresentativi, che sono: la staticità delle figure dipinte a confronto con la mobilita delle figure riflesse, l’opacità delle une a confronto con la lucidità delle altre, la piattezza del dipinto a confronto con la profondità del rispecchiamento e cosi via.
La compenetrazione di questi diversi elementi dà anche origine ai segni che indicano le direzioni nello spazio.
Infatti mentre io guardo lo specchio vedo la mia immagine guardare verso di me e verso lo spazio che sta alle mie spalle, le nostre direzioni sono opposte e si indicano a vicenda; la distanza che sta tra me, la mia immagine dipinta e il mio rispecchiamento, è uno spazio che può crescere o diminuire a volontà. La figura dipinta è il cardine di una rotazione mentale e fisica che indica tutte le direzioni; infatti io stesso facendo dietro-front e allontanandomi dallo specchio so che la mia immagine entra contemporaneamente nella profondità dello specchio superando ogni barriera prospettica.
La penetrazione nella vita come espressione passionale del desiderio è contenuta nello specchio così come la penetrazione nella fredda lucidità dello specchio è contenuta nella razionalità del pensiero che sorregge l’avventura creativa della vita. Lo specchio rimane per me il punto di riferimento su cui l’arte ritrova la sua radice per ridiventare ragione di vita.
Ritengo che il concetto di radicalità dell’arte sia profondamente legato alla natura dello specchio, anche perché con esso condivide un’identità sul piano dell’intima spiritualità dell’uomo. E questo ho cercato di rendere evidente, con il mio lavoro. Noi possiamo duplicare ogni cosa nel riflesso dello specchio mentre non possiamo duplicare lo specchio. Se vogliamo dare allo specchio il suo doppio dobbiamo dividerlo in due parti, allora una parte riflettendosi nell’altra potrà creare una moltiplicazione dello specchio all’infinito. Così nella divisione dell’unita, dell’unicità rappresentata dallo specchio, abbiamo il principio della moltiplicazione. Nel lavoro Divisione e moltiplicazione dello specchio fatto tra il 1975 e il 1978 ho individuato (per analogia speculare) il parallelo tra la divisione dell’unita dello specchio e la divisione dell’unita della materia che dà come risultato la moltiplicazione dello specchio da una parte e la procreazione biologica dall’altra. II principio di divisione dell’unicità rappresentato dall’unita specchiante si identifica con il processo di suddivisione dell’unita fisica della materia nella molteplicità dei corpi oggettivamente esistenti.
Questa concezione si offre alle nostre richieste spirituali porgendo un concetto totalizzante dell’arte a fronte dell’esistenza. È un’operazione che trasforma la concettualità dell’arte nella spiritualità dell’arte, ponendo la dimensione mentale della creazione artistica nello stesso nucleo da cui si sprigiona la materia e la medesima procreazione umana.
E questo nucleo è il punto che concentra la proiezione del pensiero comune, come domanda sull’esistenza; domanda che si trasforma in fede nel mezzo che offre una risposta.
La ritrovata radice dell’arte ristabilisce quella differenza, tanto originaria quanto durevole rispetto al culto della spiritualità proposto e perpetuate dalla fede religiosa, perché l’arte apre la mente all’attività creativa e fa da riscontro alla meravigliosa forza dell’esistente con la stessa meravigliosa forza dell’espressione. Così per me lo specchio è il mezzo che riporta l’arte alla sua fede, la quale ridà tutta la sua forza all’espressione creativa.
Nel mio lavoro cerco di manifestare in ogni modo e con ogni forma la straordinaria rappresentazione dell’essere, senza lasciare che si intorbidisca l’acqua limpida dello stagno (cioè lo specchio) da cui sorge l’energia immaginativa che, nella sua eccezionalità, è più di ogni altra cosa aderente alla straordinaria proprietà della natura.
Lo specchio posto al centro della grande mano, nel mio più recente lavoro, prende la forma delle linee della vita e si presenta come uno stigma, una ferita che non si può chiudere; un punto di riferimento che non si deve coprire. In questo senso palesemente, l’arte riassume anche le simbologie religiose, per attraversarne la crosta e riportare il concetto comune alla diversa origine della spiritualità.