Cartografia dell’immaginario
Anche se potessimo essere altro, se cioè sospettassimo l’esistenza di una dimensione naturale, che potrebbe essere la nostra, in cui avremmo potere e conoscenza illimitati, non potremmo rinunciare a questa nostra vita umana. O meglio non riusciamo a concepire veramente una forma di intelligenza superiore perché non troviamo nemmeno un motivo valido per sottovalutare questa nostra forma di vita.
Il nostro limite è anche illimitato per la proiezione del concreto nello spazio e nel tempo intesi come frazioni dell’immaginazione. Dunque siamo dimensionati da questo confronto costante tra il finito, il concluso di ogni passo e lo sguardo che lo precede e lo segue dando al presente l’immagine del suo essere sempre altrimenti e altrove.
L’immaginazione porta la realtà oltre l’ignoto riflettendo la realtà stessa in avanti e indietro, come tra due specchi che le ridanno sempre e comunque la sua immagine, mai il nulla. Lo specchio sostituisce l’ignoto e il nulla. È la frontiera che si sposta intorno a noi per dar luogo allo spazio fisico, togliendo ogni limite al reale pur comprendendolo nella nostra immaginazione.
Lo specchio restituendoci la realtà ci dà la conoscenza e quindi quel potere illimitato che non ci serve di immaginare oltre le nostre facoltà.
La mia presenza nella mostra Il disegno del Mondo si colloca più fuori che dentro, o per meglio dire al confine della realizzazione fisica di questo disegno: prima, dopo e intorno alla mostra, dove lo specchio rende più puntualmente la sua significanza. Qui il mio lavoro si sottrae all’oggettualità formale e alla definizione concreta dell’espressione, così come è diventato specchio attraverso il lungo processo di trasformazione condotto alla fine degli anni Cinquanta. In questa circostanza il lavoro si pone di fronte allo svolgimento della mostra come i “quadri specchianti” si ponevano davanti alla realtà oggettiva della vita.
Lo specchio è la soglia di entrata e di uscita della mostra. Da una parte apre la strada alle orme del tempo passato e dall’altra raccoglie i passi compiuti proiettandoli nella dimensione immaginativa che è già destino del futuro percorso.
All’inizio della mostra, prima di entrare nella storia, c’è il labirinto vegetale. In esso ogni strada porta ad una piazzuola dove si incontrano sempre almeno due sentieri per uscirne e in ogni piazzuola c’è uno specchio. Lo specchio non ha funzione illusoria, ma semplicemente sta lì tra due possibilità di scelta. Lo specchio rimane elemento immobile, disposto ad accogliere il movimento di chi va o viene, come assoluto a confronto della relatività di ogni accadimento.
Il labirinto contiene in sé l’idea costante della soglia: il pensare e l’agire sono in funzione del raggiungimento di un varco d’uscita. Nel labirinto c’è lo spaesamento, lo smarrimento, la paura ma anche il discernimento, la volontà, il controllo del pensiero. Lo specchio, nel labirinto, lo si incontra come schermo di mediazione mentale tra i contrastanti poli che sono la paura e la sicurezza, lo smarrimento e il ritrovamento, il dubbio e la certezza, la strada chiusa e la via aperta ecc. Lo specchio si apposta ad ogni bivio come frizione tra il concreto e l’immaginario, provocatore di energia tra il pensare e il fare, filtro dell’esistenza banale, catalizzatore assorbente della realtà nella sua inevitabile ri-uscita. Uscire dal labirinto vuol dire in un certo senso ritrovare la strada da dove si è venuti.
Alla fine della mostra, prima di ri-immetterci nel quotidiano, ritroviamo lo specchio che raccoglie le immagini appena lasciate alle nostre spalle, indicandoci in avanti la strada da cui siamo venuti. I due specchi, all’inizio e al termine della mostra, diventano uno solo ribaltando la fine nel principio e il principio alla fine. Rappresentano cioè un solo fenomeno, inteso come membrana dell’incorporeo, identico al fisico, che avvolge il reale in ogni senso, attivandosi in ogni istante e in ogni particella organica della materia.
Forse in altri tempi la mostra del disegno del mondo si sarebbe chiusa con una traduzione iconografica del concetto di Dio. In tempi più recenti sarebbe terminata con la presentazione delle ricerche scientifiche più avanzate. All’esito di questa mostra, c’è un lavoro d’arte che è una superficie specchiante.
Nel momento di massima intensificazione evolutiva e progressiva della civiltà occidentale saltano le certezze, si separano le discipline, si sovvertono i costumi sociali in dipendenza della tecnologia e dell’economia; si dissolvono i riferimenti del comportamento e le leggi del vivere comune entrano in crisi fin nel privato della struttura familiare e della coscienza individuale.
All’inizio di questo secolo l’arte rinunciava, anticipando la distinzione dei ruoli, alla rappresentazione del pensiero comune. Ma essa non poteva sottrarsi alle implicazioni, sempre più complesse, che l’uomo-artista continuava ad avere con la vita.
Alla metà del secolo l’arte doveva tornare a fare i conti con la condizione esistenziale dell’artista; questa riguardava l’individuo nel suo essere inevitabilmente parte del mondo. Dunque l’arte ha dovuto utilizzare i suoi specifici mezzi concettuali per assommare tutti i fattori separati che questa civiltà aveva posto al suo proprio vertice.
L’arte si è riappropriata del fatto comune in maniera estrema raccogliendo in un solo fenomeno l’intera gamma delle nozioni acquisite dalla cultura. L’iconografia e la rappresentazione sono riapparse letteralmente, cioè direttamente nel quadro come rispecchiamento immediato di se stesse. Il pigmento pittorico si è trasformato in superficie specchiante facendo precipitare nel quadro l’immagine del mondo per lasciare che in essa affiorasse la sua propria definizione.
La visione automatica del reale nella mobilità e mutazione continua del divenire, concentrata nello spazio del quadro, estende illimitatamente la concezione dell’esistenza raggruppandola contemporaneamente in nozione unitaria.
Se la prima parte del secolo aveva reso la pittura alla piattezza della superficie, come un muro invalicabile oltre allo sviluppo ormai automatico dell’intelligenza scientifica e tecnologica, lo specchio che viene dall’arte apre un varco in quel muro. La pittura, diventata specchiante, riporta all’arte tutta la profondità dello spazio, persino la prospettiva, visibile ormai come distanza di tempo fra le cose. Si chiude il problema di andare avanti, anche come fatto esistenziale, perché avanti o indietro non è più determinante. Lo spazio è diventato organico in tutti i sensi; la precarietà di ogni momento, nella mobilità continua, diventa la certezza di una vasta possibilità di movimento. Forse lo specchio più che essere una via d’uscita dal labirinto ne abbatte i muri, perché porta in alto e lontano lo sguardo pur lasciandoci a terra nella complessa vicenda del vivere insieme. Lo specchio ci dispone verso il futuro anche come compenetrazione nel passato, riportandoci davanti agli occhi ciò che sta alle nostre spalle. Vivere insieme, vivere col passato vuol dire che trovare lo spazio non è più soltanto spingere i limiti oltre l’ignoto ma ritrovare la vita dove già c’è vita, cioè ovunque.