Sono sei cose nate tra gli ultimi giorni del 1965 e i primi giorni del 1966 e che hanno formato, con altre, quella mostra degli Oggetti in meno, nel mio studio, protratta fino alla primavera dello stesso anno.
Quella mostra era un seme buttato nel terreno appena arato di Torino.
Zappato dall’autonomia creativa, bene in vista sull’internazionalità culturale.
La mostra ha dato buoni frutti a chi l’ha capita bene e ha dato cattivi frutti a chi l’ha capita male. Ma soprattutto è stata un atto preciso di espressione poetica tanto quanto politica (non parlo di partiti o ideologie). Si sono chiuse le porte al flusso divino del potere consumistico e si sono aperte invece all’opposta pressione della semplice creatività personale e all’immaginazione diversificata nelle esigenze e nelle condizioni.
Si è dichiarata la rinuncia al linguaggio unico come all’unicità di mediazione del denaro. Si è dichiarata la preferenza per il disagio di un continuo cambiamento di posizione rispetto alla comodità rilassata dell’alienazione.
Si è dichiarato il potere della dispersione periferica in luoghi e momenti diversi, a sfavore della concentrazione monopolistica e mafiosa.
Nella mostra che ho fatto ora a Berlino ci sono alcuni altri Oggetti in meno. Ho chiamato la mostra Dispersione poiché si presenta come una retrospettiva sparsa in quattordici luoghi diversi della città. Non serve fare cose nuove quando basta spostare quelle vecchie per fare qualcosa di nuovo.
Ma qui non si tratta nemmeno di fare qualcosa di nuovo, qui si tratta di confermare il vecchio che è più che mai nuovo (come si contraddice la logica di una mostra antologica? Con una mostra antilogica).
Dunque mi viene molto bene di dedicare a M. D., cioè al suo modo di disfare e ricomporre i suoni e i significati delle parole, una parte di quella retrospettiva. Come in cerchi concentrici e sconcentrici gli oggetti stanno ruotando. È in questo momento Bologna, al centro o alla periferia dell’opera?
Non tutto va detto subito. Così ho preferito dedicarmi a un taglio di capelli, nell’aula-magna dell’Università di Genova, anziché parlare in quella prima conferenza pubblica d’Arte povera. D’altra parte lo si fa proprio per stimolare l’immaginazione.
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