Di fronte alla gioia c’è il risentimento,
di fronte alla libertà c’è la prigione,
di fronte alla verità c’è il falso,
di fronte al futuro c’è il passato.
Di fronte allo specchio il passato si ribalta nel futuro, la strada chiusa in quella aperta, la falsa storia nella storia vera, il colore rugginoso dell’angoscia nell’azzurro della gioia.
Sulla grande piazza piovosa, tra i sassi grevi, dove si celebra la kermesse dello spaesamento, spunta il capo leggero di una figura non ancora formata; il punto azzurro di un essere che esce dalla terra porgendo la nuca al tempio che cela e cova il moderno conflitto dell’arte.
Così qui, adesso, accanto allo specchio, costretto nelle sbarre del costume di questo carnevale mondano ‘83 s‘affaccia il capo azzurro di un pesce o testuggine che si trascina fuori da una lunga coda di paglia. E si alza intanto, piatta e fragile, un’onda di bronzo che dissolve il metallo coagulato e congelato nel tempo del desiderio vivo che è una forma di moto trascendente. L’“Onda di bronzo” vicino alla “Rosa”, come arte, un tempo “bruciata” da un magico presentimento e ora “trafitta” nel cuore dal suo stesso stelo.
Arte per parlare, per esprimere, per capire, per lottare, per gioire.
Arte, il nostro gene.
Il nostro gene uscito dallo specchio, lo specchio che ha messo il sentimento di fronte alla ragione, il gene che ha creato la generazione, la generazione dell’arte.
Lo specchio che riporta sempre all’origine, all’origine del gene. Il gene che evolve e si tramanda nelle generazioni ed evolve nella ragione.
Il gene della ragione che trasforma l’essere pesante e costretto a una natura primitiva, l’animale senza equilibrio che si muove a quattro gambe nell’essere eretto, nella vita eretta dell’uomo.
Tornati all’origine, davanti allo specchio, ci troviamo ora circondati da un’arte che si muove a quattro gambe. Ci troviamo in mezzo alla giungla della vita inselvatichiti come quadrupedi goffi, come indefinibili pachidermi che si chiudono dentro a gusci preistorici, si aggrappano agli alberi e tentano modeste e faticose scalate su montarozzi di terra; e che hanno problemi fisici alle articolazioni, mentre cercano un equilibrio psichico.
Scaraventati ventre a terra dalla macchina potente del progresso, che non si arresta, dal robot dell’avanguardia che senza arrestarsi ha spaccato la vetrina sul mondo, i portatori del gene sono chiusi in gabbia.
È la prigione della giungla, la prigione dello stato antropomorfico a quattro gambe, della paura, della sopraffazione e della lotta estrema per la sopravvivenza.
L’arte, come l’essere, è ritornata nella gabbia della condizione primordiale.
Come all’inizio, ora c’è soltanto una cosa che il gene vuole per sé, per la sua sopravvivenza, ed è realmente trovare l’equilibrio per una vita eretta. Cioè che la parola sopravvivenza sia vivere sopra.
Michelangelo Pistoletto