La scienza e la tecnologia erano interessanti tanti anni fa quando producevano uno stupore, un’emozione. Ora qualsiasi cosa succeda in quel senso è scontata, è un’intelligenza che procede per conto suo, che si sviluppa ormai automaticamente.
Ho vissuto prima e dopo la conquista spaziale (l’uomo sulla luna). Mi ricordo che prima guardavo un paesino e sentivo qualcosa che mi tirava via il pensiero, verso l’alto. Dopo, vedendo lo stesso paesino, era come se lo vedessi venendo dall’alto, da fuori dal mondo.
Prima di fare i quadri specchianti guardavo all’arte con il problema di come andare avanti, dopo i quadri specchianti guardo indietro e vado avanti senza problema. Prima sentivo che c’era qualcosa in qualche posto che doveva venire fuori, ed era lo specchio (così come vedendo la pittura medioevale si capisce che allora gli artisti giravano intorno a qualcosa che c’era da qualche parte e che doveva venir fuori, ed era la prospettiva). Io sono arrivato ai quadri specchianti qualche anno prima di arrivare sulla luna. Queste cose succedevano negli anni Sessanta, e così adesso stiamo andando avanti guardando indietro o, se si preferisce, all’indietro guardando avanti. E la profezia dello specchio che si avvera. Così, vorrei dire questo: c’è una cosa nell’arte del passato che non ha niente a che fare con l’artigianato. Le sculture dell’isola di Pasqua non sono un lavoro artigiano, e nemmeno lo sono quelle di Michelangelo Buonarroti.
Nello stesso modo c’è ora una cosa nell’arte che non ha niente a che fare con la tecnologia o la scienza. Ma cosa c’era nell’arte antica di non definibile come produzione artigianale? La produzione della sacralità.
Comunque le grandi opere tenevano sempre lo sguardo o il pensiero rivolto verso l’alto. Infatti realizzazioni immense rimangono a testimoniare che tutti, facendole, aspettavano che qualcuno venisse a vederle dal cielo. E cosa c’è oggi nell’arte che è distinto dall’applicazione pratica delle leggi del progresso?
L’arte “concettuale” è stata la più alta sospensione laica di un antico sguardo “spirituale” verso l’alto. Ma a tale traguardo l’arte è giunta quando eravamo già di ritorno dalla luna. Ribaltati dalla cupola di specchio tornavamo capovolti a guardare, sulla crosta della terra, i grandi monumenti e i piccoli paesini. Voglio dire insomma che l’unica cosa che cambia nell’arte rispetto al passato è che adesso la sacralità si produce nel senso della discendenza anziché dell’ascendenza.
E alla parola “concettuale” sostituisco la parola “spirituale”, girata verso il passato col senso che non aveva nel passato, perché è cambiata la direzione. Per tornare alle statue giganti dell’isola di Pasqua e ai marmi di Michelangelo, voglio dire che hanno in comune un’anima della scultura che attraversa il tempo e lo spazio. Ed è quest’anima che ritrovo oggi con la scultura.
La controversia sull’interpretazione del termine scultura cade su questo punto. È una questione di anima e non anima, centro e non centro, pieno o vuoto, dio o non dio.
Non mi sono identificato con l’arte degli anni Settanta, mentre cercavo di ricostruire obiettivamente il centro di spiritualità dell’arte.
Così questa centralità vertebrale, questa colonna sacrale dell’arte la identifico nell’anima della scultura; intendo per scultura proprio la forma di quest’anima che attraversa il tempo con la sua presenza concentrica, compatta e solida. Questa scultura si forma e ci informa, facendosi plasmare senza lasciarsi bucare, facendosi penetrare senza lasciarsi svuotare o disfare, dilaniare o annullare. Gli anni Settanta si articolano in una tematica di vuoto, cioè di spazio, di ambiente. Gli ambienti entrano uno nell’altro, ma dentro c’è il vuoto. L’oggetto entra nell’ambiente, ma l’oggetto è mentalmente bucato, è vuoto. E l’intervento nell’ambiente è un’ulteriore detonazione del vuoto, non dà forma al pieno. La pittura riassume l’elencazione di materiali in un unico medium, ma è traforata, insomma, intimamente piena di fessure. La pittura sta sui muri che ci girano intorno lasciandoci ancora nel vuoto.
L’anima della scultura è al centro dello spazio e ogni scultura è un frammento che ricompone il centro. La scultura, questa scultura, è il pieno che si oppone al vuoto dentro l’ambiente e fuori dell’ambiente.
La forma piena si oppone al vuoto della stanza, si legge in modo inverso di come si leggono i muri che formano la scatola architettonica.
Così la scultura si definisce comprimendosi in una silenziosa espansione sia nel finito spazio interno che nell’infinito spazio esterno.
Quando il volume di un’opera d’arte si può chiamare scultura, è anima. E oggi lo è chiaramente e sicuramente perché ricompone e risuscita.
(pubblicato in “Tema celeste”, n. 1, Siracusa, novembre 1983)