La dimensione dei lavori in mostra è costituita dalla distanza che li separa dai precedenti ingrandimenti fotografici, realizzati nel 1969. Allora si trattava di gigantografie degli “Oggetti in meno” nati e fotografati a partire dal 1965. Adesso, nel 1989, si tratta dell’ingrandimento fotografico dei “Volumi” nati e fotografati a partire dal 1985. Sono date che oltre ad indicare due fine-decennio collegano un ventennio.
Questa mostra, intitolata “Immagine” si inserisce nell’Anno Bianco, che ho aperto con un primo annuncio nel gennaio 1989. Dunque essa è un punto nella trama degli avvenimenti che danno la forma del tempo al mio lavoro.
Visitare la mostra in galleria è come sfogliare un catalogo o una rivista d’arte, pagina per pagina. I lavori che precedentemente invadevano l’ambiente ora sono appiattiti, stampati ed allineati lungo i muri. Si sono trasformati in immagine. È una condizione chiara, inevitabile. L’arte crea immagine. Anche se non vuole. Anche se non vuole essere rappresentativa. I mezzi d’informazione e di diffusione producono inesorabilmente la trasformazione dell’opera in immagine, qualsiasi essa sia. Questo fenomeno conduce implicitamente ed automaticamente ad una doppia risultanza: la mitizzazione del prodotto artistico, da una parte e la consumazione dello stesso prodotto, dall’altra. II media moderno perpetua il mito dell’arte quanto ne determina il superamento.
Di conseguenza la dualità che decreta la vita o la morte dell’arte è divenuta l’incidenza cruciale che si ripropone istante per istante.
E poiché l’arte vive nella complessa struttura civile mi pare evidente che lo stesso fenomeno si ribalti nella società.
Questa che potrebbe essere una fragilità, un segno preoccupante, è invece la forza della civiltà occidentale, poiché essa ha modellato la sua crescita culturale ed economica nel continuo rilancio della propria immagine. L’immagine ha costituito da sempre lo stacco necessario alla ricreazione del bene fisico.
La civiltà dell’immagine è vincente su tutti i fronti e di conseguenza fagocita ogni altra cultura. I mezzi di cui dispone sono tali da imporre a chiunque la morte senza che nessuno possa evitare di diventare immagine. Le iconoclastie che oggi si rifugiano nell’astrazione artistica e le rivolte artistiche che si rifugiano nell’iconoclastia agiscono su un piano di monovalenza; dunque non possono più esercitare una efficace opposizione al potere dell’arte bivalente. La parola diventa immagine, il segno diventa immagine, l’architettura diventa immagine, il colore diventa immagine, la fuga dall’immagine diventa immagine.
L’immagine perciò è l’una e l’altra cosa. Essa poteva apparire monovalente quando su di un affresco, un quadro o una statua evocava un solo dogma, un solo aspetto delle cose e un solo momento. Ma da quando il quadro diventa specchiante non ci possono più essere dubbi: è bivalente.
Se nei “Quadri specchianti” astrazione ed immagine coincidono, così come il concetto e la realtà, se nei quadri specchianti si perpetua il procedimento di autocreazione e autoconsumazione dell’immagine, come pure del tempo e dello spazio, nei quadri specchianti anche gli iconoclasti trovano la via d’uscita (o di entrata) appropriandosi dello specchio, prima come materiale, poi come medium bivalente. I volumi della mia “Quarta generazione” diventando fotografie continuano il processo rivolgendolo all’interno dell’arte, lo rendono proprio, riflettono le realtà dell’arte coincidendo con i mezzi del mondo. Senza tradursi in finestre sull’esterno. La portata critica per me deve inserirsi nella lucidità della visione e nella capacita di scomporre, dividere, sezionare, moltiplicare i piani in modo da rendere agibile anche lo spessore della storia e percorribile lo spazio aperto nella nuova dimensione.
(Pubblicato nel catalogo della mostra “Immagine”, Galleria Pieroni, Roma, 1989)